
“Era cresciuto fuggendo dalla realtà e sarebbe stato così per tutta la vita”.
John Wilder, è lui il borghese piccolo piccolo di Disturbing the peace (Disturbo della quiete pubblica), l’everyman schiacciato dall’alcol, da un matrimonio infelice e da un lavoro che non ha mai amato: vendere spazi pubblicitari per la rivista American scientist. Eppure nella New York dei primi anni Sessanta non dev’essere stato complicato realizzare il “sogno”: una famiglia solida, una casa accogliente, spaziosa, una buona polizza sanitaria e tanti bei “verdoni” in banca. A John è toccata una sorte diversa: sempre fuori posto, figlio disobbediente, deludente, svogliato negli studi, poi marito e padre irascibile, bugiardo, soprattutto assente. Di personaggi come lui ne troviamo tanti nei romanzi di Richard Yates, “uno dei maggiori scrittori americani meno conosciuti” secondo l’Esquire, maestro della scrittura minimalista e prototipo del romanziere moderno, così moderno da rasentare in certi casi l’ultima frontiera della letteratura d’avanguardia: l’hip hop.
John Wilder è “soltanto un uomo”, uno dei tanti antieroi imperfetti e frustrati della middleclass americana – Yates deve esserlo stato almeno quanto lui per le sue note disavventure legate all’abuso di alcol e alla depressione – finito in questo romanzo per dare corpo e voce a tutti quei perdenti anonimi di una società che invece preferisce esibire la sua parte migliore, quella patinata dei bastardi fortunati, la sua fazione ridens, la più realizzata e gaudente. La storia ha inizio nel 1960 e si apre con una scena drammatica: John telefona alla moglie Janice da un bar di New York per dirle che non può tornare a casa dopo un viaggio d’affari. Le ragioni sono diverse: non ha portato un regalo al figlio Tommy, a Chicago ha fatto sesso per tutta la settimana con un’altra donna, e quando la moglie insiste per farlo tornare, lui sbotta: “Lo vuoi proprio sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi. Ecco perché. Tutti e due”.
Sono i primi segnali di una paranoia che non smetterà di abbandonarlo neppure dopo il ricovero al Bellevue Hospital, in quel guazzabuglio dove tutti urlano, si masturbano e danno calci a porte e finestre. Dovrebbero trattenerlo un paio di giorni al massimo, gli dicono, ma per via del Labour Day il ricovero si protrae per una settimana intera. Quella esperienza tragicomica John proverà a metterla in un film che vuole produrre lui stesso con l’aiuto di Pamela, la sua amante, ragazza disinibita e ambiziosa, e di un gruppo di studenti radical chic del Vermont.
Pamela convince John ad osare di più nel mondo della celluloide, a mollare il suo lavoro di pubblicitario, a separarsi da moglie e figlio, e a trasferirsi con lei in California. Per lunghi tratti del romanzo, Janice e Pamela rappresentano gli unici argini all’alcol, quel fiume impetuoso, inarrestabile che condurrà poco alla volta il protagonista all’autodistruzione. I deliri si moltiplicano: John è geloso di tutti, risponde male, perde le staffe per qualunque sciocchezza, poi crolla davanti all’ennesima bottiglia di whisky, il suo unico rifugio. Su insistenza di Paul Borg, l’amico avvocato, accetta di partecipare agli incontri dell’Anonima Alcolisti, di consultare medici e psichiatri – i duetti con il dott. Bloomberg sono la parte più esilarante del libro e ci riportano a uno dei capolavori giovanili di Philip Roth, Lamento di Portnoy “Ti racconto tutta la maledetta storia della mia vita e tu stai seduto lì, senza dire assolutamente niente, e ogni settimana ti metti in tasca cento verdoni che sono miei. Sai come si chiama questo? Si chiama furto” – ma il tunnel della follia sembra non finire mai e preannunciare nuovi disastri.
Facile riconoscere la vita di Yates in quella disperata di John Wilder, ritrovare nella dipendenza dall’alcol e nelle crisi di nervi del protagonista del romanzo la stessa esistenza tormentata e infelice del suo autore, riscoperto e rilanciato solo negli anni Duemila dal New Yorker e da alcuni giovani scrittori come Michael Chabon che si sono offerti volontari per promuovere le sue opere con letture pubbliche.
Angelo Cennamo






