Dodici racconti dettati dall’urgenza di condividere un’idea di cambiamento nell’intimità di chi li scrive, poi del mondo esterno. È difficile separare l’attuale condizione di Michela Murgia dalla percezione dei testi che compongono Tre ciotole, alcuni più riusciti altri meno. Un libro dalla forte impronta autobiografica, un libro sul corpo, scritto col corpo. “Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.” Il richiamo a L’anno del pensiero magico di Joan Didion è fortissimo. Qui però la rappresentazione del dolore non è fine a se stessa (non è solo un mostrarsi, consegnarsi al lettore in una imprevedibile nudità) serve a veicolare il Murgia pensiero. Sotto traccia, Tre ciotole è un libro politico. Eccolo il limite di Michela Murgia, il limite di queste storie, scritte sì magnificamente, ma per indicare una rotta e non per lasciarci annegare.
Chuck Palahniuk – si legge Palanik – è nato a Pasco, nello stato di Washington, da genitori di origine ucraina, il 21 febbraio 1962 – stesso giorno mese e anno di David Foster Wallace, con il quale a dire il vero non ha molto da spartire oltre l’oroscopo e una seconda sfavillante coincidenza spaziotemporale: nel 1996 Wallace pubblicò Infinite Jest, Palahniuk esordì con Fight Club, tuttora il suo romanzo più conosciuto.
Dopo la laurea in giornalismo e una breve esperienza radiofonica, il giovane Chuck si è dedicato a ben altri mestieri, dal riparatore di motori di camion, all’assistente di senzatetto e trasportatore di malati terminali. Familiarizzare con un autore non facile come Palahniuk richiede una sincera operazione di ripulitura mentale o reset. Occorre cioè fare tabula rasa delle precedenti letture, specie quelle più lineari, senza strane acrobazie fantasy o distopie o deragliamenti nel postmoderno. Palahniuk è uno scrittore postmoderno? Abbastanza. Nelle storie ordite/ardite di Palhaniuk non ci sono paesaggi riconoscibili, luoghi veramente tangibili oltre camere d’hotel o stanze di ospedale, cessi, cubicoli, corridoi bui, cabine di aereo, palestre, descritti sempre col minimo sforzo cromatico e particolareggiato quasi si trattasse di dettagli rispetto a tutto il resto (Palahniuk è uno scrittore minimalista). È l’inconscio umano il luogo principale dei romanzi di Palahniuk. Tutto accade lì tra sinapsi complicate, tic, nevrosi, attacchi di panico, gesti clamorosi. Quante deviazioni hai, cantava Vasco Rossi. Victor Mancini, il protagonista di Soffocare, è un studente di medicina fallito, sessodipendente e figlio di una delinquente mezza matta o visionaria (dipende dai punti di vista eh) che vorrebbe cambiare il mondo per regalare alla gente storie da raccontare “L’unica frontiera che ci rimane è il mondo dell’intangibile. Tutto il resto è cucito troppo stretto… la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l’immaginazione”.
A Ida Mancini quel mondo sicuro e organizzato non piace, è senza eccitazione. Manca l’ebbrezza. Ida gode nel caos. “Le leggi che ci permettono di vivere sicuri sono le stesse che ci condannano alla noia”. Per sostenere le cure costosissime alle quali Ida si sottopone in ospedale, Victor ha architettato un sistema ingegnoso, degno dell’inventiva della vecchia madre: nei ristoranti finge di soffocare per via di un boccone andato di traverso, attirando così l’attenzione e la solidarietà di clienti che correndo in suo soccorso possono dare un senso alle loro vite anonime, riscattarsi. Lo stratagemma ideato da Victor non è tuttavia il vero centro della storia, così sembra leggendo la sinossi. L’idea di fondo è piuttosto quella di raccontare come l’impostura sia la sola via di fuga in un mondo refrattario alla verità e all’onestà dei sentimenti. Ida, Victor, il suo amico Denny, Paige Marshall, la dottoressa che ha in cura la madre di Victor al St Anthony, sono solo uomini e donne alla disperata ricerca d’amore.
I caseggiati di Commonwealth, nella periferia di Boston, sono un Bronx di bianchi “le facce sono del bianco più bianco che tu abbia mai visto”. La storia raccontata da Dennis Lehane, sceneggiatore proprio di Boston e autore di bestseller tradotti in oltre trenta lingue (Mystic River e Shutter Island su tutti), prende spunto da un fatto veramente accaduto: il 21 giugno del 1974 un giudice accertò che l’ufficio scolastico della città aveva “sistematicamente svantaggiato le scuole pubbliche frequentate da alunni neri”. Per rimediare, il giudice stabilì che le popolazioni scolastiche della Roxbury High School e della South Boston High School si sarebbero mescolate attraverso reciproche migrazioni di studenti. La contaminazione etnica auspicata – tema in Italia dibattuto proprio nei giorni in cui è stato pubblicato il romanzo, ovvero mezzo secolo più tardi rispetto ai fatti del libro – scatenò proteste violentissime alimentando nuovo odio.
A Mary Pat Fennessy, sangue irlandese, una vita spesa tra case popolari e lutti familiari, sulla soglia dei quarant’anni le resta una sola ragione per vivere: la sua ultima figlia. Jules ha diciasette anni. Una notte esce con tre amici ma non torna più a casa. Mary Pat ha già perso un marito quando era giovanissima e il primo figlio per overdose. Mary Pat non può permettersi altri crolli, nuovi incubi, sarebbe la fine. Nella stessa notte in cui si perdono le tracce di Jules, viene assassinato in circostanze tutte da chiarire un ragazzo di colore. Si chiama Auggie Williamson. Dopo le prime indagini, sembra che i destini dei due giovani (Jules e Auggie) siano legati da un doppio filo. Mary Pat, che non è solo la protagonista assoluta del romanzo ma anche uno dei personaggi femminili migliori della storia del crime americano (mi assumo la responsabilità di quello che scrivo) capisce poco di diritti civili, la sua sopravvivenza dipende da cose tangibili: il denaro (che non basta mai), il cibo, le bollette da pagare, un’auto vecchia e scassata che la porta ancora in giro chissà per quale miracolosa legge della meccanica. May Pat “non può avercela con la gente di colore perché vuole andarsene dal merdaio in cui si trova, ma voler venire nel merdaio in cui si trova lei non ha alcun senso”. Quel posto è solo più bianco ma non è migliore dell’altro. Piccoli atti di misericordia è una storia di fallimenti e di infelicità che non hanno colore, di uomini e donne sconfitti senza alcuna possibilità di riscatto. La guerra tra poveri messa in scena da Lehane, con dialoghi serrati che occupano gran parte del testo, è un’infamia nell’infamia. La vicenda pubblica si riflette sì in quella privata delle famiglie Fennessy e Williamson ma in modo distorto (in una delle parti più toccanti del romanzo, Mary Pat incontra i genitori di Auggie). Piccoli atti di misericordia non si può liquidare come una delle tante storie di razzismo – scritta tra l’altro da un bianco di origini irlandesi, fatto abbastanza insolito nella narrativa americana. È molto di più: un romanzo sull’essere madre, sui sensi di colpa, sul male dal quale nessuno può sentirsi immune (il detective Bobby Coyne lo sa bene, Bobby è un uomo fragile, perennemente in bilico tra l’applicazione della legge e l’umana comprensione, la misericordia). È soprattutto un romanzo sulle donne e sul coraggio delle donne. Mary Pat è tra l’Anna Magnani di Mamma Roma e l’Agnes Bain del romanzo di Douglas Stuart (Storia di Shuggie Bain), altro personaggio femminile straordinario della letteratura dei nostri tempi. Nelle ultime pagine il noir diventa thriller, il thriller dramma: corpo, cuore, sangue, vendetta, sconfitta. Ancora. Ancora. Ancora. Bellissimo.
Philip Roth, John Updike, amici, rivali, accomunati da un insolito destino: entrambi tacciati di sessismo, di misoginia per una rappresentazione del rapporto uomo donna eccessivamente machista e/o patriarcale. Coppie, la saga di Coniglio, Lamento di Portnoy, Il professore di desiderio, Il teatro di Sabbath, romanzi di punta nell’immaginario critico di certe sensibilità. “Un pene con un grande vocabolario”, così una volta David Foster Wallace definì Updike. Niente Nobel. Autori di sintesi, tra realismo e sperimentalismo, con il primo che per l’altro prova un’ammirazione che sconfina quasi nell’invidia. Quella famosa riflessione di Roth sulla capacità di Updike di documentarsi su tutto prima di scrivere, mentre lui, che viveva in campagna, non conosceva neppure i nomi degli alberi, mette in luce una prerogativa di Updike che fa la differenza in una possibile o impossibile comparazione tra i due. Roth si è concentrato sugli aspetti immateriali dell’esperienza umana: la vita, la morte, l’amore in tutte le sue forme, l’odio, la famiglia, la religione, la malattia, la verità e la finzione, la scrittura soprattutto. Updike ha esplorato la materia, è entrato nei dettagli della quotidianità, ma nella quotidianità dell’uomo qualunque più che degli intellettuali o degli uomini d’affari che popolano l’universo borghese dello scrittore di Newark. Il realismo pragmatico, il precisionismo di Updike riempiono un vuoto che Roth non ha mai pensato di dover colmare.
Vado dritto al punto. Ho faticato molto a terminare la lettura di questo romanzo. Ho faticato molto ma volevo/dovevo leggerlo fino all’ultima pagina perché un autore come Ian McEwan merita rispetto. Un autore come McEwan non lo si può liquidare neanche a metà strada, a pagina 220, più o meno il punto in cui stavo meditando di chiudere il libro. Ci vuole stile anche in queste piccole cose. Ma andiamo avanti. Di McEwan ho amato storie come Espiazione, Miele, Amsterdam, Nel guscio… Lezioni è arrivato in libreria sull’onda e la spinta di tre quattro recensioni efficaci, credibili soprattutto. Una su tutte quella di Sandro Veronesi, che per questo libro ha speso parole importanti: “Il più bel romanzo del secolo”, ha scritto il due volte premio Strega sull’inserto del Corriere della sera. E Le correzioni di Franzen, Gilead di Robinson, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Chabon, La macchia umana di Roth, Notturno cileno e 2666 di Bolaño, Piattaforma e Serotonina di Houellebeq? Mah. Lezioni è un romanzo furbo e in alcune parti palesemente furbo. L’idea di raccontare la storia del Novecento mescolandola alle vicende private del protagonista, l’everyman britannico Roland Baines, a me è sembrata poco originale e con degli intarsi narrativi inutilmente vischiosi. Chi è davvero Roland Baines?, si chiede l’editore nella sinossi del libro. La vita di Roland, con la sua infanzia libica che ricorda molto quella di Mike Balistreri nella trilogia del male di Roberto Costantini, è segnata anzi marchiata a fuoco da tre donne. La biografia di Roland avrebbe avuto ben altra consistenza se fosse stata contenuta nel binario privato, spogliata cioè di quel contorno sociologico, politico che l’appesantisce facendola perfino scomparire, in alcuni passaggi, tra le pieghe di fatti poco rilevanti o dispersivi. Il rapporto tra il piccolo Roland e la lussuriosa Miss Miriam Cornell, che McEwan introduce già nel primo capitolo, ci cattura subito. È l’elemento più attrattivo del romanzo. Miriam punisce gli errori dell’allievo con dei pizzicotti sulle gambe e premia i pezzi di bravura con baci sulla bocca. Ma attenzione, c’è dell’altro, ed è difficile immaginare, finché non l’avrete letta, la spericolata evoluzione che l’autore imprime a questa lunga sequela di appuntamenti prurigino-musicali. Prima di Miriam c’è la madre di Roland, Rosalind, figura algida e intransigente, per quasi mezzo secolo sotto il comando del marito Robert, veterano della Seconda guerra mondiale in servizio nel Nord Africa. La terza donna è Alissa, la moglie di origini tedesche, che di punto in bianco scompare lasciando Roland da solo con Lawrance, il figlio di pochi mesi “il bambino che non era stato nei suoi piani e che non sentiva il bisogno di amare”, tra i sospetti della polizia che non esclude il più tragico degli epiloghi. La fuga di Alissa somiglia a quella di Rachel, la madre del piccolo Dylan nel capolavoro di Jonathan Lethem ( La fortezza della solitudine). La parabola esistenziale di Roland è costellata di delusioni e da un logorante senso di inadeguatezza. Il musicista promettente diventerà prima intrattenitore da pianobar, poi un aspirante scrittore costretto ad arrangiarsi inventando frasi per biglietti di auguri. Gli abusi, i soprusi lasciano ferite profonde ma quelle lezioni serviranno a Roland a dare un significato nuovo ai giorni che verranno, a capire qualcosa di sé, qualcosa su cui non si era mai soffermato prima. Nel frattempo, come dicevo, intorno a lui scorre la storia: il crollo del muro di Berlino, la crisi dei missili a Cuba, i governi di Margaret Thatcher, la guerra in Iraq, la recente pandemia da Covid. Nel progetto di McEwan Roland ne deve fare parte, ma il ruolo sembra forzato, Roland è fin troppo consapevole del flusso che gli passa accanto. Ed è questo che non convince del romanzo: l’incredibile centralità del borghese picolo piccolo nel susseguirsi di grossi eventi destinati a cambiare l’umanità.
“Questo libro è ispirato ai Racconti in un palmo di mano di Yasunari Kawabata, che amo rileggere prima di dormire, nei cinque minuti tra quando mi metto a letto e quando spengo la luce”.
Da qualche anno minimum fax, per una ragione più vicina al cuore che al portafogli sta ripubblicando tutte le opere di William T. Vollmann, scrittore californiano sulla sessantina, piuttosto impegnativo, che in Italia vende meno di certi Nobel dal cognome impronunciabile, ma che di fatto va annoverato tra i migliori autori contemporanei, e non solo per la qualità della sua scrittura (toni, registri, stili) ma per l’abilità con cui sa destreggiarsi tra fiction (lunga o breve che sia) e autofiction, reportage giornalistico e saggio sociologico. Insomma, Vollmann sa scrivere tutto e di tutto. L’Atlante è una raccolta di racconti, dissertazioni, appunti di viaggio, uscita negli Stati Uniti nel 1996 (l’anno di Infinite Jest di Wallace e Fight Club di Palahniuk) che Vollmann ha pensato di organizzare secondo una struttura palindroma: il primo testo è ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo e così via. L’atlante (titolo perfettamente in linea con il senso del libro, che è proprio un insieme di storie scritte e/o raccolte in giro per il mondo, dalla Somalia a Ercolano, da San Francisco alla Thailandia) è un tomo abbastanza voluminoso, circa cinquecentocinquanta pagine, da tenere sul comodino e da leggere, come suggerisce lo stesso autore, senza dover seguire un ordine particolare e senza alcuna fretta, magari saltando le parti giudicate più noiose. Ne L’atlante ci puoi entrare a pagina 57 come a pagina 423, fa lo stesso. Gli argomenti sono i più disparati, ma ciò che viene fuori in molti dei testi – come spesso accade nelle narrazioni di Vollmann – è un’umanità in affanno e ai margini: uomini e donne sotto le bombe o colpi di artiglieria, fuggiaschi, prostitute, tossicodipendenti, ragazzini costretti a vivere come adulti, uomini schifosi come quelli delle Brevi interviste, perfino Pietro, il discepolo di Cristo. Leggere Vollmann è un’esperienza che difficilmente si può paragonare ad altre letture; la sua prosa massimalista, anche nel tratto brevissimo, è un’onda che ci spinge fuori dal quotidiano. Vollmann scrive usando il corpo secondo criteri empirici più vicini al giornalismo che alla narrativa. Per raccontare I poveri Vollmann vive tra i poveri, per scrivere di bikers gira in moto, e per capire cos’è la guerra ci si butta dentro. Non so quanto abbia venduto questo libro ma chissenefrega, è un capolavoro.
È il primo romanzo scritto da Jonathan Lethem ma fu pubblicato nel 1995, un anno dopo “Concerto per archi e canguro”. In Italia è arrivato senza fortuna nel 2003 con minimum fax, che in questi giorni ha deciso di riportarlo in libreria con una nuova e sgargiante veste grafica e la traduzione di Martina Testa. Il Lethem di “Amnesia Moon” non è lo scrittore maturo di “Brooklyn senza madre” e “La fortezza della solitudine”, forse lo zenit della sua produzione letteraria, ma nel romanzo troviamo una geniale combinazione di talento innato e di empirismo narrativo (si vede che Lethem ha letto molto, osservato, carpito), che rende il flusso del racconto quasi ipnotico. Il tema della perdita di memoria “Amnesia” Lethem lo aveva già saggiato e portato ai lettori con un racconto uscito in Italia sempre con minimum fax un paio di anni prima, “Cinque scopate” (“Five Fucks”), incluso in una raccolta intitolata (vado a memoria) “L’inferno comincia in giardino”, che avremmo letto in sei o sette. Definire “Amnesia Moon” uno strano romanzo sarebbe il minimo, ma l’aggettivo strano, per quanto banale, trovo che sia il più appropriato a definirlo. Tutti i personaggi della storia soffrono di amnesia, hanno dimenticato i loro nomi, cosa facevano e com’era il mondo prima che venisse sconvolto da una catastrofe (una guerra?) di cui si sa poco o nulla proprio perché nessuno è in condizione di ricostruire i fatti. Tra i personaggi spicca la figura di Chaos, il cui vero nome (prima del misterioso evento) è Everett. Chaos ha dimenticato la propria identità ma anche il suo amico Cale Hotchkiss e la donna di cui è (era) innamorato, Gwen. Non sa neppure spiegarsi cosa ci fa in quella cittadina dello Wyoming, Hatfork, e per quale maledetta ragione i suoi abitanti sopravvivano come disperati mangiando cibo in scatola. Uno dei temi del romanzo è il viaggio. Come un apocalittico Sal Paradise, Chaos se ne va in giro tra i piccoli universi, tra loro diversissimi, di questa landa devastata forse da una tragedia nucleare: White Valnut, Vacaville, luoghi governati da nuove leggi e le cui realtà, come in un celebre romanzo di Ursula K. Le Guin, sono alterate/condizionate dai sogni. Il viaggio di Chaos in questa terra frammentata e disunita, è anche il viaggio di Lethem tra i suoi maestri; non solo Le Guin, tra le pagine del romanzo vengono fuori Franz Kafka, Philip K. Dick e altro. Gli americani costruiscono il proprio successo sulla rimozione del passato: ricordate la banda di sfigati di Stephen King che ha dimenticato di aver combattutto “It”? Ecco, credo che Lethem abbia voluto dirci più o meno la stessa cosa.
“Se hai letto i miei romanzi, sai già assolutamente tutto di me. Quindi questo libro è solo una nuova puntata, e i particolari spesso sono utili…”.
“La storia da dentro” – 657 pagine più note, Einaudi, traduzione di Gaspare Bona – è uscito in Italia accompagnato dalla più funesta delle promozioni possibili: la morte dell’autore avvenuta poche ore prima della pubblicazione. Martin Amis aveva settantrè anni, la stessa età in cui è morto suo padre Kingsley, anche lui noto scrittore, anche lui portato via dal cancro.
“Com’è che ne andrò di qui? In che modo, con che mezzo?”.
“Tentai questo libro più di un decennio fa. E fallii”. Gli scrittori muoiono due volte, la prima è quando restano bloccati davanti alla pagina bianca. In quei casi è del tutto inutile sforzarsi, Amis lo sa “La maggior parte della narrativa, compresi i racconti, ha origine nel subconscio. Spesso la senti arrivare. Una sensazione squisita. Nabokov la definiva ‘un fremito’, Updike ‘un brivido’: una senzazione di feconda immobilità. Il subconscio ti mette sull’avviso: senza saperlo hai continuato a covare qualcosa. La narrativa arriva da lì, da un’ansia silenziosa. E adesso tu ha dato un romanzo da scrivere”.
Un libro mondo: memoir, diario di viaggio, raccolta di appunti, saggio di scrittura…”Il libro parla di una vita, la mia, quindi non sembrerà un romanzo, piuttosto una raccolta di racconti collegati fra loro, con divagazioni saggistiche”. Amis però ne parla come di un romanzo, e allora romanzo sia, un romanzo frastagliato, disarticolato, con parti di metanarrativa, con una prima persona che diventa terza e con Martin che indossa i panni del protagonista del racconto. Lo si può leggere a pezzi, saltando le pagine più noiose (ce ne sono diverse: chi scrive un’autobiografia pensa a, seleziona il materiale importante per lui e di riflesso immagina che quei fatti possano risultare interessanti anche per i lettori, ma non è sempre così), senza seguire l’ordine dei capitoli, senza fretta, entrando a metà libro, magari alternandolo ad altre letture.
Di quest’opera ci rimmarranno impresse soprattutto due cose. La prima: i consigli sulla scrittura “I consigli sulla scrittura vanno sempre presi alla leggera. Gli scrittori devono scoprire da soli la propria voce”; la seconda: il racconto dell’amicizia con Philip Larkin e soprattutto con Saul Bellow, un nuovo padre per Amis; le curiosità sui suoi cinque matrimoni, i fiumi di denaro guadagnati con “Herzog” e “Il dono di Humboldt”, il viaggio insieme in Israele, il difficile rapporto con l’ortodossia ebrea, il morbo di Alzheimer che lo ha spento poco alla volta. Stessa sorte toccata anche a un’altra nota scrittrice citata: Iris Murdoch. Tenero e commovente il ricordo di lei rannicchiata sul divano a guardare una puntata dei Teletubbies.
“Se l’Atlantico fosse stato una donna o un uomo, avrebbe potuto vendicarsi sputtanandolo in un romanzo. Ma i romanzi erano finiti, come la storia”. Sì, le pagine migliori del libro sono decisamente quelle dedicate al premio Nobel di Lachine.
“L’ultima pagina di ‘La storia da dentro’ è ormai visibile a occhio nudo. Finire un romanzo di solito provoca una cupa soddisfazione con una traccia di tristezza. Ma in questo momento le emozioni stanno assumendo una configurazione completamente diversa… In ogni caso, amico mio, immagino che questo sarà il nostro commiato”. Buon viaggio, Martin.