
La raccolta “Why visit America” (“Perché l’America”), pubblicata negli Stati Uniti nel 2020 e arrivata in Italia lo scorso anno con Sellerio e le traduzioni di Veronica Raimo e Marco Rossari, dopo un primo riscontro favorevole da parte della critica non ha avuto altrettanti consensi in termini di vendite. Non è una novità, penserete: quando mai si è visto che certe robe sperimentali hanno superato la soglia delle mille-duemila copie vendute? Quanto vende in Italia William Vollmann? Matthew Baker – appuntatevi il nome di questo scrittore se nel 2022 dovesse esservi sfuggito – non sarà paragonabile al più anziano Vollmann (i due sono diversi per stile oltre che per questioni di magmaticità), ma è una delle voci più innovative della nuova narrativa Usa, e questa sua raccolta è tra le cose migliori uscite da quel paese da un bel po’ di anni a questa parte (mi vengono in mente tre quattro titoli: “Corpus Christi” di Bret Anthony Johnston, “Il libro dei numeri” di Joshua Cohen, “Topeka school” di Ben Lerner, “L’estate che sciolse in ogni cosa” di Tiffany McDaniel, poco altro). Il look da ragazzo punk: volto emaciato, felpe e giacche di pelle fuori misura, e l’asimmetria della bizarra capigliatura, fa somigliare Baker alla vorticosa rappresentazione dei suoi mondi: stratificati, folli, iperbolici, stupefacenti.
I racconti – “tredici, uno per ogni striscia della bandiera americana” – richiestissimi anche dalle case cinematografiche (per “Ergastolo” si è scatenata un’asta feroce) – ci mostrano un’America del futuro prossimo distopica, o utopica se preferite, ridisegnata col compasso e il righello della provocazione: settantenni improduttivi che decidono volontariamente di uscire di scena, criminali puniti con la rimozione dei ricordi anziché con il carcere, maschi che si lasciano schiavizzare da femmine superbe e dominatrici sessuali.Baker nemico di un Occidente assuefatto al consumo e ossessionato dal desiderio di piacere? Il ragazzo è ironico, diverte e si diverte; in ognuna delle sue storie finiamo per riconoscerci tutti, non ci serve che allungare lo sguardo, proiettarlo poco più in là delle conquiste del digitale, lavorare di fantasia (quello sempre). Racconti spiazzanti, dunque, diversi l’uno dall’altro, (quasi) mai noiosi, coraggiosi/oltraggiosi, originali o emulativi di un’originalità perduta (nella giovane coppia che si mette alla ricerca di uno sponsor per finanziare i costi del matrimonio è impossibile non rivedere la cronologia di “Infinite jest” di David Foster Wallace, anzi sembra quasi che al genio di Ithaca Baker voglia concedere un tributo). Baker lavora per sottrazione, gioca a ribaltare la realtà costruendone una nuova, parallela, secondo la logica dantesca del contrappasso, dispensando equità e giustizia, invertendo regole e convinzioni, e ricorrendo a una scrittura chirurgica, millimetrica, sinuosa quanto basta.
Baker è fluido, camaleontico, sceglie di essere disturbante e cinico; a volte pecca di narcisismo (chi non lo è stato alla sua età?). Scrivere e riscrivere questi racconti più o meno brevi, armonizzarli in un flusso vitale che rifiuta il reale e lo sostituisce con il profetico, inventare questo lungo viaggio, epico, attraverso un’America altra che si riflette nell’America vera, non dev’essere stato facile, il risultato tuttavia mi è parso eccellente: in “Perché l’America” riconosciamo il tratto dei libri imprescindibili, quelli che sfidano il tempo e le mode del momento, sparigliando canoni, generi, architetture, significati. Le esplorazioni di Baker sono state accostate a quelle di Houellebecq, Atwood, Borges, Calvino, prima ho citato Foster Wallace, in una specie di mimesi del tutto cambia ma tutto si tiene, reminiscenze di un cut-up che procede per immagini impresse nella mente: letture precedenti, affinità elettive. Esiste ancora uno spazio incontaminato nella letteratura moderna, una foresta di parole vergini, un suolo lunare levigato e senza orme? Non lo so, ma Baker sembra averlo trovato.
Angelo Cennamo