Nel 1971 John Fante è un discreto sceneggiatore hollywoodiano con un passato da scrittore di insuccesso. Oddio, nel 1957 con Full of Life (“L’ho scritto per soldi, non è un buon romanzo”, scriverà in una lettera), una certa visibilità se l’era pure guadagnata. Manca ancora qualche anno a La Confraternita dell’Uva, il capolavoro della maturità che sfiorerà il cinema con Francis Ford Coppola, Fante butta giù un centinaio di cartelle sperando che il suo editore possa farle diventare un romanzo. Non c’è verso: Il Mio Cane Stupido uscirà solo quindici anni dopo, quando lo scrittore di Denver è già passato a miglior vita. Del resto, la sua è una lunga storia di ripubblicazioni pretese dal discepolo Bukowski e di successi postumi, basti pensare a Chiedi alla Polvere o a La Strada per Los Angeles.
Come La Confraternita, anche Il Mio Cane Stupido doveva diventare un film (con Peter Sellers e Frank Sinatra), poi però non se ne fece niente. Il protagonista del romanzo è Henry Molise, l’alter ego della seconda parte della carriera di Fante. Henry è uno scrittore di mezza età, disoccupato, costretto a mantenere la famiglia scrivendo per il cinema. Sogna di cambiare vita, di andarsene a Roma tra i suoi veri compaesani. Ha una moglie, Harriet, stufa di lui e quattro figli che non gli somigliano per niente. Quattro spine nel fianco. La comparsa in giardino di un cane randagio (Stupido), sornione ma perennemente eccitato, lo aiuterà ad uscire da quello stato di avvilimento nel quale è piombato da molti mesi. Stupido non sarà particolarmente educato, obbediente, ma ha una dote che a Henry manca: il coraggio, la sfrontatezza. Quando Stupido si scontra con gli altri cani del vicinato e li sodomizza, Henry gioisce. Ne è fiero. Stupido ha tolto a Henry la pace, la poca che gli è rimasta, ma quella strana bestia, grossa, pelosa, goffa, scomposta e arrapata, è la sua rivincita, il riscatto contro l’insuccesso dei libri rifiutati o poco venduti, le auto che non si è potuto permettere, le donne che lo hanno respinto. Un romanzo breve, divertentissimo e amaro come tutte le storie di Fante. Una meraviglia.
Di Bentley Little, scrittore sessantenne dell’Arizona, si sa poco; Little ha un’indole solitaria, non ama i circuiti letterari né i social, e l’isolamento che si è autoinflitto da quando ha iniziato a scrivere contribuisce ad alimentare intorno alla sua figura una specie di aura leggendaria (Salinger e Pynchon docent). The Consultant, pubblicato negli Usa nel 2022 e arrivato in Italia quest’anno con l’editore Vallecchi e la traduzione di Ariase Barretta, è il suo ultimo romanzo. Tutta la vicenda è ambientata all’interno di una società californiana di software. La CompWare – questo il nome della società – naviga in cattive acque, e la mancata fusione con un’altra azienda, fallita per un soffio, ha finito per acuirne la crisi in modo irreversibile. Austin Matthews, l’amminisrratore delegato, gioca la sua ultima carta ingaggiando uno staff di consulenti affinché gli analizzino le ragioni della crisi e gli diano dei suggerimenti per rimediare al dissesto e invertire la rotta. Si chiama BFG, nessuno sa cosa significhi l’acronimo, ma le credenziali di questa società di consulenza sono le migliori possibili. Regus Patoff è il volto della BFG. La mente. La voce. Insomma la BFG è Regus Patoff e nessun altro. Patoff è uno dei due protagonisti del romanzo, un horror aziendale che nelle sue trecentottantasette pagine, fittissime, racchiude l’eterna lotta tra il bene e il male. Il bene è Craig Horne, dirigente della CompWare. Craig è sposato con Angie e ha un figlio di nome Dylan, un bambino sensibile alla lettura e così innamorato del padre che non vorrebbe mai separarsene. La storia della CompWare viene raccontata parallelamente a quella della famiglia di Craig, normalissima, piuttosto unita. Le due trame sono indissolubilmente legate fra loro non solo per le ripercussioni nel privato della crisi societaria ma perché la BFG a un certo punto della storia arriverà ad occuparsi anche del Pronto Soccorso dove lavora Angie. Regus Patoff ci viene descritto come un uomo alto, magro, dallo sguardo gelido. La sua natura è compressa da Little in una dimensione umana che sembra avere diverse eccezioni. La CompWare cambia forma e struttura come La Casa di Foglie di Mark Danielewski. Patoff manda centinaia di mail in poche ore, compare misteriosamente nel salotto di Craig e di Matthews senza preavviso. Apprende con cinica soddisfazione delle numerose morti sospette all’interno dell’azienda, al punto da far ritenere che dietro quelle sparizioni ci sia proprio lui. Patoff è un mostro: sottopone i dipendenti della CompWare a continui colloqui videoregistrati e preceduti da preghiere. Spia il personale anche nell’intimità e lo costringe a seguire standard estetici e alimentari. Insomma, da controllore la BFG si trasforma in una specie di cancro che divora tutto (anche la dignità), dal quale la controllata non riesce più a liberarsi. Quanto durerà quel regime orwelliano? Sono lecite le restrizioni e le umiliazioni che Patoff impone agli impiegati della CompWare? Se lo chiedono tutti. Eppure qualunque soglia di tollerabilità venga superata né Matthews né Craig riescono a porre fine a quella assurda sudditanza.
The Consultant è una straordinaria parabola sulla violazione della privacy e sulla manipolazione. Little, non a caso laureato in comunicazione, ci mette in guardia dal potere della politica, della pubblicità, e dei social. Nel romanzo non mancano spunti di macabro umorismo. Tutto corre sul filo del paradosso, della rassegnazione e del mistero, alla maniera di certe trame di Stephen King, scrittore dal quale Little sembra aver preso molto. Che ne sarà di Craig Horne e di Regus Patoff? Buona lettura.
1987, uno studente universitario di Ithaca (NY), cresciuto nel Midwest, riscrive la propria tesi di laurea in filosofia e ne fa un romanzo bislacco folle ma per tante ragioni destinato a lasciare un segno nella letteratura americana, in quegli anni alle prese col minimalismo di personaggi come Carver, Ellis, Leavitt, McInerney. Si chiama David Foster Wallace, di lì a poco diventerà uno degli scrittori più innovativi della sua generazione, e a seguito della morte, avvenuta per suicidio a soli quarantasei anni, una vera e propria figura di culto. Definire lo stile di Foster Wallace è complicato anche per un linguista arguto come Stefano Bartezzaghi che del suo romanzo di esordio ha curato la prefazione italiana per conto di Einaudi. Postmoderno, si è detto. Ma c’è dell’altro. La scrittura è vertiginosa, ellittica, in alcuni passaggi ostica, incomprensibile, in altri più snella perché Wallace sa tradurre, scomporre pensieri complessi e rivestirli di nuove forme pop, avvicinare l’alto al basso, ispezionare la mente dei suoi personaggi, destrutturare sinapsi, offrire al lettore secondi e terzi punti di osservazione.
La Scopa del Sistema racconta le avventure di Lenore Beadsman, una ragazza fragile e insicura che si mette alla ricerca della bisnonna novantenne (ultima allieva del filosofo Wittgenstein), fuggita misteriosamente dalla casa di riposo insieme a un folto gruppo di altri pazienti e infermieri. Tutto quello che accade nelle cinquecentosettantacinque pagine del romanzo: la difficile relazione – diciamo pure l’impossibile relazione – tra Lenore e Rick Vigorous, l’ultraquarantenne conosciuto nello studio di uno psicanalista; la popolarità di Vlad l’Impalatore, l’uccellino che recita sermoni religiosi su una tv via cavo (in Telegraph Avenue di Michael Chabon c’è un pennuto che gli somiglia molto – Telegraph Avenue è uscito nel 2012); i problemi di tossicodipendenza del fratello minore di Lenore, LaVache, ragazzo nato con una sola gamba; insomma tutta questa proliferazione di storie, ognuna delle quali costituisce un romanzo dentro il romanzo, fa da corollario alla traccia centrale del libro che è proprio l’assenza della bisnonna filosofa. I pezzi cuciti da Wallace intorno alla vicenda della scomparsa non seguono una linea retta, la struttura è volutamente disarmonica, con una punteggiatura avventurosa, ma l’incastro tra le diverse sottotrame è efficace così come l’alternarsi degli spunti comici alle parti più filosofiche, i continui richiami agli studi dell’anziana fuggiasca: aporie, antinomie, messaggi cifrati; dettagli oscuri, in alcuni casi indigesti, che tuttavia stimolano la curiosità del lettore attirandolo in un vortice ipnotico. Ho riletto per l’ennesima volta La Scopa del Sistema, complice la nuova edizione curata da Sandro Veronesi per il Corriere della sera con la prefazione di Edoardo Nesi – la scelta di Nesi non è casuale, Nesi è il traduttore di Infinite Jest – anche per testarne la resistenza al tempo: Wallace è un autore generazionale? Quante volte ce lo saremmo chiesto. Direi di no; a distanza di anni, se possibile, ho trovato il romanzo migliorato, come se a ogni rilettura si sprigionasse una nuova brillantezza, si consolidasse il mito. Quando La Scopa fu pubblicato non mancarono voci dissonanti di chi contestava a Wallace un eccesso di narcisismo e liquidava la sua opera prima come un vibrante esercizio di stile, nulla di più. In verità il romanzo funziona in ogni sua parte, perfino nei cazzeggi, ma per comprenderne appieno il senso: 1) non va persa di vista la sua fase embrionale, e cioè la tesi di laurea dell’autore, che viene fuori in diversi passaggi del testo, per esempio nelle trascrizioni delle sedute terapeutiche tra Lenore e il suo psichiatra o nei dialoghi tra Lenore e il fratello LaVache all’Amherst College; 2) va inclusa tra i protagonisti la figura invisibile di Wittgenstein. La presenza di Wittgenstein è consustanziale rispetto all’assenza di Lenore. Di più, i due sono praticamente la stessa cosa. Wittgenstein giudicava il linguaggio come un insieme di “giochilinguistici” dove il significato di una parola è l’uso di quella parola in un particolare contesto. Ecco allora la chiave di volta: siamo fatti di parole, non esiste realtà oltre il linguaggio, “La vita è il suo racconto” dice Lenore al suo psicanalista. Ma questo assioma vale anche per gli osceni sproloqui di Vlad l’Impalatore o gli animali parlanti ne sono esclusi? Dicevo di Wittgenstein, è la password per accedere e decriptare tutta l’opera di Wallace, non solo questo libro, basti pensare allo strapotere della pubblicità negli anni sponsorizzati di Infinite Jest. Quanto all’esuberanza o alla spregiudicata esibizione del talento (a ventiquattro anni certi virtuosismi non richiesti si possono anche perdonare, specie a chi possiede simili armamentari linguistici) questa non inficia la superba tessitura del romanzo, non mina la tenuta del plot, al contrario aggiunge qualità e brio al racconto, che dall’inizio alla fine non conosce cali di tensione né si perde in futili digressioni. Se non avete ancora fatto esperienza di David Foster Wallace, non perdete altro tempo. Cominciate da qui.
Lessi da qualche parte un’intervista a Paolo Granata, docente di cultura dei media all’università di Toronto, circa le preoccupazioni piuttosto diffuse sull’applicazione dell’intelligenza artificiale nei vari contesti, a cominciare dall’insegnamento. Uno dei possibili effetti della sua introduzione, spiegava il prof. Granata, sarà quello di rilanciare l’oralità, cioè far prevalere la parola detta su quella scritta, con quest’ultima relegata a un ruolo di mero supporto rispetto all’altra. Le parole di Granata mi sono venute in mente leggendo Rabbia di Chuck Palahniuk, romanzo che per la sua particolare tecnica narrativa, precisamente quella del racconto orale, è assolutamente in linea con questa nuova tendenza. Il romanzo, costruito con una polifonia insolita, è infatti una raccolta di testimonianze di amici e conoscenti di Buster “Rant” Casey, un giovane abitante di Middleton, cittadina sperduta nel cuore degli Stati Uniti, attraverso le quali l’autore imbastisce una bizzarra biografia del personaggio. Rant è morto tragicamente, diciamo pure stupidamente, in un incidente d’auto capitato però non per caso: Rant è rimasto vittima di un rituale da lui stesso architettato con altri ragazzi di Middleton, un gioco pericoloso che riproduce l’autoscontro dei luna park nelle strade della città con auto vere e lanciate a forte velocità, il Party Crashing. Che l’America di Palahniuk fosse un paese malato e votato all’annientamento lo avevamo capito fin dal libro d’esordio, Fight Club (1996). Come molti altri personaggi di Palahniuk, Rant Casey è sobillato da un disagio ingovernabile, Rant non si riconosce nella condizione tipica dell’uomo occidentale progredito, forgiato dalla pubblicità e dalla cultura di massa. Nel suo caso però Palahniuk aggiunge due ulteriori elementi di insofferenza o destabilizzazione: la monotonia e l’arretratezza della provincia. Una routine dalla quale il giovane protagonista fugge violando ogni convenzione, ordine precostituito, regola morale e civile “Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia è perché così poi può sognare di tornarci. E il motivo per cui resta è per sognare di andarsene”.
L’identità di Rant viene fuori da mille frammenti diversi che Palahniuk ha assemblato come delle Brevi Interviste Sull’Uomo Schifoso, per dirla alla Foster Wallace. Il tracciato di un’esistenza leggendaria ma senza gloria di un folle o un assassino o entrambe le cose che ha portato la morte a migliaia di persone attraverso il contagio “Se non hai mai avuto la rabbia, non puoi dire di aver vissuto…Rant Casey si è sempre cercato una morte orribile, fin dalle elementari. Serpenti o rabbia”. Pur assestandosi in una dimensione cinica e drammatica, Rabbia non manca di spunti comici, talvolta esilaranti, ed è farcito di citazioni e aforismi entrati ormai nel lessico familiare di una certa bolla letteraria. Le storie di Palahniuk sono tanto credibili quanto inverosimili ma è proprio questa contraddizione a renderle speciali e a tenerle fuori da ogni possibile classificazione o declinazione distopica. Nel bene e nel male, Palahniuk è uguale solo a se stesso.
L’ultimo romanzo della Border Trilogy di McCarthy esce nel 1998, a ridosso di una manciata di capolavori la cui concentrazione temporale ha pochi precedenti nella letteratura americana: Fight Club (Chuck Palahniuk), L’Atlante (William Vollmann) e Infinite Jest (David Foster Wallace) nel 1996; Underworld (Don DeLillo), Mason & Dixon (Thomas Pynchon) e Pastorale Americana (Philip Roth) nel 1997. Proprio nel ’98 il libro di Roth si aggiudica il Pulitzer, McCarthy invece lo vincerà un decennio più tardi con La Strada. Nel terzo episodio della serie ritroviamo John Grady Cole e Billy Parham in un ranch tra il Messico e il Texas ad allevare cavalli e ad ascoltare storie di vecchi cowboy. Siamo nei primi anni Cinquanta, un tempo di confine, con il west ormai al crepuscolo e una nuova sfida che bussa alla porta, forse la più difficile di tutte per il giovane ma non più giovanissimo protagonista: provare a cambiare il corso degli eventi e sfuggire a un destino già segnato. Città della Pianura è fondamentalmente una storia d’amore e come ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, direbbe Wallace. Lui, lei, l’altro. Lei è Magdalena, la prostituta messicana appena sedicenne che John conosce per caso in un bordello. L’altro è Eduardo, il protettore della ragazza. La vicenda amorosa occupa solo una parte del romanzo ma è la parte migliore, quella che salva tutto il resto da una narrazione che altrimenti risulterebbe ripetitiva e portata troppo per le lunghe, soprattutto se sommata ai due capitoli precedenti (Cavalli Selvaggi e Oltre il Confine). L’amore impossibile, l’amore contrastato tra John e Magdalena non è solo raccontato attraverso i momenti di intimità dei protagonisti ma si riverbera in due passaggi decisivi del romanzo: il dialogo tra John e Billy, con il primo che chiede all’amico di varcare il confine per andare a trattare l’acquisto della “schiava” del sesso; il redde rationem tra l’aspirante sposo e il cinico dominus, anche lui innamorato della ragazza o dell’idea di possederla. La tragedia che si consuma nelle battute finali, il sangue versato, chiudono la storia personale ma anche un’epopea che pochi hanno saputo tramandarci meglio di McCarthy, ultimo cantore di un’America spietata e avventurosa, e di una libertà che non conosce limiti. Città della Pianura è forse il romanzo meno riuscito della trilogia ma è la giusta conclusione di un’epica che aveva fino ad ora esplorato l’intero spettro dei sentimenti umani tranne uno: l’amore negato, l’amore da vendicare.