QUELLA SOTTILE LINEA SCURA TRA IL CILENTO E L’OHIO- Conversazione con Antonio Lanzetta

Io e Antonio Lanzetta, in anni diversi, siamo cresciuti e abbiamo abitato nello stesso quartiere: la Zona Orientale di Salerno. Atlantic City dico io nel gioco infinito sui luoghi e le identità plurime al quale accennerò più avanti, perché anche di questo parleremo: di come la letteratura riesca a superare qualunque barriera spazio-temporale, a dispetto di pregiudizi, paure, mediocri localismi. Antonio Lanzetta ha esordito come scrittore oltre dieci anni fa con un romanzo Fantasy intitolato Ulthemar – La Forgia della vita e con una serie di racconti dello stesso genere, vado a memoria: L’ordalia di Joachim, L’orologio, Le ombre di Keidoran. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, e per quanto il Fantasy sia rimasto un serbatoio prezioso al quale attingere, Antonio non ha esitato ad esplorare anche altri generi, dal Thriller (psicologico e storico) al Gotico, al Giallo, con romanzi tradotti in mezza Europa e in Canada, guadagnandosi l’appellativo di Stephen King italiano (Sunday Times)… niente male per un ragazzo di periferia costretto a percorrere almeno un paio di chilometri da casa sua per comprare It e Shining (nella Zona Orientale di Salerno si vende di tutto tranne i libri). Ora, penserete voi, iniziare una conversazione con Antonio Lanzetta per chi come il sottoscritto lo sente tutti i giorni attraverso l’ormai famosa chat di WhatsApp “David Foster Wallace Tribute” (la chat fu creata tre anni fa per organizzare una serata dedicata al genio del postmoderno, poi si è trasformata in una specie di rifugio letterario dove noi due e il nostro amico comune Luca Villani scambiamo libri, opinioni e gossip irripetibili) sia cosa facile: è già tutto scritto, è già tutto detto, basterebbe pubblicare la chat. Mm. 

Facciamo così, cominciamo dalla fine: il tuo terzultimo romanzo: L’uomo senza sonno, con NewtonCompton, a gennaio sarà tradotto in Francia, Belgio, Svizzera e Canada. L’altro giorno ho visto il trailer in lingua francese e sono rimasto a bocca aperta. Una meraviglia. 

Anche io. Devo essere sincero, non ho mai provato simpatia per i book trailer. Non ne ho mai capito l’utilità, perché quell’esperienza visiva che ti promette un video di pochi minuti non dovrebbe essere niente paragonato invece al viaggio di sola andata che dovrebbe offrirti la lettura di un romanzo e mi sento un po’ patetico e ruffiano nel dire che invece il video realizzato dall’editore francese è una bella botta. Peraltro, ero stato già pubblicato in Francia e le cose mi erano andate bene fino a un certo punto, ovvero l’amministratore delegato della casa editrice è stato coinvolto in uno scandalo “me too” dopo essere stato denunciato da un gruppo di autrici che avrebbe molestato sessualmente. Sembra la trama di un romanzo noir, ma purtroppo è capitato a me: il massimo della sfiga. Con “L’Uomo senza sonno” ritorno in una terra di lettori che amo tantissimo e con un nuovo editore, Mèra Editions, che pubblica solo thriller internazionali, quindi speriamo bene…

Al di là del successo che ha riscosso in Italia e dell’attenzione da parte dell’editoria straniera, L’uomo senza sonno è una tappa importante; in quella storia hai lasciato tutte le impronte del tuo modo di scrivere, consolidando un’idea di romanzo sulla quale precedentemente avevi ragionato solo per pezzi singoli. Quel libro è il compendio dello scrittore che sei oggi. 

L’uomo senza sonno è una tappa nel mio processo di apprendimento della scrittura. Un livello al quale dovevo tendere per essere poi in grado di scrivere altre storie, migliorare lo stile, etc… Potrei dire in effetti che quel romanzo è un po’ il manifesto del mio impegno come autore, ovvero raccontare storie che abbiano una forte impronta territoriale, che permettano ai lettori di conoscere un po’ di posti e storie lontane dai riflettori. Un romanzo che inoltre racchiude in sé tanti generi e che prova a non seguire i binari tracciati dalle “scuole” di scrittura italiane. Prima come lettore e poi come autore, guardo sempre con interesse e fame di apprendimento verso la letteratura americana che mi offre sempre spunti fondamentali.

Il tuo ultimo romanzo (Delitto in riva al mare, NewtonCompton) è un Giallo classico. Nell’ultimo decennio in Italia c’è stata una proliferazione di giallisti mai vista prima. Una giungla di commissari, vicequestori, medici legali, detective. Il fenomeno ha generato una specie di consorteria nella quale è diventato difficile distinguere un autore dall’altro, una trama dall’altra. Da questo processo di omologazione tu però sei rimasto avulso. Non “fai gruppo”. Non sei “un giallista”, al massimo sei un autore che scrive anche dei Gialli. Probabilmente ti aiuta il fatto di non essere caduto nella trappola della serialità. 

Copio una tua battuta, in Italia ci sono più commissari in libreria che nelle questure. Scherzi a parte, le dinamiche delle storie possono essere sempre le stesse e, alla fine, secondo me non conta essere originali e nemmeno preoccuparsi toccare temi già abusati da altri. La differenza tra gli autori la fa solo la buona scrittura, la capacità di creare personaggi tridimensionali. Da lettore non ricordo quasi mai le trame dei libri ma invece i personaggi sì. Più riesco a provare empatia per i protagonisti di una storia e più quel romanzo, una volta posato sulla mensola della libreria di casa, ha possibilità di entrare nella classifica delle letture che ho preferito. Prendi La Strada di Cormac McCarthy: una caratterizzazione dei personaggi così potente io non l’ho ancora vista da nessuna parte… per questo è in assoluto il mio libro preferito. Tornando poi al discorso degli autori italiani, mi vengono in mente le parole di Lansdale durante una sua intervista, ovvero che non bisognava scrivere in un certo modo solo per sperare di essere ammesso in un circolo di scrittori. Da ragazzino non avevo interesse a fare il boyscout o a tesserarmi al club degli scacchi, figurati se mi viene voglia a quarantadue anni di entrare in un circuito di amici-scrittori.

I protagonisti delle tue storie sono spesso dei ragazzini che devono fare i conti con scoperte e traumi dolorosi, e che da adulti restano inevitabilmente invischiati con i fantasmi del loro passato. L’età dell’innocenza è una traccia che ti accompagna sempre.

Mi piacciono i romanzi di formazione, quelle storie dove si mostra la crescita, il modo in cui si diventa adulti. Credo che quello del “divenire” sia il tema principale della letteratura, la massima espressione del viaggio dell’eroe. Chi sono i veri eroi? Siamo noi, le persone comuni. Più che i libri di trama, amo le storie di persone: il modo in cui si affrontano i conflitti, il cambiamento.

Quando presentammo in anteprima Delitto in riva al mare, ti strappai una risata dicendo che avevi scritto il Grande Romanzo sulla Zona Orientale di Salerno. Prima ho parlato del gioco che ci diverte tanto: i luoghi, le identità, l’universalità di certe storie. Ricordo quella foto di Capaccio che ti inviai con su scritto: benvenuti in Ohio. La frontiera è un luogo reale ma anche immaginario, un luogo di passaggio e di cambiamento. Nei tuoi romanzi c’è  sempre un confine o più di uno: tra adolescenza e vita adulta, tra provincia o campagna e grande città. Ti senti uno scrittore di frontiera?

Mi sento sicuramente uno scrittore di frontiera. Credo che i veri autori sono quelli che si contraddistinguono per un’identità. Hanno, ovvero, qualcosa da dire e anche se le loro storie sembrano solo intrattenere, sono pervase da significati che si celano nelle pagine, messaggi che restano attaccati sulla punta delle dita dei lettori. Il mio sforzo più grande è quello di tendere verso un livello di questo tipo: essere uno scrittore che ha qualcosa da dire con i suoi romanzi, che ha un’identità, che scrive per il gusto di farlo, e non un pennivendolo.

Due parole chiave legate al confine sono: trasversalità e universalità. Il Cilento che fa da sfondo alle tue storie non è una terra chiusa nella sua dimensione locale. Al contrario è un microcosmo che si apre al mondo e che si riflette in altre latitudini. Il Cilento di Lanzetta non è diverso dal Kentucky di Chris Offutt, dal Texas Orientale di Joe Lansdale e dal Colorado di Kent Haruf. 

Gli autori che hai citato (n.b. grazie anche solo per avermi accostato a loro!) hanno la forza di raccontare il mondo attraverso le realtà circoscritte e regionali dei luoghi in cui sono ambientati i loro romanzi. Leggere quel tipo di storie ti permette di saltare a bordo di un pickup e percorrere strade costeggiando campagne e boschi, attraversando cittadine sperdute dal mondo e imparando qualcosa in più sul loro conto. Tutto ciò è magnifico ed è l’effetto che mi piace riproporre nei miei romanzi.

Proprio questa universalità fa di te uno scrittore atipico. Leggendo le tue storie, salta agli occhi il legame stretto tra i protagonisti e le loro radici, e una mentalità di fondo che accomuna tutta la gente che vive lontano dal progresso, dalla civiltà che non sia quella contadina, e da una legalità riconosciuta. 

Trovo che sia affascinante

Dicevo prima della tua condizione di estraneo da ogni etichetta-gruppo-categoria. Uno degli argomenti affrontati nella nostra chat è quello dei limiti o dello scarso coraggio di una certa editoria italiana, preoccupata più di assecondare i gusti della massa che di investire nella diversità, nella sperimentazione. Avrebbero mai fatto gli scrittori in Italia gente come Thomas Pynchon, Jonathan Lethem o David Foster Wallace? 

Quasi sicuramente sarebbero stati condannati alla nicchia assoluta e avrebbero fatto fatica a emergere. Il mondo del libro in Italia funziona con dinamiche precise e per un autore ci vuole davvero uno stomaco di ferro per riuscire a stare nel sistema nonostante tutto e tutti.

Qual è secondo te lo stato di salute della letteratura italiana (degli autori e dei lettori)? 

Ci sono più scrittori che lettori, non scopro l’acqua calda. Abbiamo bisogno di gente che legge e compra i libri (impedendo quindi ai negozi di chiudere). C’è stato un periodo, cominciato forse una decina di anni fa, contraddistinto da un’esplosione di scrittori esordienti ed emergenti. Se da una parte abbiamo assistito al crollo della critica letteraria, all’affermazione di determinati circoli viziosi dell’editoria, dall’altra – con una tale quantità di persone che vogliono a tutti i costi pubblicare – si è fatto ancora più difficile per un editore fare scouting, con il rischio magari che tanti scrittori di qualità restano all’ombra di altre figure, finché restano… finché non gli passa la voglia di scrivere.

Ogni tanto sentiamo parlare della morte del romanzo. Io dico sempre che il romanzo morirà quando moriranno quelli che lo sanno scrivere. Non so quanto siano fondate queste voci, ma l’incombenza dell’intelligenza artificiale, ad ogni livello, sta aprendo scenari nuovi ed imprevedibili. Tutto sta accadendo molto in fretta e la paura di non riuscire a governare il fenomeno è palpabile. In che direzione stiamo andando? Si salveranno solo i migliori o quelli saranno i primi a soccombere? 

Tanti libri in Italia sembrano essere stati scritti da IA già da prima che le avessero create e istruite per la creazione di testi. Ho smanettato personalmente con una IA per comprenderne gli usi e, al momento, non ne sono spaventato: è priva di due cose che contraddistinguono un narratore di razza, ovvero il talento e l’intuizione. Ciò che mi preoccupa invece è l’appiattimento verso il basso da parte di certi editori convinti di poter determinare l’andamento del mercato e creare best seller che poi si rivelano meteore. Si cerca di replicare il successo degli altri: quanti saghe familiari sono uscite dopo I leoni di SIcilia? Quanti libri sui miti greci dopo La Canzone di Achille? Il problema è che pubblicare libri pensando solo al breve termine, al vendere il più possibile nelle prime settimane dall’uscita di un titolo, secondo me è sbagliato. Da lettore, non voglio best sellers ma long sellers. 

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