
L’appuntamento era Brera, a due passi dalla pinacoteca, poi “il taxi ha fatto un giro strano”, allora decido di raggiungerla in un caffè dietro piazza Duomo. Dopo la pioggia scrosciante della prima mattinata, il cielo comincia timidamente a schiarirsi. Eccola Silvia, è in un angolino e mi sta salutando con la mano. La raggiungo facendomi largo tra un gruppetto di studenti. Silvia Pareschi vive tra il Lago Maggiore e San Francisco, ma il suo lavoro di traduttrice la porta in giro per il mondo e per fortuna che Milano è nel mondo, nel suo mondo. Volendo stilare una lista di grandi scrittori americani o di lingua inglese tradotti da Silvia, si fa prima a inserire i nomi di quelli che mancano. È la prima volta che la incontro di persona e la ringrazio per avermi concesso questa intervista. Cominciamo? Cominciamo.
Venendo da te, in taxi, pensavo a tutti gli autori con i quali hai lavorato. Vado a memoria: Nathan Englander, Jonathan Franzen, Don DeLillo, Ernest Hemingway, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Shirley Jackson, Annie Proulx, Junot Díaz, Colson Whitehead… manca qualcuno?
Mi hai fatto venire voglia di contare gli autori che ho tradotto… sono in tutto quarantatré, venticinque uomini e diciotto donne. Nella tua lista mancano almeno tre dei miei preferiti: Amy Hempel, la maestra del racconto, difficilissima da tradurre con il suo stile minimalista tutto giocato sulle sfumature e il suo amore per i giochi di parole; E. L. Doctorow, un grandissimo scrittore che in Italia non ha mai riscosso il successo che meriterebbe, di cui ho tradotto uno degli ultimi libri, Homer & Langley, e ho ritradotto un capolavoro come Ragtime (che uscirà all’inizio del 2024 per Mondadori); e il mio amatissimo Denis Johnson, autore di libri straordinari come Jesus’ Son e Albero di fumo (che vorrei tanto vedere ripubblicato, visto che è fuori catalogo da anni), del quale Jonathan Franzen ha detto «Il Dio in cui voglio credere ha la voce e il senso dell’umorismo di Denis Johnson».
È strano, ma per quanto tu abbia dato voce a tutti questi scrittori, se dico “Silvia Pareschi” il mio primo pensiero va a Franzen. Non riesco a pensare a lui senza collegarlo a te. Voglio dire: non riesco ad immaginare Franzen con una voce diversa dalla tua. Questa cosa non mi capita neppure con Vincenzo Mantovani e Philip Roth.
Forse perché da un certo punto in poi Roth è stato tradotto dall’altrettanto bravo Norman Gobetti, mentre Franzen, a parte il primo romanzo, La ventisettesima città (tradotto da Ranieri Carano) l’ho tradotto tutto io? Ho cominciato la mia carriera di traduttrice proprio con Le correzioni – sono stata fortunatissima – poi sono tornata indietro e ho tradotto il suo secondo romanzo, Forte movimento, e poi naturalmente sono venuti Libertà e Purity e Crossroads. Più tutta la saggistica. Abbiamo viaggiato insieme, siamo diventati amici, mi sono addirittura appassionata di ornitologia a causa sua. Insomma, posso praticamente considerarmi la sua ventriloqua. In questo momento sto traducendo un suo breve articolo, ed è davvero un piacere ritrovare la sua voce, la sua scrittura fluida ed elegante che conosco così bene. Insomma, io della scrittura di Franzen sono innamorata, e come scriveva Pavese in una lettera a Bompiani: “Per tradurre bene, bisogna innamorarsi del materiale verbale di un’opera, e sentirsela rinascere nella propria lingua con l’urgenza di una seconda creazione. Altrimenti è un lavoro meccanico che chiunque può fare.” Mi innamoro sempre un po’ degli autori e delle autrici che traduco, ma di Franzen di più.
Un italiano o italiana che traduce letteratura americana immagino impari fin da subito a convivere con i fantasmi di Vittorini, Pavese, Pivano, i pionieri di questo mestiere. Dico bene?
Sì, soprattutto per quanto riguarda il ruolo svolto da quelle “tre corone” della traduzione novecentesca nel traghettare in Italia la grande letteratura americana. A chi traduce oggi resta la passione per un lavoro difficile e carico di responsabilità – ma anche di grandi soddisfazioni – però manca quella dimensione avventurosa, quel senso di scoperta e di libertà che la letteratura americana rappresentava per quegli intellettuali che avevano conosciuto l’atmosfera soffocante del fascismo (l’espressione “patria ideale” per riferirsi all’America ricorre sia negli scritti di Pavese sia in quelli di Vittorini). E poi, da parte mia, grandissima invidia per Pivano che ha conosciuto Hemingway.
A proposito di Fernanda Pivano, qualche anno fa hai ritradotto per Mondadori Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Un’esperienza che mette i brividi solo a pensarci.
Ecco, appunto. Io amo dialogare con gli autori che traduco, non solo per chiarire dubbi di traduzione, ma anche, quando è possibile, per facilitare il mio compito di ventriloqua. Quanto mi sarebbe piaciuto chiacchierare con il vecchio Hem! Tradurre Il vecchio e il mare è stato un lavoro affascinante, non solo per la qualità eccelsa della scrittura, ma anche perché Hemingway era uno scrittore che lasciava molte cose non dette, affidandone la comprensione all’intuito e all’acume dei lettori, e tradurlo significa necessariamente scavare in profondità nel testo, esplorare la parte sommersa dell’iceberg che è piena di tesori nascosti.
Ogni lingua ha una propria storia, struttura, evoluzione, aggiungerei suono. Quali sono le maggiori difficoltà nel rendere fruibile e credibile in italiano un testo americano?
Dipende dal testo, dipende dall’autore. L’inglese può essere più conciso dell’italiano, avere frasi brevi, sincopate e paratattiche come in Hemingway, ma può anche avere periodi lunghi e pieni di subordinate come quello di Franzen. La sintassi di Franzen è più vicina a quella italiana della sintassi di Hemingway, e per questo la trovo più facile da tradurre. Con due grandi scrittori come loro bisogna naturalmente avere un rispetto assoluto dello stile: non si tratta dunque di rendere fruibile il testo “addomesticandolo” in qualche modo per il lettore, ma semplicemente di presentare al lettore lo scrittore così com’è.
Torno per un attimo a Jonathan Franzen per ricordare la sua lunga amicizia e rivalità con David Foster Wallace, verso il quale – come saprai – il sottoscritto ha una specie di venerazione. La storia della faticosa traduzione italiana di Infinite Jest, con una serie di tentativi falliti prima di arrivare a Edoardo Nesi (obbligato da Sandro Veronesi), è quasi un romanzo parallelo a quello originale, un’odissea che mi suggerisce un altro titolo di Wallace: Una cosa divertente che non farò mai più. Wallace è uno dei nomi che manca in quella lunghissima lista di autori. Ti piacerebbe tradurlo?
Gli scrittori bravi mi piacerebbe tradurli tutti!
Qualche settimana fa ho letto una tua riflessione interessantissima sull’Intelligenza Artificiale e sulle possibili sue applicazioni alla narrativa (scrittura, editing, traduzioni…). È davvero una minaccia, come si teme, o pensi che nel medio periodo possa diventare una risorsa, aiutarci ad essere più competitivi?
Secondo me la vera minaccia rappresentata dall’IA applicata alla traduzione è che si finisca per applicare il principio della good enough quality, ossia della qualità accettabile. Che cioè la traduzione diventi una mera trasmissione di significato, di “contenuto”, e che si arrivi a perdere la sensibilità allo stile inteso come modalità espressiva personale e unica dell’autore. Non credo che possa avvenire da un giorno all’altro, e non sono neppure sicura che avverrà, ma sicuramente in un mondo in cui le capacità necessarie per leggere criticamente un testo si stanno perdendo, la prospettiva di un’IA intesa come strumento che può sostituirsi agli umani anche nei mestieri creativi non lascia certo ben sperare.
Da quando hai iniziato a fare il tuo lavoro come è cambiata la letteratura americana? I recenti fenomeni della Cancel culture e/o del cosiddetto Sensitive reading pensi siano delle limitazioni alla libertà di espressione o semplicemente delle nuove e più educate forme di rappresentazione?
Poco dopo che era successo il “caso” di Amanda Gorman, ho dichiarato in un’intervista che secondo me è assurdo giudicare il valore di una traduzione in base al colore della pelle, all’età o all’etnia del traduttore, perché in base a questo criterio io, per esempio, potrei tradurre solo persone affini a me, ossia donne bianche di mezza età. Anzi, se portassimo questo assunto alle sue estreme conseguenze, potrei tradurre solo me stessa. Ho aggiunto che secondo me l’unico criterio per decidere a chi affidare una traduzione è la bravura del traduttore o della traduttrice. Forse era una risposta troppo ingenua, forse non c’era spazio, fatto sta che quella domanda è stata poi espunta dall’intervista.
Il 2023 si è portato via due grandi maestri come Russell Banks e Cormac McCarthy. Per fortuna la letteratura americana è così vasta, generosa, feconda, che non ammette buchi generazionali, e per quanto la vecchia guardia dei Pynchon, DeLillo, Joyce Carole Oates, Stephen King sembri irraggiungibile: autori come Joshua Cohen, Ben Lerner, Tiffany McDaniel, Emma Cline… lasciano ben sperare per il futuro. Se dovessi puntare su un paio di nomi tra le nuove leve, chi ti viene in mente?
Non ho ancora letto l’ultimo di Emma Cline L’ospite, ma spero che sia tornata alle altezze di Le ragazze, che mi era molto piaciuto. Lo stesso vale per un altro autore interessante come Nana Kwame Adjei-Brenyah, che dopo gli ottimi racconti di Friday Black ha da poco pubblicato il suo primo romanzo.
Prima di lasciarci: a cosa stai lavorando in questo momento?
In questo momento mi sto concentrando sulla ritraduzione dei classici. Ora sto lavorando a The Brothers Ashkenazi di Israel J. Singer, e poi tornerò a Hemingway con A Farewell to Arms.
Angelo Cennamo







