In Italia uscirà il 21 novembre con Einaudi e la traduzione di Cristiana Mennella, ma è già disponibile nella versione inglese. Romanzo breve che si divora in poche ore. Alla soglia dei settant’anni, Seymour Baumgartner si interroga sul passato felice con Anna, la moglie oggi assente, e sui giorni che gli restano. Il flusso di malinconica coscienza ricorda quello del penultimo Bascombe (Tutto potrebbe andare molto peggio). “La vita è una questione di sottrazione graduale” dice l’everyman di Richard Ford, Seymour ha perso la cosa più preziosa che aveva: Anna. L’approccio di Seymour non è all’altezza della stessa saggezza di Bascombe, uomo cinico e dalla corteccia dura. L’alter ego di Auster (il romanzo è stato scritto durante un delicato ricovero ospedaliero dell’autore) ha un che di romantico che lo rende più fragile e goffo, ma la sua profonda umanità traspare in ogni pagina, in ogni singola frase del libro. L’amore per Anna e l’accettazione della perdita è la traccia essenziale del romanzo. Il resto è corollario. Simpatico, autentico, Seymour è uno dei personaggi più riusciti di Auster, e speriamo non sia l’ultimo. Baumgartner è un manuale di sopravvivenza che non insegna nulla ma ci guida verso una maggiore consapevolezza, alla ricerca dei dettagli più invisibili e decisivi del nostro vivere.
Nato a Prattville, Alabama, trentaquattro anni fa, Brandon Taylor nel 2020 si è rivelato tra le voci più interessanti della letteratura americana dei nostri tempi con il romanzo Real Life – Una Vita Vera – finito nella shortlist del Booker Prize e del National Book Critics Circle John Leonard Prize.
Gli Ultimi Americani – con Bollati Boringhieri e la traduzione di Francesca Manfredi – è una raccolta di storie che si legge come un solo romanzo.
Siamo in pieno Midwest. Iowa City è “quel buco di città, nel mezzo di uno stato nel mezzo di un paese”. In un quartiere poco distante dal centro, un gruppo di studenti universitari segue un seminario di poesia. Il contesto sembrerebbe quello dell’Iowa Writers’ Workshop, tra le più accreditate accademie di autori americani, riferimento per ragazzi e ragazze che sognano di diventare i nuovi John Cheever e Raymond Carver. Tra questi scopriamo Seamus, aspirante poeta, omosessuale (l’omosessualità è una delle tracce del libro), che si mantiene lavorando in una casa di riposo. Il contrasto tra l’urgenza delle cose pratiche, il tangibile quotidiano e il fuoco sacro dell’arte è l’altro tema affrontato da Taylor. Il seminario frequentato da Seamus ricorda il quartier generale dei realvisceralisti dei Detectivi Selvaggi di Bolaño, una specie di porto franco dove le ambizioni di giovani visionari si scontrano con la ruvidezza della vita reale, mescolandosi a vicende sentimentali o più banalmente sessuali, talvolta brutali, come l’incontro tra Seamus e il rozzo Bret. L’approccio violento e imprevisto tra i due mi ha riportato all’ultimo Pasolini all’idroscalo di Ostia. Ha ancora senso fare il poeta negli anni Duemila?, si chiede Seamus (I poeti sono amati solo perché non sanno stare al mondo, scrisse Saul Bellow). Dipende. “Esiste un genere di poeta per cui lo scopo di tutto quanto è il prestigio. La poesia stessa è il prestigio: e se nessuno ti vede scrivere una poesia, se nessuno ti vede fare il poeta, allora non sei davvero un poeta”. Il gruppo, dunque. Visto da dentro e osservato da fuori: Ivan, un altro dei personaggi, “era sicuro che i poeti, cosi come i ballerini, andassero tutti a letto insieme. Come se fossero un branco inquieto… L’Iowa era una specie di inverno culturale, in quel senso: erano tutti venuti in quel buco di città, per studiare arte, per affinare se stessi e le proprie idee allo scopo di farne armi perfette, terribili e, nella deprivazione monastica che trovavano lì, si rivolgevano gli uni agli altri. Ogni specie morente è alla ricerca del proprio conforto”. Specie morente. Ecco cosa sono i poeti e gli altri artisti di Brandon Taylor: una specie in via di estinzione “gli ultimi americani”. Ivan è un ex ballerino che va avanti a prestiti studenteschi accumulando debiti su debiti per studiare finanza. Per venirne fuori decide di darsi al porno. Sono le vite precarie di Taylor, ragazzi che faticano nel lavoro e nelle relazioni. Fyodor è un insegnante vegano, detesta il compagno Timo “assassino di animali” perché impiegato in un mattatoio. Bea sopravvive dando lezioni di nuoto. In queste vite non accade nulla di speciale, i personaggi di Taylor non fanno: esistono, direbbe Bret Easton Ellis. Lottano tra disuguazianze e nuove opportunità, dolore e desiderio, talento e mediocrità.
Il nome di John MacDonald (24 luglio 1916 Sharon, Pennsylvania – 28 dicembre 1986 Milwaukee, Wisconsin) figura sulla lista dei grandi scrittori americani in Italia sconosciuti. La lista è lunga, attraversa generi, epoche, stagioni, mode, e se non fosse per editori attenti come Mattioli 1885, pagine straordinarie come ad esempio quelle di Che fine ha fatto Janice Gantry? forse non ci sarebbe mai capitato di leggerle. MacDonald, che anche dalle nostre parti ha sfiorato la popolarità con Il Termine della Notte (romanzo-verità che anticipò il capolavoro di Truman Capote A Sangue Freddo) e soprattutto con Cape Fear, è stato un autore piuttosto prolifico, e di spessore – di solito le due cose non vanno di pari passo – l’unico scrittore di thriller ad aggiudicarsi il prestigioso National Book Award.
Che fine ha fatto Janice Gantry? è datato 1961. La versione “made in Italy” (da domani in libreria) è come sempre di Nicola Manuppelli. La storia si svolge in una provincia della Florida e ha come protagonista un certo Sam Price, oggi assicuratore, un tempo discreto giocatore di football. Sam se la cavava abbastanza bene sui campi di gioco ma a causa di un infortunio ha dovuto abbandonare. Questa almeno è la sua versione. La verità però è un’altra, più squallida, e ha a poco a che vedere con ossa, muscoli e legamenti.
La disavventura che gli ha stroncato la carriera sportiva ha spinto Sam all’isolamento e portato al fallimento il suo matrimonio con Judy, una splendida pin-up che non smette di tormentarlo nei ricordi e che lo costringe a continue e inutili comparazioni con altre donne. Ma lo sfortunato effetto domino che ha segnato la vita di Sam non si esaurisce con il football e con Judy, prosegue con un paio di eventi direi decisivi per il romanzo: la relazione breve con Janice Gantry; l’incontro (nel momento peggiore) con una sua vecchia conoscenza: Charlie Haywood. Fatti che danno sostanza alla trama avviandola in due direzioni parallele: il crimine e l’eros, i temi preferiti di MacDonald. Janice, più comunemente Sis, vedova di un uomo molto violento, è una ragazza esuberante e sessualmente vorace (non so perché l’ho immaginata come la Ramona di Herzog di Saul Bellow). Con Sam la scintilla è scoccata subito ma Sam è assillato dal passato, e poi quel musone romantico tutto casa-lavoro-pesca non ha le giuste ambizioni per realizzare i sogni di una donna concreta come Sis. Per quanto i due continuino a flirtire e a dividere lo stesso ufficio, ora Miss Gantry ha deciso di sposare un altro, un avvocato molto più grande di lei, Cal McAllen, anche lui vedovo con due figli adulti… soprattutto danaroso. Cal ci viene descritto come un tipo “smorto”, anonimo “potrebbe commettere un omicidio davanti a quaranta testimoni e nessuno di loro si ricorderebbe nulla di lui”. I personaggi di Cal e Sam ruotano come rivali intorno alla figura di Sis, ma di fronte a un caso eccezionale i due decidono che quella reciproca diffidenza merita una tregua. Il caso eccezionale è proprio l’improvvisa scomparsa della ragazza, dietro la quale potrebbe esserci un oscuro disegno di Charlie, già condannato per aver tentato di scassinare una cassaforte e poi fuggito dal carcere senza lasciare traccia. Sam una sera se l’è ritrovato in casa. Lo ha ospitato e protetto in nome della vecchia amicizia, ma questa cortesia si rivelerà una brutta rogna. Parte da qui la storia di Sam Brice. La lunga e rocambolesca indagine che lo vede coinvolto in prima persona occuperà tutta la seconda parte di questo bel romanzo sul senso del dovere e sugli amori, che iniziano e non finiscono mai.
Non ricordo se vi ho mai raccontato dell’embargo al quale un tempo sottoposi i libri di Ellis per via di quella stupida rivalità tra lui e David Foster Wallace. È una storia imbarazzante e assurda che non vale la pena di essere raccontata. Ne parlo unicamente per dare la misura di quanto fosse importante tra gli anni Ottanta e Novanta negli Stati Uniti un certo discorso sul linguaggio, di come un preciso mood letterario “nell’epoca minimalista ispirata dalla new wave e dal punk in cui sguazzavamo nel 1981” a un certo punto (1987) finisse per scontrarsi con una nuova forma di massimalismo che sembrava archiviata con il miglior Pynchon, e di come tutto questo logos si riflettesse tra i lettori dell’uno e dell’altro autore traducendosi in un delirio collettivo ad excludendum.
Tredici anni dopo Imperial Bedrooms, Bret Easton Ellis ritorna alla narrativa col romanzo forse più ellisiano di tutti. Si dice che Ellis scriva sempre lo stesso libro e Le Schegge (The Shards – Einaudi – traduzione di Giuseppe Culicchia) per molti versi conferma questa – virtuosa non noiosa – coazione a ripetere iniziata con Meno di zero, l’opera che a soli vent’anni scaraventò l’autore californiano on the stage della letteratura yankee o, se preferite, sull’onda anomala del Brat Pack, a surfare insieme a scrittori come Tama Janowitz e Jay McInernay (nel romanzo McInernay viene citato in un flashback datato venerdì 12 settembre 2008: quel venerdì David Foster Wallace si impiccò nella sua casa di Claremont, a poche miglia dal luogo indicato. È un caso che Ellis abbia collocato il finto appuntamento con McInernay proprio in quel weekend? Chiusa parentesi). Meno di zero Ellis lo adopera come canovaccio per raccontare non solo la gestazione del romanzo ma per ripercorrere le tappe di avvicinamento a un successo che lo ha travolto fin dagli esordi contro ogni pronostico. L’operazione si spinge oltre la metafiction: Ellis esce dal primo romanzo (“ma non c’era una storia, c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare”) per diventare se stesso e traslocare insieme al plot nell’altro libro. Un romanzo è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci si innamora di qualcuno, leggiamo nell’inicipit. Al centro di questo sogno si muove la tipica gioventù di Ellis, losangelina, bianca, altoborghese, sessualmente ibrida, sfacciata, incredibilmente matura per quell’età, patentata “A L.A. diventavi adulto la settimana in cui prendevi la patente”, disinteressata alla politica anche se alla Casa Bianca c’è un ex attore, elegante fuori e dentro le uniformi scolastiche stilose alla “I giardini dei Finzi-Contini” della Buckley High School. Ragazzi senza adulti intorno, con genitori assenti perché alcolizzati o in carriera, che fluttuano da un posto all’altro “a me non importava cosa facessero i personaggi. Esistevano, e volevo solo trasmettere uno stato d’animo, immergere il lettore in un’atmosfera particolare creata da dettagli attentamente selezionati”. Prestate attenzione alle ultime cinque righe, contengono il senso di tutto: per almeno due terzi della storia, i protagonisti di Ellis “esistono”, non fanno. Esistere include qualunque gesto, anche il più insignificante narrativamente parlando, ma Ellis quei gesti nel romanzo ce li mette lo stesso, gli servono a riprodurre gli stati d’animo di una generazione, la sua, e la giusta atmosfera di una metropoli beata del proprio successo e terrorizzata dal Pescatore, un serial killer sulla cui identità vi interrogherete dalla prima all’ultima pagina.
Bret è un adolescente diffidente, turbato fino alla paranoia. La sua alterazione è così vibrante e amplificante nella percezione dei fatti da condizionare perfino il lettore. Come gli altri diciassettenni della combriccola, Bret beve, fa uso di droghe, si impasticca di tranquillanti. È fidanzato con la bellissima Debbie – tutti i protagonisti del romanzo sono alti e belli da fare schifo – figlia di un noto produttore cinematografico, come lui omosessuale.
La storia, puntellata da decine di dischi in classifica, film di successo e noti romanzi di Stephen King e Joan Didion soprattutto, è accompagnata da una tensione crescente che si riversa su due tematiche essenziali. La prima: l’attesa (nelle prime duecento pagine) poi conoscenza (nelle successive cinquecento) di un nuovo compagno di scuola: Robert Mallory (Robert è a mio avviso il personaggio più riuscito del romanzo: folle, bugiardo o leale a seconda dei casi, misterioso, carismatico come lo Svedese di Philip Roth). La seconda: la sospetta implicazione di Robert nei delitti del serial killer, che non solo uccide ma tortura anche gli animali delle sue vittime. Un altro tema centrale del romanzo è l’omosessualità di Bret, repressa e taciuta con Debbie, vissuta fino allo stremo (talvolta solo fantasticata) con i suoi amici, drammatizzata in un episodio decisivo della storia che ci riporta a Il laureato di Charles Webb. Le schegge è un romanzo tragico e sensuale su una stagione americana che nessuno ha saputo raccontare meglio di Ellis, e su una generazione allucinata e disillusa, perennemente in fuga da se stessa.
L’indifferenza con cui sono accolti in Italia tutti i libri di Russell Banks non è venuta meno neppure in occasione dell’uscita dell’ultimissimo romanzo del grande maestro americano deceduto nel 2022, pochi mesi dopo la sua pubblicazione negli States. In Italia La Terra Della Magia lo hanno ignorato perfino quelli di Einaudi, dico Einaudi, editore che non si risparmia quando si tratta di pubblicizzare i soliti italiani da vetrina, ma che scompare di fronte ad eventi eccezionali come the last appearance di uno tra i più importanti romanzieri contemporanei. E se in molte librerie la nuova opera non è proprio arrivata e in altre ha fatto capolino una singola copia, al massimo tre, Il Dolce Domani, forse il capolavoro di Banks, è stato disponibile per pochi giorni solo nelle edicole (ormai rare pure quelle) con la collana Americana curata da Sandro Veronesi per il Corriere della Sera. Ma questa è un’altra storia, direte, dopotutto l’invisibilità di Banks sugli scaffali peninsulari non è poi tanto diversa da quella di altri grossi autori soverchiati da mezze calzette più nazionalpopolari.
The Magic Kingdom (La Terra Della Magia – Einaudi – traduzione di Gianni Pannofino) è uscito esattamente un anno dopo Foregone (I Tradimenti), il cui protagonista (un uomo anziano, irrimediabilmente malato e alla fine della propria vita) è di fatto un alter ego dell’autore. In tanti avevamo pensato che I Tradimenti potesse risolversi in una sorta di testamento spirituale di Banks, l’ultimo sforzo prima di congedarsi dalla narrativa e dalla vita. E invece lo scrittore di Newton, Massachusetts, ha fatto in tempo a regalarci una nuova storia, nuova ma dal sapore antico, alla maniera di altri maestri, specie del Sud, ai quali questo romanzo sembra voler essere un tributo: Mark Twain, William Faulkner, Eudora Welty, Flannery O’Connor.
Nei primi anni Settanta, Harley Mann è un ex immobiliarista della Florida giunto al culmine di un’esistenza avventurosa, piena di ricordi e di nodi irrisolti. Harley ha un’urgenza. Harley ha una storia da tramandare, la sua. Per farlo ricorre al mezzo più efficace di cui dispone: un registratore a bobine Grundig TK 46. Un capitolo per ogni bobina. Harley parla parla, non si trattiene, per troppi anni si è trascinato nel petto un macigno, ma ora ha deciso di liberarsene per affermare una verità della quale perfino lui aveva dubitato. Ma qual è questa verità?
Abbiate pazienza, perché la storia di Harley Mann è lunga, più lunga delle 429 pagine del romanzo, per via delle mille cose accadutegli, vere o presunte, alcune, le decisive, mai chiarite del tutto.
La storia inizia negli anni Dieci del Novecento. Nella prima immagine c’è una vedova che con i suoi quattro figli maschi (due coppie di gemelli) e un quinto figlio in arrivo, lavora come una schiava in una piantagione della Georgia. Ma la permanenza alla Rosewell Plantation per i Mann è solo la prima tappa, la più infelice e faticosa di un’esistenza che di lì a poco riserverà nuove sorprese. Il debito che costringeva i Mann a vivere nel peggiore degrado viene saldato da John Bennett, il decano di una setta religiosa, gli shakers, che ha una colonia giù in Florida, a New Bethany.
Il viaggio dei Mann dalla Georgia alla Florida, su treni e chiatte a vapore, tra paludi e praterie, è un capolavoro di epica americana – questo romanzo non diventerà un classico della letteratura, questo romanzo è già un classico della letteratura. Perché il decano John, che dopo le prime cinquanta pagine del libro diventa una figura centrale della storia, ha deciso di saldare il debito dei Mann? È il primo dei dubbi che assalirà il piccolo Harley, geloso della madre e delle attenzioni a lei rivolte da quel patriarca-santone tuttofare, dall’accento da contadino del Kentucky, prodigo di buoni consigli, premuroso e soprattutto ligio all’Ora et Labora degli shakers, che impone ai propri adepti la rinuncia a ogni piacere della carne e per questo tiene gli uomini separati dalle donne. Buona parte del romanzo è il racconto delle giornate che si susseguono all’interno della colonia, con i ruoli che ciascuno è chiamato a ricoprire per mandare avanti le numerose attività che fanno di New Bethany una piccola nazione dentro la nazione. Chi si univa agli shakers doveva cedere alla comunità tutti i propri beni, e chi non possedeva nulla poteva destinare i figli al lavoro sotto la guida dei decani fino alla maggiore età. A New Bethany comandano il decano John e la decana Mary, e la disciplina militaresca stabilita dai due leader non ammette deroghe, raggiri, turbamenti. I shakers credono in Gesù e nella sua reincarnazione femminile: Madre Ann Lee “Il dovere degli shaker, il fine di ogni loro atto, consisteva nel vivere ogni istante come se quella seconda apparizione fosse già avvenuta”.
La comparsa nella colonia di Sadie Pratt, una giovane donna malata di tubercolosi e volontaria in un ospedale vicino, imprime la prima svolta alla storia, che da questo momento ruoterà intorno alle sole figure di Harley, Sadie e il decano John, tutti gli altri personaggi di colpo spariscono, finiscono fuori campo o diventano marginali. Harley è ancora un adolescente ma con Sadie è amore a prima vista. Tra i due ci sono sette anni di differenza; fino a pagina duecento sembrano tanti ma a due terzi del racconto la distanza si accorcia sempre di più fino ad annullarsi in un peccato irreparabile.
Harley, Sadie, John. Qual è il ruolo del decano in questo curioso o solo immaginato triangolo amoroso? Siamo alla seconda svolta del romanzo, che ora in avanti perde la sua matrice picaresco-religiosa per trasformarsi in un noir. La vicenda umana troppo umana di Harley e Sadie, la sua evoluzione triste, apre una breccia nel vano progetto di felicità alimentato dagli shakers. Tutti gli Eden nascondono una tentazione, leggiamo sulla quarta di copertina, e il paradiso di New Bethany non fa eccezione. La parabola biblica disegnata da Russell Banks è l’amaro resoconto di una speranza tradita, di una drammatica presa di coscienza che va oltre la fede e ogni possibile redenzione terrena.