Eh sì, la vita del giovane Bukowski somiglia abbastanza a quella di John Fante. Due disperati in cerca di fortuna e con tanta voglia di scrivere. Sempre in giro, Charles e John, tra bettole e squallide stanze d’hotel. Pochi dollari in tasca, mestieri improvvisati. Charles è sempre brillo, John lo è molto meno. Se “Chiedi alla polvere” di Fante è diventato un classico della letteratura del Novecento, lo dobbiamo soprattutto a Bukowski, fu lui a pretendere dal proprio editore la ripubblicazione di quel libro, letto per caso in una biblioteca pubblica e nel quale, da giovane spiantato, si era riconosciuto. Realismo sporco, così viene definito lo stile di questo outsider della narrativa americana, alla stregua di Hubert Selby jr e William Burroughs, poeti maledetti di una stagione che non ha eredi. Scrittura piana, frasi brevi, volgarità, ma anche sprazzi di poesia e tanta ironia, tanta vita vissuta soprattutto.

“Factotum” esce negli Usa nel 1975; qui da noi arriva vent’anni dopo. È praticamente il romanzo che ha rivelato Bukowski al pubblico italiano. Una storia di sbronze e di lavori precari, tutta on the road; il protagonista, Henry Chinaski – l’alter ego dell’autore – si trascina da una città all’altra degli Stati Uniti “Fare la valigia per me era sempre un momento felice” senza nessuna meta, affidandosi al caso, all’improvvisazione. Henry non ha nessuna voglia di lavorare ma il pallino della scrittura non lo molla. Butta giù racconti in stampatello a “ritmo di record”, ubriacandosi e ascoltando “la Quinta di Beethoven, la Seconda di Brahms”, li spedisce a una rivista newyorchese che quasi sempre glieli restituisce. Henry scrive, beve, scopa. Quanto dista Bukowski da Henry Miller?Disperato, erotico, stomp.
Angelo Cennamo