SOTTO UNA BUONA STELLA – Richard Yates

Romanzo del 1969 – l’anno di Lamento di Portnoy di Philip Roth e Bullet Park di John Cheever – dalla forte impronta autobiografica, ma quale opera di Richard Yates non è un travestimento della vera vita di Yates. Bob Prentice, il giovane protagonista del libro, è una vecchia conoscenza dei lettori dello scrittore di Yonkers, nasce infatti sette anni prima con il racconto che chiude la raccolta Undici Solitudini, in Italia edito da minimum fax come tutti i libri di Yates. In “Costruttori” Bob è un ghostwriter che sogna di fare lo scrittore (per diversi anni anche Yates si è guadagnato da vivere scrivendo per altri, Bob Kennedy per esempio; e come nella nuova storia ha combattuto la seconda guerra mondiale in Europa ammalandosi di tubercolosi), con una madre che si dedica all’arte senza successo e che affoga l’insoddisfazione nell’alcol. Uno dei tratti ricorrenti nelle storie tristi e disturbanti di Yates è proprio l’alcolismo nel quale precipitano quasi tutti i protagonisti: alcol, farmaci, fumo, depressione. 

Sotto una buona stella racconta di una madre (Alice) e del suo unico figlio (Bob), rimasti soli dopo il divorzio di lei e costretti a cambiare molte case e a farsi aiutare dai parenti per tirare avanti. La storia è divisa in due, con parti alternate: in una Bob lo vediamo al fronte, nell’altra è ancora bambino con sua madre. Una storia di povertà e di solitudine, tipico di Yates. Bob è un soldato scoordinato, impacciato, occhialuto, dall’aspetto quasi effemminato. Intrattiene una relazione epistolare molto colta e impegnativa con il suo amico Berlingame, che gli scrive lettere lunghissime e piene di riferimenti filosofici. Mentre Bob combatte la guerra in Europa, Alice ne combatte un’altra in America contro l’indifferenza dei tanti che non credono nel suo talento e di mariti di altre donne che la seducono per poi abbandonarla, come Sterling Nelson, che a un certo punto parte per l’Inghilterra dicendo di dover sistemare delle questioni familiari, ma non fa più ritorno. Alice è un’illusa con delle assurde manie di grandezza. Nelle ultime pagine, dopo essere stata costretta a farsi ospitare dalla sorella e dal cognato, senza un centesimo in tasca molla tutti e prende una suite in uno degli alberghi più lussuosi della città. I personaggi di Yates sono schiacciati dalla loro insolenza e da una smodata ambizione. Rincorrono sogni troppo grandi e vanno a sbattere contro l’infelicità. Il rapporto morboso tra Alice e Bob, con la madre che proietta sul figlio ansie e aspettative è una delle tracce del romanzo. Yates sa dare voce alle donne, i suoi personaggi femminili sono quelli più riusciti, in Revolutionary Road come in Easter Parade, e anche in questo romanzo: quelle dedicate ad Alice sono le parti migliori. 

Angelo Cennamo

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OVUNQUE ANDRÒ – Piera Carlomagno

Quando, tempo fa, mi preannunciò l’uscita del suo nuovo romanzo, immaginai che si trattasse del quarto capitolo della fortuna serie di Viola Guarino, l’anatomopatologa che indaga sui delitti lucani col pm napoletano Loris Ferrara, tra vecchi borghi, calanchi e strade di campagna. “No no, è un’altra cosa” mi disse. A quest’altra cosa Piera ci stava lavorando da diversi anni, senza fretta forse, ma con l’idea fissa del cambiamento. Chi la conosce sa che non sta mai ferma: studia, osserva, rimugina; Viola che sfreccia con la Ducati sulla statale ionica chi altra è se non Piera l’inquieta, la scrittrice alla ricerca di nuove forme, strutture, ingegni, che la facciano deviare dal genere per collocarsi altrove? Oltre il giallo c’è il giallo, diceva qualcuno, ma oltre Viola c’è una Piera diversa. Ovunque andrò, dal 21 giugno in libreria con Solferino, è uno snodo. Snodo è la parola che ha usato lei non io, ed è la parola giusta per definire il romanzo della svolta e del cambio di passo. Piera si apre a nuovi spazi e lo fa rimanendo fedele a se stessa, alle proprie radici, quelle non si recidono mai, alle vocazioni: nel libro una dose di noir c’è ma scivola sui bordi senza intaccare il corpaccio del plot che per due terzi almeno è incentrato su una poderosa saga familiare. Le voci di dentro di Piera diventano la voce di Tania C. con quel punto che interrompe Carlomagno, per schermire il pudore di chi non osa spingersi oltre l’intuibile. Tania, che è l’erede della R&C Pelli, una grossa azienda con stabilimenti a Napoli e in Cina e con sessanta milioni di fatturato, sta aspettando la sentenza che potrebbe condannarla per l’omicidio del marito. Secondo l’accusa, l’uomo sarebbe stato spinto dall’ottantunesimo piano di un grattacielo, a Pechino, nel bel mezzo di un ricevimento di gala. Si direbbe un delitto passionale: Raniero Monforti, questo era il suo nome, nella megalopoli asiatica curava gli affari di famiglia ma nel frattempo se la spassava con una nota modella e attrice del posto. L’attesa è snervante, provate voi a mettervi nei panni di Tania col timore che il telefono squilli da un momento all’altro e vi comunichi l’infausto verdetto. Il tempo sospeso Tania decide di riempirlo raccontando la storia della Rinaldi & C. partendo dalle origini lucane di quel piccolo impero familiare. Mettetevi comodi, dice, perché questa storia inizia nei primi del Novecento e del Novecento non risparmia nulla: mescolando vicende private a fatti realmente accaduti, Tania ci guida attraverso due guerre mondiali, il fascismo, il boom economico, il Pci di Berlinguer, fino ai gol di Diego Maradona e le canzoni di Pino Daniele, riuscendo, là dove altri hanno fallito nonostante i grandi numeri (I Leoni di Sicilia), a confezionare quel Grande Romanzo Italiano arenatosi dopo la Ferrante di Lila e Lenù. Il tentativo di Piera C., non privo di qualche sbandamento nelle parti più oleografiche, è efficace e armonioso nei tre scenari sui quali la storia si sviluppa attraverso i suoi continui andirivieni temporali: la Lucania, Napoli, Pechino. Il romanzo, scritto in una prima persona che fa coincidere autrice e protagonista, e con parti metanarrative che aiutano il lettore ad addentrarsi con più agio nei luoghi e nei drammi raccontati, è così denso di microstorie che appare più lungo delle sue duecentottantacinque pagine. Nei tre contesti della narrazione la voce di Tania cambia toni e registri, riproducendo uno strano intarsio di sonorità e di linguaggi, dal classico/manzoniano delle parti più rurali del sud al pop/manageriale di quelle asiatiche. Raniero Monforti si è suicidato o è stato ucciso dalla sua ex moglie? Per spiegare le ragioni del misterioso epilogo occorre fare un lungo balzo nel tempo e fermarsi a Castrappeso, un paesino tagliato in due da una frana, dove vivono i Rinaldi, piccoli industriali, i Di Salvia, latifondisti con qualche quarto di nobilità, i C. e gli Alario, perlopiù artigiani e commercianti. Figura chiave dei primi capitoli è quella di Prospero Maselli, l’avvocato trattino ingegnere che si è fatto una posizione a New York come costruttore, e che una volta tornato in Basilicata ha preso di mira il palazzo dei Di Salvia. È una vicenda di sfide la storia raccontata da Piera C., con il denaro da una parte, gli amori e i tradimenti dall’altra. Una galleria di donne coraggiose che si ribellano al potere dei maschi per emanciparsi da un destino già scritto e deciso dai ruoli. Paola, una delle figlie di Don Domenico, il ricco farmacista di Castrappeso, che un secolo più tardi “diventerà” Pauline, la borsa più chic e desiderata del mondo, si lascia ammaliare da Prospero, impegnato nel frattempo anche nella difficile opera di ricollegamento del paese. Il futuro dell’avvocato e di Paola sembra segnato ma l’americano non ha ancora fatto i conti con Eugenio Rinaldi, il conciatore di pelli, il bel forestiero, l’uomo di mondo che legge Anna Karenina e canta Smoke in your Eyes. Una notte Paola fuggirà con lui in macchina e sarà l’inizio di tutto. Ovunque andrò è un romanzo ambizioso sull’amore, sul denaro e sul riscatto, una storia crudele e profetica; in alcuni passaggi mi ha ricordato Empire Falls di Richard Russo, che nel 2002 soffiò il Pulitzer al Franzen de Le Correzioni. Un banco di prova impegnativo, una scommessa vinta. Il miglior libro di Piera Carlomagno, che si consacra tra le scrittrici più interessanti di questi anni. 

Angelo Cennamo

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LA PIÙ LUCENTE CORONA D’ANGELI IN CIELO – Rick Moody

The Ring of Brightest Angels Around Heaven – La più lucente corona d’angeli in cielo – Rick Moody lo pubblica nel 1995, tra Tempesta di ghiaccio (1994) e Rosso Americano (1996). I Novanta sono il suo decennio migliore, Moody è tra i golden boys della narrativa nordamericana con Chuck Palahniuk, Bret Easton Ellis, Michael Chabon, David Foster Wallace, Jonathan Franzen, A.M. Homes… La novella o racconto lungo fa capolino in Italia con minimimfax, il tempo di vendere “quattro copie” e testimoniare alla solita nicchia il genio di uno scrittore che sa cavalcare l’onda del cambiamento. In queste settimane ritorna in libreria con La Nave di Teseo in un volume che include altre undici storie tradotte da Adelaide Cioni e Tommaso Pincio, autore anche di una bellissima postfazione. Al di là dello smarrimento, l’infelicità, le occasioni sprecate che accomunano quasi tutti i personaggi, questi racconti non seguono una triettoria riconoscibile, alcuni sono stati recuperati da un libro precedente: La James Dean Garage Band. La storia di Dean che sopravvive al suo scontro fatale per unirsi a dei giovani musicisti è contenuta anche in questa versione. Dean fluttua tra la vita e la morte, contamina i nuovi amici con la sua fama di artista maledetto, gli amici lo trasformano in una persona anonima, uguale a tante altre. Dean vive ma nello stesso tempo è corpo mistico del proprio mito. In Appunti Preliminari, il perito di uno studio legale che segue il caso di una donna caduta in un centro commerciale trova il modo di registrare le conversazioni telefoniche tra la moglie e il suo amante. Insieme alla storia che dà il titolo al libro sono i due racconti migliori. La più lucente corona d’angeli in cielo è ambientata in una New York spettrale, fatta di locali sadomaso, bordelli, una terra promessa di sogni perduti, un cimitero di speranze popolato da tossici assuefatti anche all’idea che non può esserci via di uscita dall’abisso in cui sono precipitati per loro scelta e per puro caso, non per altro. Non saprei dire se Moody abbia o meno provato sulla propria pelle certe esperienze, lo stesso Pincio ne è all’oscuro, ma l’autenticità del male che viene fuori dalle pagine del racconto tocca il cuore, turba, commuove. I personaggi di Moody (Jorge, Toni e Randy) sono nudi di fronte al dolore, e senza filtri, l’immediatezza della storia sembra negare il suo racconto, non c’è narrazione, solo i fatti vissuti mentre accadono. Pincio dice che La più lucente corona d’angeli in cielo sembra scritto in trance per l’ispirazione che ha guidato Moody a quello speciale stato di grazia. Lo penso anch’io. Con La più lucente corona d’angeli in cielo Moody ha inventato il sequel di Pasto Nudo di William Burroughs, l’archetipo di un’entropia che coniuga l’umano col disumano, l’incubo con la rassegnazione. 

Angelo Cennamo






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HERZOG – Saul Bellow

Come quella di molti altri scrittori americani, la storia familiare di Saul Bellow è fatta di migrazioni, incroci pericolosi, opportunità prese a volo. Nato in Canada, a Lachine, un paesino poco distante da Montréal, da genitori ebrei russi trasferitisi e naturalizzati negli Usa, il giovane Saul, ultimo di quattro figli, visse in stretto contatto con la comunità ebraica della periferia multietnica di Montréal. Alla narrativa approdò nel 1944 con l’introspettivo Dangling man – Uomo in bilico. La notorietà però arrivò solo dieci anni più tardi con Le Avventure di Augie Marchromanzo di formazione, picaresco, dai mille colori, forse il punto più alto del suo genio creativo. Elegante, colto, perfino snob, e ricchissimo grazie al successo dei suoi libri, Bellow è stato tra i maggiori romanzieri del Novecento, insieme a Philip Roth, Bernard Malamud, i fratelli Singer, capofila della cosiddetta letteratura ebraica  americana. Herzog, il romanzo della consacrazione, uscì nel 1964. La personalità dello scrittore protagonista del libro ricorda molto da vicino quella dell’autore, secondo uno schema ampiamente collaudato nella letteratura anglosassone. Tradito dalla moglie e spoglio di ogni romantica illusione, Herzog – alter ego di Bellow – si ritira nella sua casa di campagna dove comincia a scrivere lettere su lettere a chiunque: amici, parenti, al Presidente degli  Stati Uniti, addirittura ai defunti. Scrive in continuazione, Herzog,  per sfogare la sofferenza e per fuggire da quell’isolamento paranoico che si è autoinflitto. Ma a fare compagnia al dotto e spiantato studioso di romanticismo non ci sono soltanto quelle folli divagazioni metafisiche e quegli sproloqui torrenziali, fonte di ulteriori inquietudini. Tutto il romanzo è infatti pervaso di sessualità. Herzog rappresenta la prima spedizione protratta di Bellow come scrittore nell’immenso territorio del sesso, scriverà Roth, che quel territorio lo ha attraversato con riconosciuta abilità. È Ramona, la fioraia un tempo sua allieva alla scuola serale, che riporta l’isterico e disilluso protagonista all’intenso piacere del vivere reale, e che lo spinge a uscire dal malinconico rifugio di campagna… pagine strepitose. Dopo una spericolata trasferta a Chicago per rivedere la figlia rimasta a casa con l’ex moglie e il suo amante “gondoliere” (lo chiama così per via della gamba di legno che lo fa barcollare), Herzog riesce piano a piano a superare il dramma adulterino che gli è piombato addosso e quella strana mania di scrivere lettere. Non è pazzo, Herzog, oppure ha smesso di esserlo grazie all’affetto e alla generosa presenza di Ramona nella sua nuova vita. Herzog è un infelice che ha voglia di innamorarsi, ancora, sempre, finché gli sarà consentito. Un personaggio potente “il più grandioso, il Leopold Bloom della letteratura americana” dirà sempre Roth, che di Bellow è stato forse il miglior esegeta. Tutto il libro è un susseguirsi di riflessioni profonde, a volte oscure, sul senso della vita, l’amore, la disperazione, la morte. Bellow era così: saggio, romantico, vanesio.

Angelo Cennamo

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CRISTALLO – Livia Sambrotta

Chi è stato giovane nei primi anni Novanta ricorderà una serie televisiva intitolata I segreti di Twin Peaks, dal nome di una cittadina immaginaria dello Stato di Washington, sul confine tra Stati Uniti e Canada. Tutta la vicenda ruotava intorno al ritrovamento del cadavere della figlia di un noto avvocato del posto, Laura Palmer, uccisa non si sapeva da chi né per quale oscura ragione. Il successo della serie, nel tempo divenuta un cult, era fondamentalmente legato all’idea della profanazione del silenzio e della bellezza dei luoghi per mezzo di un atto brutale e inaspettato come l’omicidio di una ragazza. Il meccanismo escogitato da David Lynch non era nuovo, basterebbe ricordare una certa filmografia di Alfred Hitchcock o romanzi come Shining di Stephen King, però ha funzionato così bene da diventare una specie di pattern per altre storie che su quel contrasto hanno incentrato il loro appeal: La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi, La sostanza del male di Luca D’Andrea, tanto per citare due romanzi italiani usciti, mi pare, nello stesso anno. Cristallo di Livia Sambrotta, arrivato da qualche giorno in libreria con Sem, si inserisce in questo filone. Chi ha letto Non salvarmi, vincitore nel 2021 del premio Selezione Bancarella, ha avuto modo di testare la disinvoltura con cui Livia Sambrotta riesce a mettere insieme storie o pezzi di storie diverse, senza vincoli geografici, fuori dai soliti contesti narrativi del mainstream locale. Se Non savarmi è a tutti gli effetti un romanzo americano, Cristallo non può dirsi un romanzo tipicamente italiano, il che ci conferma quanto Sambrotta sia avulsa da qualunque impronta/connotazione/radice culturale legata alle proprie origini. Cristallo è il nome dello splendido chalet sulle Dolomiti dove Max e Rachele hanno deciso di trascorrere le vacanze estive. Max è un architetto di successo, Rachele una fotografa di fama internazionale che fatica a liberarsi da due tragedie familiari: un fratello assassinato quando era bambina, entrambi i genitori morti in un incidente d’auto. Prima di trasferirsi a Milano Rachele abitava nello stesso paesino dove ora sta per trascorrere la sua vacanza da sogno con Max. Il sogno però sta per trasformarsi nel peggiore degli incubi: un “Ferragosto di sangue”, una strage che coinvolge anche altri amici e che tiene incollati alla tv milioni di italiani alla ricerca del colpevole. La storia inizia due settimane prima del massacro con Max e Rachele che arrivano allo chalet felici di staccare la spina e di godersi quel paradiso terrestre che non ha eguali: lo chalet è elegante, e lo stile avveniristico, una combinazione di vetri e acciaio, si armonizza perfettamente col paesaggio e con le vette altissime che lo circondano. Fin da subito, però, Rachele piomba in uno stato di agitazione che la porta a sospettare di un possibile tradimento del marito: Max nasconde il telefono, altre volte si allontana da lei per conversare non si sa con chi. I paragrafi sono alternati tra presente e passato, con ripetuti flashback scritti in corsivo nei quali la protagonista rivive le giornate della sua infanzia con il fratello Luca. Non c’è verso: Rachele è prigioniera di un tempo che non è mai andato via. Luca, mamma, papà… Non è bastato il matrimonio con Max, non sono bastati il successo né il denaro a guarirla da quelle ferite sempre aperte. Arriva il giorno del massacro, il Cristallo si colora di rosso, c’è sangue dappertutto, anche sul corpo di Rachele ma Rachele è scampata alla mattanza. Non ricorda. La sua mente è vuota. Il colonnello Denis Bogo, incaricato delle indagini, si muove su più fronti: tracce, moventi, collegamenti, la pressione dei media. Sulla scena non viene rinvenuto nessun Dna di persone diverse dalle vittime. Sambrotta mescola le carte, depista, semina nuovi dettagli. La storia si apre sul vissuto degli altri personaggi, le dinamiche prendono traiettorie imprevedibili ma al centro di tutto c’è lei, Rachele, col suo passato e con Luca che ritorna sempre, nel ricordo, nel sogno, nelle indagini. La verità è a portata di mano ma, come nella migliore tradizione del genere, nulla è come sembra. Cristallo è un thriller magnifico, bilanciato in ogni sua parte, dominato da un paesaggio che riempie almeno la metà della storia contrapponendosi simbolicamente con la propria luce alle zone buie dei delitti e dell’inquietudine. Un romanzo sulla fragilità e sull’impossibilità di emanciparsi dai ricordi, una storia di silenzi, di parole mai dette che guastano, torturano, uccidono. 

Angelo Cennamo

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I REIETTI – Lee Maynard

Crum non è un luogo di fantasia, esiste per davvero. Lee Maynard ci è nato e vissuto prima di fuggire via come il giovane protagonista della sua trilogia, che si conclude con I Reietti, nel 2012. In Italia The Scummers è arrivato ventidue anni dopo con Mattioli 1885 e la traduzione di Nicola Manuppelli. Poco più di duecento abitanti, una scuola, una chiesa, “l’emporio di Clyde”, una strada non asfaltata, niente illuminazione pubblica né rete fognaria, Crum è situata proprio sul confine tra il West Virginia e il Kentucky, “in fondo alle viscere degli Appalachi”. Quando Maynard pubblica il primo capitolo della saga di Jesse Stone, molti dei suoi connazionali si indignano per la ferocia con la quale l’autore ha descritto quello “stagno luccicante di tetti di lamiera” e per la prosa così inutilmente volgare. L’onda della Cancel culture è ancora lontana da venire, eppure il libro viene bandito. “La vita a Crum era gaia, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che tracimavano emozioni, sesso che tracimava amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto” scrive Maynard all’inizio di questa lunga storia, senza immaginare che con Crum Jesse prima o poi avrebbe fatto i conti. I Reietti racconta l’ultimo tratto di una fuga infinita che porterà questo montanaro ignorante e senza particolari abilità a lasciare la contea del South Carolina, dove aveva osato mischiarsi con un gruppo di neri, per puntare a Ovest, dreaming California. Il romanzo è scritto come il diario sul quale Jesse, anche voce narrante, appunta le tappe del suo viaggio e i ricordi che lo legano a quel buco di città dove ha lasciato Yvonne, il primo amore, l’unico. Siamo negli anni Cinquanta, l’America sta cambiando (in meglio) e le opportunità non mancano neanche per una testa calda e inconcludente come Mr. Stone. Pagine di corriere sgangherate e di autostop. Jesse si muove da un posto all’altro, da un ranch all’altro. Nella borsa ha sempre qualche libro, malandato, riparato col nastro adesivo “Al ranch avevo letto abbastanza libri per sapere che avevo bisogno di leggere molti più libri”. Si iscrive all’università, alla facoltà Inglese. Non passa di certo inosservato con la sola camicia che ha, bucata sui gomiti, i jeans logori e gli stivali da risuolare. Dura poco. Nel 1960 lo troviamo all’uscita di un bordello, a San Francisco, in compagnia dei suoi nuovi compagni di merende, un messicano e un indiano. Tra sbronze e scazzottate, Jesse rimarrà invischiato in una brutta vicenda giudiziaria. La pena la sconterà nell’Esercito degli Stati Uniti, ultima ma non ultimissima tappa del suo girovagare senza sosta. I Reietti, come i due libri che lo hanno preceduto, è essenzialmente un romanzo sul disagio: Jesse non ha ancora trovato un posto nel mondo, un posto da chiamare casa. Come Lo straniero di Camus, il personaggio di Maynard sente di non appartenere a niente e a nessuno. La fuga, dagli altri e da sé, è la traccia principale ma non l’unica di questa storia che sembra negare, a Jesse come a chiunque altro, la possibilità di sfuggire al proprio destino, di andare via senza traumi. Lontano da casa non sarai mai te stesso: è questo il messaggio che Maynard lancia al suo lettore. Jesse Stone lo abbiamo già visto nel Sal Paradise di Kerouac e nel John Grady della trilogia del confine di McCarthy. In principio fu Huckleberry Finn, l’archetipo dell’Ulisse americano, l’esploratore, l’inquieto, il ribelle, il sognatore. 

Angelo Cennamo


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GLI INCANTATORI – James Ellroy

Freddy Otash è veramente esistito. Nacque nel Massachusetts nel 1922. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta fu il re indiscusso degli investigatori privati di Hollywood, il “Cerbero” di Hollywood. Scrisse libri di memorie, articoli, recitò in film di insuccesso. Estorsore freelence, spalatore di fango per giornali scandalistici come “Confidential”, il nostro Freddy si dice abbia guadagnato molti dollari come intimidatore e pusher per conto di John Kennedy. Credeteci. Freddy Otash è tornato a vivere nei romanzi di James Ellroy, di più: Ellroy ne ha fatto il suo miglior personaggio, trasformandolo in una figura sinistra e leggendaria, in un supereroe del male. “Vivo nel passato, il presente non esiste”, non fa che ripetere lo scrittore di Los Angeles a chi lo intervista, e non è un caso che tutti i suoi libri siano fermi a quel decennio, anno più anno meno, lo stesso in cui sua madre venne strangolata da uno sconosciuto. L’inizio di tutto, lo shock che indirizzò il giovane James, il bambino, al genere Hard Boiled, prima come vorace lettore poi come autore di bestseller venduti in ogni angolo del mondo. Il calendario di Ellroy è fermo a quel giorno: 22 giugno 1958. Raccontando la scena dei delitti americani, Ellroy non fa altro che raccontare quella scena, con il corpo di sua madre riverso sul pavimento e la sagoma di gesso disegnata intorno. Chi è Dalia Nera se non la madre di Ellroy? Nel nuovo romanzo la madre è Marilyn Monroe. La vita della più famosa attrice del mondo è stata stroncata da un’overdose di farmaci o per mano dei Kennedy? È questo l’interrogativo al quale Ellroy prova a rispondere nelle seicento e passa pagine de Gli incantatori, l’ultimo libro, pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Alfredo Colitto. La voce narrante è quella dello stesso Otash. Freddy gioca bene le sue carte: “finanzia un’operazione di raccolta fango sessuale da usare a scopi ricattatori”. Ha spiato Marilyn per conto di Jimmy Hoffa, il sindacalista in odore di mafia, ma adesso è la polizia a incaricarlo di indagare sulle ragioni della più clamorosa delle morti dello starsystem. Il romanzo è una full immersion di strategie, procedure, dettagli di una serratissima investigazione a doppio fondo, con Otash che non risparmia colpi bassi ma che di colpi ne riceve anche di più duri. “Pazza Marilyn. Iniezioni di collagene. Segni di morsi. Quarantamila dollari sotto il letto. Strane chiamate da telefoni pubblici. È tutto un gran troiaio”. 

Più delle parole, dei romanzi che ci piacciono ci restano le immagini. Quella di Freddy che tocca la gamba ancora calda di Marilyn, stesa nel letto e senza vita, è fortissima, non si dimentica. Ellroy è sulla sua scena ideale, Ellroy è nel posto giusto: la camera da letto di Marilyn in quella calda notte d’agosto del 1962 è il “suo luogo oscuro”. Leggere Ellroy toglie il fiato; la scrittura sincopata somiglia a una partitura Jazz: stacchi, controtempi, ripetizioni, sfuriate di semibrevi. Ogni frase è composta mediamente da cinque sei parole. Frase punto. Frase punto. Frase punto. Ta-ta-ta-ta-ta. Ta-ta-ta-ta-ta. Ta-ta-ta-ta-ta. Mitragliate di periodi a volte cortissimi ma inseriti in una narrazione espansa. Scrivere così richiede una scelta accurata delle parole. Leggere, molta concentrazione, anche perché il libro è pieno di sottotrame e di nomi talvolta difficili da ricordare o da abbinare ai rispettivi ruoli, nomi che entrano ed escono dalla storia rendendola in alcuni punti ingarbugliatissima. Gli incantatori è il più classico degli Hard Boiled; tra verità e finzione Ellroy ricostruisce in chiave crime e alla sua maniera uno dei grossi fatti di cronaca della storia recente degli Stati Uniti, una vicenda di chiaroscuri e di cliché, i cui protagonisti ancora una volta sono John e Bob Kennedy. Sesso, denaro, potere, bellezza, solitudine: l’America non è mai stata innocente. Non è così? 

Angelo Cennamo

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THE FORTRESS OF SOLITUDE – Jonathan Lethem

Negli anni del liceo, tra gli appunti disordinati sulla mia scrivania,‎ avevo una vecchia foto di Brooklyn in bianco e nero, un po’ sgualcita, presa chissà dove. Mostrava lo scorcio di una strada verosimilmente malfamata, con un marciapiede sudicio, crepato, sbilenco, scritte illeggibili sui muri, dei neri con i capelli lunghi e jeans a zampa di elefante appoggiati all’ingresso di un palazzo, anche questo fatiscente, fatto di mattoni scuri – forse marroni – e delle auto con i musi lunghi incolonnate ai bordi della carreggiata. Per parecchio tempo quella foto ha evocato nella mia immaginazione l’idea dell’America – New York o San Francisco era uguale – i suoi mille dialetti, l’architettura, la musica, le sale da gioco nei seminterrati fumosi, i campi di basket all’aperto con le reti metalliche intorno, le fiancate colorate dei vagoni della metropolitana. A distanza di anni, ritrovo quella foto con lo stesso marciapiede consumato, le insegne al neon, le auto in sosta e i muri imbrattati di vernice, tra le pagine di romanzi newyorkesi come Città in fiamme di Garth Risk Hallberg, Follie di Brooklyn di Paul Auster, Underworld di Don DeLillo, o La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem, autore che a Brooklyn ha ambientato almeno la metà dei suoi libri. La fortezza della solitudine è uscito nel 2003; racconta la storia di una lunga amicizia tra due ragazzi, uno bianco l’altro di colore, vicini di casa in Dean Street, esattamente a Brooklyn. Nella storia appassionata di Lethem, che si sviluppa tra gli anni ’70 e i ’90, Dean Street ricorda la via Gluck della canzone di Celentano, il luogo di un’infanzia povera, tempestosa, ribelle, ma nello stesso tempo un posto creativo, fecondo di curiosità e di insegnamenti, dal quale non si può prescindere, è impossibile emanciparsi… “dovevo tornare nel luogo a cui un tempo appartenevo“, dice il protagonista in uno dei passaggi più significativi. Al di là del colore della pelle, Dylan Ebdus e Mingus Rude, hanno molto in comune: sono entrambi figli unici cresciuti senza madre né fratelli, e con due padri artisti. Quello di Dylan è un pittore frustrato, costretto a dipingere copertine di libri, ma con un sogno nel cassetto che prima o poi finirà per avverarsi. Mr. Rude è invece una meteora della black music caduta nella desolazione e nella dipendenza dalla cocaina dopo una aver vissuto una breve parentesi di popolarità nei Distinctions. Un romanzo di formazione, si direbbe, nella scia di Oliver Twist o Augie March. Ma quando Lethem attinge dal passato, lo fa con originalità e rimanendo fedele al proprio stile. Le scorribande di Dylan e di Mingus, l’amore per i supereroi, le partite di football, la droga, il bullismo nel quartiere, la scoperta del sesso, sono il diario di bordo di una militanza a volte spietata, pericolosa, tragica come la sparatoria che a un certo punto dividerà le strade dei due amici. Qualche anno dopo, Dylan lo ritroviamo a Berkeley, a scrivere per una nota rivista musicale. Tra un’avventura sentimentale e l’altra, l’ex scugnizzo di New York incontra e intervista big dello spettacolo – il libro è pieno di citazioni sul cinema e sulla musica pop, rock, funk – ma la sua nuova vita è come imprigionata dal passato: Dean Street, l’amico Mingus, la madre sparita sono per Dylan una vera ossessione, un tarlo che nelle ultime pagine lo spingeranno a tornare. The fortress of solitude è sicuramente una storia di amicizia, di conflitti razziali e di buona musica. Ma è anche un romanzo sull’assenza, sulla nostalgia, sui guasti del tempo, e sullo struggimento per qualcosa che è andato perduto. Più  che il grande romanzo americano, un grande romanzo su Brooklyn, come preferisce definirlo Jonathan Lethem.

Angelo Cennamo

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