DEMON COPPERHEAD – Barbara Kingsolver

C’è una parola in America che identifica i bianchi del sud un po’ ignoranti, rozzi e rancorosi. La parola è “redneck”. Demon Copperhead abita nel Southwest Virginia. Siamo negli Appalachi meridionali, in un posto sperduto di case mobili, birre e Vangeli, tra povera gente che sopravvive grazie a lavori occasionali o con sussidi statali, figli senza padri con storie di galera e di abbandoni. Sacrifici. Sudore. Malattia. Vi dicono niente Lee Maynard, Ron Rash e Chris Offutt? Ecco, quella roba lì. Demon è stato messo al mondo da una diciottenne drogata, dentro una di queste roulotte. Ama i supereroi della Marvel e sogna di vedere il mare. Dal padre, che non ha fatto in tempo a conoscere, ha ereditato i capelli rossi e quel soprannome Copperhead – Testa di rame – che lascia pensare a possibili origini irlandesi. Con Demon Copperhead – quasi l’anagramma di David Copperfield, il capolavoro di Charles Dickens al quale questo romanzo è volutamente ispirato – Barbara Kingsolver ha vinto il Pulitzer ex aequo con Trust di Hernan Diaz. In Italia il libro è uscito negli ultimi giorni del 2023 edito da NeriPozza e con la traduzione di Laura Prandino. La storia di Demon, lunga 650 pagine e raccontata in prima persona, è una corsa affannata tra affidi e rinunce “… tutti credono che l’adozione sia una cosa automatica… Ma nella Lee County ci sono molti più orfani che persone che li vogliono”, speranze tradite, sbandate, e improbabili riscatti attraverso lo sport. Una storia commovente che al di là dell’evidente richiamo dickensiano ci ricorda altri due romanzi recenti: Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart e Canada di Richard Ford, che di questo libro è una specie di bella copia. 

Come in Shuggie Bain il rapporto madre figlio è centrale, almeno nella prima parte. Ma se nel romanzo di Stuart il ruolo della madre si impone su quello del piccolo Shuggie – Agnes Bain è uno dei personaggi femminili più straordinari della storia della letteratura di tutti i tempi – Kingsolver invece la sua traviata la lascia quasi ai margini del racconto, sovrastata da altri ruoli per concentrarsi sulla figura del figlio. Il risultato è inizialmente notevole, ma nella seconda parte la tensione cala e la trama si disperde in troppi rivoli superflui, non sempre interessanti e originali. 

Angelo Cennamo

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LA LETTERATURA COME ESPERIENZA RELIGIOSA. INFINITE JEST.

Come per altri scrittori di culto, esistono due versioni di David Foster Wallace: una reale, che si manifesta attraverso le opere che l’autore di Ithaca (NY) ci ha lasciato nei suoi vent’anni o poco meno di carriera (romanzi, racconti, saggi, reportage, interviste); un’altra virtuale, il cosiddetto intellettualismo di Wallace, frutto di una massiccia iconografia alimentata da analisi critiche, studi, rielaborazioni, osservazioni di addetti ai lavori o di semplici lettori, così inspessita e stratificata da poggiare su giudizi altrui più che su opinioni personali. Wallace è un autore più citato che letto, e i suoi libri spesso vengono mostrati anziché aperti perché fa figo, per accreditarsi nei circuiti culturali che contano o in certe bolle social. Non ho mai creduto ai libri che ci cambiano la vita. Non esistono. Esistono piuttosto degli autori e dei libri che cambiano il nostro modo di leggere, che ci rendono lettori più esigenti, impenetrabili, refrattari alla solita narrativa di trama, mainstream, lineare, con tutto l’iceberg in bella mostra. Infinite Jest ha questo potere. Fu pubblicato negli Usa nel 1996, in Italia arrivò quattro anni più tardi sull’onda emotiva di Edoardo Nesi (poi traduttore del romanzo) e di Sandro Veronesi, che dopo averne sentito parlare in un tour negli States e non riuscendo a leggerlo in inglese, pretese di farlo tradurre in italiano dai suoi amici della Fandango. In pratica sappiamo di Infinite Jest grazie al capriccio di due lettori eccellenti e fissati. Perché un romanzo di circa milletrecento pagine, molte delle quali occupate da centinaia di note – le note sono parte integrante del testo – continua a richiamare l’attenzione di tante persone compreso il sottoscritto? Avevo approcciato il mattone di Wallace due volte, l’ultima in prossimità del DFW Tribute che organizzai tre anni fa alla libreria Feltrinelli di Salerno. L’ho ripreso per la terza volta approfittando della sosta natalizia e di un vuoto di interessi che in un post semiserio su Facebook avevo definito come la condizione del lettore “assuefatto”, il terzo e ultimo stadio dopo quello dell’effetto acquario e del lettore consapevole. Non lo faccio per scelta. Come dicevo prima obbedisco a un richiamo, a una sirena odisseica che mi trascina in quello stato di dipendenza di cui sono piacevolmente vittime gli stessi personaggi del libro (Infinite Jest è anche un film introvabile che ipnotizza gli spettatori costringendoli a rivedere la pellicola di continuo, fino alla morte. Così pericoloso da trasformarsi in una possibile arma letale nelle mani di un particolarissimo commando terroristico). Rileggo Wallace perché “non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo”, così ne parlava Jonathan Franzen in un saggio. Sarà l’ennesima traversata lunga ed estenuante, lo so, ma la difficoltà di Infinite Jest è parte stessa del fascino di Infinite Jest, romanzo imperniato sul linguaggio e sul significato della letteratura prima ancora che su una vera e propria trama. Del legame stretto tra Wallace e Ludvig Wittgenstein si è scritto tanto. Wittgenstein è il filosofo del linguaggio e della impossibilità di scindere la realtà dalla sua esposizione. La distanza tra pensiero e parola in Wallace è così breve che leggendo le sue storie abbiamo l’impressione di non trovarci fuori dal racconto ma dentro la mente di chi lo sta portando in scena. No, una sola volta non basta per comprendere il senso di tutto ed entrare pienamente nella dimensione wittgensteiniana dell’azione e della sua rappresentazione. Di leggere Infinite Jest non si smette mai.  

Angelo Cennamo

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FORMICHITÀ – Charlie Kaufman

Se avete visto film del tipo Se mi lasci ti cancello, Essere John Malkovich o Anomalisa, leggere Antkind (Formichità), opera prima di Charlie Kaufman, uscita negli Stati Uniti nel 2020, in piena pandemia da Covid, e arrivata da poche settimane in Italia con Einaudi e la traduzione di Gaspare Bona, non sarà come precipitare in un buco nero o come sbattere all’improvviso contro un iceberg. No, perché avreste degli elementi in più per prendere le misure, orientarvi, districarvi nei mille e altri mille mondi abitati da questa testa matta di Kaufman, artista capace di cose terribili: clonare identità, uscire dalla normale cronologia del tempo, inventare nuovi e apocalittici scenari terrestri, sdoppiare esperienze, trasformare la verità in sogni e i sogni in verità. Ora voi vi aspettate che io dica due cose su Formichità, su questo mattone di oltre settecento pagine atteso tre anni quasi si trattasse di un Santo Graal soprattutto da un certo lettorato orfano di Bolaño, Foster Wallace e Pynchon (lo so che Pynchon è vivo ma come autore non lo è più). Bene. Datemi solo pochi secondi per schiarirmi le idee e tirare il fiato. Formichità l’avevo lasciato per un po’ di tempo in un angolo dello scaffale mentre ero preso dalle selezioni della shortlist del blog. Era lì che mi guardava, che mi chiamava: ma insomma quand’è che la smetterai di ignorarmi? Poi un giorno mi sono deciso e ho attaccato… Allora, lo dico subito: non so bene cosa ho letto. Prima ho citato Pynchon. È il solo riferimento che potrà aiutarvi a comprendere, almeno finché non sarete voi a leggerlo, il perimetro di quest’opera, che nonostante i non pochi difetti, la si può collocare nel migliore dei generi letterari, quello dei libri strani. 

Formichità ha una trama? Sì, ma si esaurisce in una piccola parte della narrazione. Tutto il resto è un magnifico cazzeggio fatto di quisquilie (poche) e colpi di genio (tanti). B. Rosemberger Rosemberg – B. sta per Balaam, ma lui preferisce la B puntata “Per non ostentare la mascolinità” –  di vite ne ha vissute tante “Tronfio conferenziere accademico. Stressato direttore di un grande magazzino. Dentista in una cittadina di provincia. Regista… Strisciante commesso in una gastronomia. Arrogante emulatore di Jean-Luc Godard… Invidioso critico cinematografico di terz’ordine…”.  Per una strana circostanza, B. si imbatte nel più grande capolavoro cinematografico di tutti i tempi, un film d’animazione al quale ha lavorato per novant’anni uno sconosciuto regista afroamericano chiamato Ingo Cutbirth. Il film di Ingo dura tre mesi e non lo ha visto nessuno. Nessuno oltre B. È un film comico sull’incubo dell’umorismo, popolato da centinaia di pupazzi, molti dei quali però non vengono mai inquadrati dal regista: gli invisibili. Le aspettative di B., che tra le altre cose è un uomo molto insicuro, complessato e di brutto aspetto, durano poco. Tutto andrà letteralmente in fumo e costringerà il protagonista a ricorrere a un piano assurdo: ricordare l’intera storia del film per farne un remake con attori in carne e ossa, servendosi di un ipnotizzatore. 

Quello che accade da qui in avanti è una infinita sequela di incontri ed esperienze strampalate, con mille divagazioni che non hanno nulla a che fare con la traccia principale del libro. Leggerete di caverne platoniche, film storici, di Donald Trunk (non Trump), e di formiche giganti, attraverso dilatazioni spazio-temporali nelle quali sarà facile perdersi o capire poco. Formichità è chiaramente un romanzo massimalista, Kaufman lavora per espansione, apre decine di incidentali che spesso vi daranno sui nervi, ma non sconfina mai nella presa in giro. Non è fuffa, la sua, è magma di nevrosi e di battute esilaranti, genio e sregolatezza. B. è figlio di Holden Caulfield e Alexander Portnoy: certi amori fanno dei giri immensi e poi ritornano. Con la solita ironia, Kaufman se la prende col politically correct che sta inquinando l’arte americana un tempo più libera e irriverente. B. è Ulisse che si apre all’ignoto, il ragioniere Fantozzi che sbava di fronte alla signorina Silvani, il Sam di Woody Allen che prova a darsi nuove chances. Insomma, non fatevi tante domande. Leggete Formichità. Divertitevi. 

Angelo Cennamo

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“LE SCHEGGE” DI BRET EASTON ELLIS È IL LIBRO DELL’ANNO

Il libro dell’anno per Telegraph Avenue è Le schegge – The shards – di Bret Easton Ellis (in Italia con Einaudi e la traduzione di Giuseppe Culicchia). Il romanzo di Ellis prevale su: L’anno che bruciammo i fantasmi di Louise Erdrich, The sentence nella versione originale (Feltrinelli – traduzione di Andrea Buzzi); L’atlante di William Vollmann, raccolta uscita negli Usa nel lontano 1996 (lo stesso anno di Infinite Jest di David Foster Wallace e Fight Club di Chuck Palahniuk) ma pubblicata per la prima volta in Italia nel 2023 (minimum fax – traduzione di Cristiana Mennella); Il passeggero di Cormac McCarthy, preferito al gemello Stella Maris, arrivato in libreria pochi mesi dopo (Einaudi – traduzione di Maurizia Balmelli); Manifesto Criminale di Colson Whitehead (Mondadori – traduzione di Silvia Pareschi). 

L’affermazione de Le schegge, che è netta e che è scaturita, come è prassi, da un giudizio condiviso anche con i lettori del blog, la si può motivare più o meno così: per la geniale operazione di sdoppiamento e di contenimento compiuta dall’autore, che raccontado la genesi del suo primo romanzo, ha di fatto ridisegnato i confini della metafiction secondo paradigmi nuovi. Ellis ripercorre le tappe di avvicinamento a Meno di zero: la progettazione, più in generale l’ambizione di scrivere, trascinando la vecchia storia nella nuova e uscendo da questa per diventare se stesso e darle voce. L’espediente narrativo adottato dall’autore, unitamente alla vivacità della trama – diversamente thriller, rapida nello scorrimento – e alla fedele rappresentazione di una certa borghesia californiana anni ’80 perennemente sull’orlo del precipizio, fa di questo romanzo il miglior affresco di una generazione disillusa e allucinata. Non solo. Il coraggio col quale Ellis racconta la sua storia, nella forma e nei contenuti, fregandosene dei lacci o dei subdoli tentativi di censura che minacciano di guastare, anzi che stanno già guastando molti pezzi della narrativa contemporanea non solo in America, aggiunge ulteriore valore e appeal al libro, trasformandolo quasi in un atto di resistenza a un’editoria dominata da deliranti forme di pedagogismo e strane vocazioni redenzioniste. La gioventù di Ellis è bianca, straricca, deideologizzata, socialmente disimpegnata, estranea quindi a qualunque format imperante. Le schegge vince anche per questo. 

Angelo Cennamo

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