
“Tutti vogliono possedere la fine del mondo” scrive Don DeLillo nell’incipit di “Zero K”. È la frase che dà inizio al racconto ma che di fatto chiude il cerchio di una narrazione più ampia, iniziata molti anni prima, nel 1985, con un suo libro gemello. “Rumore Bianco” è un romanzo sulla paura della morte, sulla dipendenza dalla tv e la curiosità morbosa per le catastrofi “ogni tanto il nostro cervello si spegne. Ogni tanto abbiamo bisogno di una catastrofe per interrompere il bombardamento incessante di informazioni a cui siamo sottoposti”.
La nuova traduzione di Federica Aceto, uscita più o meno in contemporanea con una discussa versione cinematografica (tradurre in immagini i libri di DeLillo richiede più incoscienza che talento), è una buona occasione per sfogliare di nuovo questo classico della letteratura dei nostri tempi, una delle vette più alte del postmodernismo americano, opera sulla quale poggia buona parte della produzione di David Foster Wallace.
Jack Gladney è un professore di studi hitleriani in un campus universitario dove gli scarti della cultura pop americana hanno oscurato qualunque altra forma di apprendimento. La quarta moglie di Jack, Babette, soffre di vuoti di memoria e di nascosto si sottopone a una terapia sperimentale per superare le proprie ossessioni, le stesse del marito. “Il rimpianto più profondo è la morte. L’unica cosa da affrontare è la morte. Non penso ad altro. Il punto è uno solo: non voglio morire”, dice Jack al suo collega Murray (tra i personaggi più interessanti del romanzo) nelle ultime pagine. È la frase che racchiude il senso del libro agganciandolo al suo gemello, il cui protagonista, Jeffrey Lockart, affida il sogno della resurrezione alla tecnica avveniristica della criogenesi.
DeLillo ci porta nella quotidianità di una famiglia progressista con figli di matrimoni precedenti, larga come la trama del romanzo, che non scorre mai in divenire ma procede in orizzontale attraverso il racconto delle sensazioni e delle manie dei protagonisti “E se la morte non fosse altro che un rumore?”. Il vero problema, dice Heinrich, il figlio sofista e catastrofista della coppia, sono le radiazioni che ci circondano ogni giorno: radio, tv, forno a microonde, fili elettrici. I campi elettrici e magnetici sono la nostra rovina. Il luogo più luogo del romanzo, che è ricco di immagini simboliche come “il fienile più fotografato d’America” – chi scatta la foto non lo fa per catturare un’immagine ma “per consolidarla…fotografano l’atto stesso di fotografare” – è un luogo chiuso, senza finestre, illuminato giorno e notte dai neon, sommerso dalla plastica e dalla carta, involucri, buste, etichette, dal ronzio sottile, quasi impercettibile dell’aria condizionata e dei banconi refrigeranti: il supermercato. Qui la storia si inspessisce di richiami filosofici e sociologici, e si trasforma in una specie di nevrosi collettiva che porterà i personaggi a un vero delirio, dapprima a seguito del deragliamento di un carro cisterna che genererà una nube tossica, poi attraverso la ricerca ossessiva di un farmaco che promette l’annientamento della paura.
Della nuova traduzione di Federica Aceto colpisce prima di tutto la scelta del tempo verbale. “Non ho scelto il passato prossimo perché la vecchia traduzione (di Mario Biondi) era al passato remoto”, ha precisato la Aceto in un suo post su Facebook. Il protagonista narra di eventi passati da non si sa quanto, ma ogni tanto “sbuca il presente nel flusso del suo racconto e già notando questo per me il passato prossimo non dico che si sia imposto ma mi ha bussato sulla spalla. E io ci ho pensato”. Una buona pensata, direi, che è servita a conferire alla narrazione una maggiore scorrevolezza e a renderla emotivamente più calda e coinvolgente. Non credo che la nuova traduzione sia stata dettata da questioni di marketing (l’uscita imminente del film) e neppure motivata dal tentativo di attualizzare il linguaggio dell’opera (la versione di Biondi non è vecchia), piuttosto dalla aspirazione, legittima, di riproporla con una voce diversa.
Angelo Cennamo