YELLOWFACE – Rebecca F. Kuang

Rebecca F. Kuang, ventotto anni, cinese ma solo di nascita, al suo attivo ha già cinque romanzi, perlopiù Fantasy. Perlopiù perché incasellare Babel, il più noto dei cinque, nella letteratura di genere, sarebbe riduttivo, e forse un errore. Con Yellowface, in Italia edito da  Mondadori con la traduzione di Giovanna Scocchera, Kuang cambia ancora per approdare, non sappiamo se definitivamente, al realismo puro. Come molte storie che parlano di scrittori, perché di questo si tratta, il romanzo contiene un secondo romanzo. The Last Front, questo è il titolo, racconta dell’esperienza vissuta dai 140.000 operai cinesi reclutati dall’esercito britannico e spediti al fronte durante la prima guerra mondiale. È un’opera ambiziosa che ha richiesto un grosso lavoro di ricerca, di studio, e che potrebbe consacrare Athena Liu, autrice sinoamericana nella quale è facile ritrovare gli stessi tratti della Kuang, tra le voci più interessanti della nuova letteratura mondiale. Athena è fichissima, una bellissima donna di ventisette anni, non bianca, “vagamente queer”, e con settantamila follower su Instagram. Appena laureata a Yale, ha già un contratto con un’importante casa editrice, un altro con Netflix, e un elenco di candidature a premi letterari più lungo di una lista della spesa. Proprio nelle ore in cui sta per inviare il manoscritto di The Last Front al suo editore, Athena però muore. Vorrei tanto parlarvi della goffa morte di Athena ma non sarebbe corretto. L’enfant prodige esce di scena nelle prime pagine di Yellowface, davanti agli occhi della sua migliore amica ed ex compagna di college, June Hayward, anche lei scrittrice ma di ben altra caratura: un solo romanzo pubblicato che non ha letto nessuno, e una carriera nell’editoria incertissima per non dire già finita “È dura essere amica di qualcuna che ti surclassa in continuazione”. June, che è la voce narrante di Yellowface, ruba il manoscritto di The Last Front e lo fa diventare il suo bestseller. Il furto del testo è l’espediente al quale ricorre Kuang per introdurre uno dei temi centrali del romanzo, la peggiore nevrosi dell’editoria americana di questi anni: l’appropriazione culturale. Ricorderete qualche anno fa l’incredibile vicenda di Jeanine Cummins, la scrittrice portoricana che qualcuno arrivò perfino a minacciare di morte perché si permise di raccontare nel suo libro “Il sale della terra” una storia di immigrati messicani. Cummins fu costretta ad annullare molte date del tour promozionale e a rinunciare a dibattiti pubblici e interviste. Quello che accadde nella realtà a Jeanine Cummins si ripete nella finzione con June Hayward. June è bianca, non ha origini asiatiche: come può scrivere di operai cinesi? Il suo editore le consiglia di pubblicare The Last Front col nome di Juniper Song “Nessuno ha il coraggio di dire apertamente che “Song” può essere scambiato per un cognome cinese…”, e di servirsi di un sensitivity reader cinese per correggere eventuali frasi razziste e metterla al riparo da eventuali accuse di appropriazione e, peggio ancora, “di parassitismo culturale”. Ma non basta. L’iniziale successo del romanzo si sgonfia di fronte a una raffica di accuse infamanti: June è una truffatrice, una ladra, un’approfittatrice, una razzista. Siamo al secondo e al terzo argomento della storia: l’invidia, il potere di vita e di morte dei social e gli effetti distopici della popolarità “Una volta varcata la soglia dell’editoria professionale, ecco che improvvisamente la scrittura diventa una questione di invidie tra colleghi, vaghi budget per la promozione e anticipi che non sono mai all’altezza di quelli offerti ad altri scrittori”. Poi ci sono i lettori “che proiettano le proprie aspettative non solo sulla storia in sé, ma sulle tue idee politiche, la tua filosofia di vita, la tua etica in generale. Il prodotto sei tu, non la tua scrittura… quando ti accorgi che molti dei tuoi follower sono persone di colore o gente che all’interno del proprio profilo ha hashtag tipo #BLM e #Free-Palestine capisci di essere sulla strada giusta”. Dietro il furto di June non c’è solo la legittima ambizione di inseguire il proprio successo ma anche il desiderio di punire il successo altrui. La verità è  che June è sempre stata invidiosa della sua amica geniale. “Il mondo di Gwyn era parzialmente pubblico. Mentre il suo era pericolosamente, crescentemente privato” scrive Martin Amis a proposito della gelosia dello scrittore Richard Tull per il più famoso Gwyn Barry, nel suo capolavoro L’informazione. La persecuzione ai danni di June è feroce: account fantasma, troll, scambi di persona. Quanto durerà questo supplizio? Yellowface è una prodigiosa e beffarda messa in scena della comunicazione attraverso la lente distorta della Cancel culture. Un romanzo controcorrente sulla paranoia e sull’identità che mescola horror e noir. Una storia di donne senza la questione femminile. Una bellissima satira dei nostri tempi. 

Angelo Cennamo

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CONFESSIONI DI UN ARTISTA DI MERDA – Philip K. Dick

Scritto nel 1959 ma pubblicato solo nel 1975, è l’unico dei romanzi non fantascientifici di Dick uscito quando Dick era ancora vivo. Della narrativa realistica o mainstream di Philip K. Dick, scrittore originario di Chicago ma vissuto per molti anni a Berkeley, si parla poco, eppure libri come Confessioni di un artista di merda o come In questo piccolo mondo non sono meno interessanti di certe opere, per esempio, di Richard Yates, autore che proprio negli anni di Dick ha raccontato gli stessi conflitti familiari della middle class americana, e col medesimo insuccesso commerciale del suo collega californiano, tra l’altro.

Confessioni di un artista di merda non sarà un tipico romanzo distopico ma se per distopia volessimo intendere il disturbo dissociativo descritto più comunemente nei manuali di psichiatria e indagassimo le menti di tutti i personaggi che incontriamo nel libro, allora sì: potremmo definirlo un romanzo distopico come tutti gli altri. Jack Isidore è un demente con delle strane convinzioni: a un certo punto della storia si convincerà che il mondo finirà il 23 aprile del 1959. La sua inadeguatezza di fronte alla realtà spingono la sorella Fay e suo marito Charley Hume a tenerlo con loro nella bellissima casa di Drake’s Landing, nella campagna di San Francisco. Charley è un uomo rozzo, un sempliciotto, ma facoltoso. Fay è una donna colta, astuta, arrogante. Una manipolatrice. La vera protagonista del romanzo è Fay più che Jack: tutta la storia infatti ruota intorno alla perfidia con la quale la giovane moglie di Charley attrae a sé gli altri uomini e li addomestica ai propri bisogni. Una delle vittime, oltre lo stesso Charley, che andrà incontro al peggiore dei destini, sarà Nat, lo studente che abita nei paraggi con la moglie Gwen. I due vengono avvistati da Fay mentre passeggiano in bici. Come una bambina capricciosa, Mrs. Hume costringe Charley ad avvicinarli perché “vuole” conoscerli. Ma vuole conoscere entrambi o vuole conoscere Nat? La storia, raccontata a volte con la voce di Jack, altre volte con quella di Fay, altre volte in terza persona, si concentra sulle dinamiche delle due coppie. L’adulterio di Fay ricorda quello dell’eterna insoddisfatta April Wheeler, la protagonista di Revolutionary Road di Yates, romanzo uscito appena due anni dopo quello di Dick. A differenza di April però, Fay non soccombe di fronte alla propria isteria ma se ne serve per dominare gli altri. Uno dei temi della storia è la follia come condizione umana diffusa: tutti i personaggi di Dick, non solo Jack come può sembrare nei primi capitoli, ci sorprendono per la loro condotta borderline difficile da spiegare nei termini della razionalità. I gesti e le considerazioni fuori dall’ordinario di Charley, Fay e Nat (Gwen comparirà poco) finiscono per annullare la distanza con la mente fragile di Jack, che nelle ultime pagine scoprirà di non essere l’unico matto del romanzo. 

Angelo Cennamo

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LA CALCOLATRICE MECCANICA – William Burroughs

L’immagine ricorrente di William Burroughs è quella dell’artista maledetto, del vagabondo squattrinato e violento, del tossico. Tossico Burroughs lo fu per davvero ma tutto il resto è un cliché probabilmente ispirato al mondo della Beat Generation che lui stesso, prima di altri, contribuì a costruire con romanzi sconnessi dalla routine di quegli anni come Pasto nudo, per esempio. Erede di una ricca famiglia di imprenditori (il titolo scelto per questa raccolta è un tributo al nonno paterno e a un suo brevetto), Burroughs visse di rendita, e col gruzzoletto che il padre gli mise a disposizione potè laurearsi ad Harvard, perfezionare gli studi a Berkeley, Vienna e Città del Messico, viaggiare in lungo e in largo, farsi un guardaroba degno di un attore hollywoodiano. La calcolatrice meccanica è una raccolta di quarantatre saggi scritti su svariati argomenti: dai Sex Pistols a uno speciale farmaco antinfiammatorio, dal pensiero di Freud all’omosessualità. Le parti però più interessanti sono quelle dedicate alla letteratura, alle tecniche di scrittura, agli incontri con altri autori, reali o attraverso la lettura delle loro opere. Il libro uscì negli Stati Uniti nel 1985, Adelphi lo ha riportato in libreria in questi giorni con la traduzione di Andrew Tanzi. Dicevo della Beat Generation: il tempo trascorso con Jack Kerouac e Allen Ginsberg viene fuori con una serie di dettagli e di curiosità anche divertenti, come il ricordo della visita, proprio con Ginsberg e Fred Jordan, all’Inumano e “senza tempo” Samuel Beckett. L’incontro avvenne a Berlino “Beckett si mostrò educato ed eloquente. Era comunque chiaro, almeno per me, che non aveva il benché minimo interesse per nessuno di noi, né il minimo desiderio di rivederci. Ci avevano avvertiti di portarci da bere perché lui non ce ne avrebbe offerto. Così avevamo portato una bottiglia di whisky”. Beckett è solo uno dei tanti personaggi citati nel libro “Beckett viola tutte le regole e le convenzioni del romanziere… In Beckett non c’è suspense. Beckett è al di sopra della suspense… Beckett è forse lo scrittore più puro che abbia mai scritto. Non c’è altro che la scrittura stessa”.

Straordinarie le pagine dedicate a Ernest Hemingway “Lo stile può diventare una limitazione e un fardello. Hemingway era prigioniero del suo stile. Nessuno può parlare come i personaggi di Hemingway tranne i personaggi di Hemingway”. Il miglior testo di Hem, scrive Burroughs, è senza dubbio Le nevi del kilimangiaro, il racconto che anticipa e racconta il suo suicidio. Come Hemingway, Burroughs ha sfiorato la morte anche da vivo: l’uccisione della moglie la giustificò con la folle parodia di Guglielmo Tell inscenata insieme a lei dopo essersi scolato chissà quanto alcol. La morte è un tema cruciale e sondabile “Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma”. Pasto nudo, il suo romanzo più noto, viene evocato in diverse occasioni a proposito del cut-up, la tecnica di smontaggio e rimontaggio di testi altrui attraverso la quale Burroughs ha perpetuato il proprio mito “Joseph Conrad descrisse in modo superbo giungle, acqua, condizioni atmosferiche: perché non usarle pedissequamente come sfondo per un romanzo ambientato ai tropici?… Rubate tutto quello che vedete… Quando si ritagliano e si riordinano le parole su una pagina, ne emergono di nuove. E le parole cambiano significato”.

Come si diventa scrittori di successo? Si può davvero imparare a scrivere da qualcun altro? “Dopo aver tenuto vari corsi di scrittura creativa, sono arrivato a dubitare che la scrittura si possa insegnare. È come cercare di insegnare a qualcuno a sognare. Così ora insegno la lettura creativa”, spiegava Burroughs cinquant’anni prima che il dibattito sull’importanza della buona lettura prendesse piede in italia. Lo stesso concetto lo ribadisce Stephen King in On writing; esiste una sola regola per diventare scrittori: imparare a leggere bene e leggere molto. Leggete molto. Leggete i libri di William Burroughs. 

Angelo Cennamo

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VITA FRA I GIGANTI – Bill Roorbach

Nella lista dei grandi autori americani mai pubblicati in Italia, fino a qualche giorno fa, alla lettera R avreste trovato Bill Roorbach, scrittore originario del Maine, sulla settantina; nelle foto sui social lo riconoscete per il pizzetto bianco alla D’Artagnan e per i paesaggi di campagna, i cieli azzurri che fanno da sfondo alle sue frequenti gite all’aria aperta. Vita fra i giganti, il romanzo di punta di Roorbach, è arrivato da noi dodici anni dopo la sua prima uscita, con Mattioli 1885 e la traduzione di Nicola Manuppelli. È fondamentalmente una storia di segreti e di occasioni mancate. Il protagonista si chiama David Hockmeyer, detto Lizard (lucertola). David è alto due metri ed è un promettente giocatore di football. Ha una sorella bipolare, Kate, fidanzata con un professore con il doppio dei suoi anni; una madre ex campionessa di tennis e un padre arrestato dall’FBI non si sa per cosa. Siamo nei primi anni Sessanta: John Kennedy è passato a miglior vita e la rivoluzione sessuale sta per affacciarsi anche nei piccoli sobborghi del Connecticut come High Side, abitato dai Hockmeyer e da Sylphide, la ballerina più famosa del mondo, sposata con la nota rockstar Dabney Stryker-Stewart. Gli incroci pericolosi, altre volte pruriginosi, tra i Hockmeyer e i loro dirimpettai sono la parte più consistente della storia, che attraverso le figure di David e di Sylphide, il miglior personaggio del romanzo per la sua fascinosa ambiguità da troia angelica, ci riporta alle iniziaziazioni di certe opere di Updike o di Philip Roth. Uno dei temi del romanzo è il confronto tra il mito della forza e della competizione (David diventerà un discreto quarteback, sua sorella Kate seguirà invece le orme della madre nel circuito tennistico a Yale) e la moderazione, la tenerazza, l’equilibrio della danza. Ma anche l’incontro tra diverse sensibilità di vita. Due mondi che si intersecano nei passaggi più lussuriosi, nei vorrei ma non posso della circe Sylphide, e negli approcci goffi del marcantonio David con un’altra giovane ballerina, Emily. Il tempo del romanzo è fluido, ieri e oggi si alternano senza sosta anche negli stessi blocchi, ma la linea di demarcazione è tragica e netta: i genitori di David saranno ammazzati per una delle tante questioni irrisolte che accompagneranno il lettore fino alle ultime pagine. Nella seconda parte David lascerà il football per aprire un ristorante vegetariano (qui la trama perde il focus iniziale e rischia di sfilacciarsi in una direzione confusa), ma Emily e Sylphide, le giornate a High Side nella grande dimora delle star, il ricordo della danza e di quella leggerezza proibita, non lo abbandoneranno mai. Vita fra i giganti ha il sapore di quei classici della letteratura in cui l’eleganza dei gesti, l’arte e la sua sublimazione si scontrano con le più efferate vicende del denaro e del ricatto. Una storia d’amore e di delitti con molti enigmi da chiarire. Finalmente Roorbach.  

Angelo Cennamo

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LE PERIZIE – William Gaddis

Le perizie – The recognitions – il primo libro di William Gaddis, venne pubblicato negli Stati Uniti nel 1955, pochi mesi prima che John Barth esordisse con la sua Opera Galleggiante – The Floating Opera (il romanzo uscì nel 1956 ma Barth lo riscrisse undici anni dopo). Cosa c’entri Barth con Gaddis lo vedremo più avanti. Ad eccezione di Harold Bloom che lo inserì nel suo Canone, il romanzo ricevette dalla critica un’accoglienza tiepida almeno fino alla pubblicazione di JR, il secondo romanzo di Gaddis, che nel 1976 valse allo scrittore newyorchese il National Book Award. Occhio alle date: 1955 Le Perizie, 1956 L’Opera Galleggiante, 1966 L’Incanto del Lotto 49 di Thomas Pynchon, una trilogia ideale che nell’arco di un decennio ricodificherà la grammatica della letteratura americana e aprirà la strada ad autori come Donald Barthelme, Don DeLillo, David Foster Wallace, Roberto Bolaño, Rick Moody, William Vollmann… Le Perizie in Italia arrivò nel 1967 con Mondadori e la traduzione di Vincenzo Mantovani, ma neppure la spinta del cambiamento e l’imperversare delle nuove mode aiutarono la diffusione del romanzo, che in questi giorni (5 luglio) è tornato con Il Saggiatore dopo un lungo periodo di assenza – nessun altro libro di Gaddis è disponibile in italiano. Di cosa parliamo. Di un’opera monumentale in ogni senso, a cominciare dalla mole: oltre milleduecento pagine fittissime, con riferimenti storicofilosofici, letterari, date, citazioni, tesi e antitesi, conversazioni vertiginose nelle quali non sempre si capisce chi è che parla e a chi, alternate a digressioni fuori tema o a balbettii talvolta dai contenuti omofobi e razzisti – ma non c’è da scusarsi, amici de Il Saggiatore: oggi Le perizie sarebbe stato censurato o peggio aggiustato da scrupolosi editor Woke – e con una dimensione temporale ballerina, poco nitida (il crollo del tempo con la storia che va e viene in ogni in direzione è una peculiarità di quell’avanguardia). Non è un libro per tutti, ricordate l’incipit di Casa di Foglie di Mark Danielwski? Se non siete rodati al massimalismo più estremo, allenati alle dotte smarginature del postmoderno che verrà, e armati di santa pazienza, vi suggerisco di starne alla larga; il romanzo più difficile che ho letto volontariamente, disse Jonathan Franzen. Lo dico anch’io. I romanzi sperimentali sono come quegli abiti esagerati che sfilano sulle passerelle dell’alta moda: nessuno li comprerebbe ma tutto quello che indossiamo proviene da lì, è solo questione di tempo. Alcuni stralci de Le perizie sono ai limiti della comprensione, tanto che, come nel caso di altre opere impegnative e al di là della indubbia bravura di Mantovani, è lecito chiedersi fino a che punto un testo così ricco di variazioni sul tema, registri, immagini, figure retoriche e giochi di parole, possa essere riprodotto fedelmente in una lingua diversa da quella originale (è curioso che nel suo cognome Gaddis contenga Gadda, l’autore più difficile del Novecento italiano, le cui acrobazie lessicali ricordano quelle del più giovane collega d’oltreoceano). Chi avesse paura di navigare in acque troppo profonde può avvicinarvisi con un saggio propedeutico: Nobody Grew But the Business: On Life and Work of William Gaddis di Joseph Tabbi. Su internet circola inoltre una guida alla lettura molto dettagliata a cura di Steven Moore, che di Mr Difficult è tra i massimi esperti. Io però non ve la consiglio: i tutorial letterari sono scorciatoie inutili, perfino dannose, impongono visioni e impostazioni che andrebbero lasciate alla sensibilità e all’istinto di ciascuno. Meglio arrangiarsi da soli. E se orientarsi in questo dedalo di principali, coordinate, subordinate, incidentali, vi risulterà troppo complicato, non lasciatevi prendere dal panico: perdersi nei libri di Gaddis è un’esperienza interessante. Entrariamo allora nel racconto, vediamo di capire. Parte de Le perizie è ambientata nel Greenwich Village di New York, che nei primi anni Cinquanta è un posto brulicante di sognatori e di cialtroni, di scribacchini e artisti pazzi. Il protagonista, Wyatt Gwyon, è il figlio di un pastore protestante che alla chiesa e alla perfezione di Dio preferisce la verità delle opere d’arte. Wyatt imita i dipinti dei maestri fiamminghi che lo hanno preceduto e stringe un patto faustiano con il mercante d’arte e falsario Recktall Brown, forse il personaggio più riuscito del romanzo insieme a Otto Pivner, il commediografo che finge di avere un braccio rotto per sembrare un artista impegnato. Come il goffo protagonista di quel racconto di Borges che si adopera nell’impresa impossibile di scrivere il Don Chisciotte di Cervantes non essendo lui Cervantes, Wyatt si illude di poter riprodurre nelle sue contraffazioni perfino il soffio vitale, lo spirito delle opere imitate – l’intero romanzo è pervaso da una irriverente aura mistica (l’Agnus Dei diventa l’agente letteraria Agnes Deigh…), che lo trattiene sulla falsa pista della redenzione: il solo strumento di riscatto non è la fede ma il denaro. Wyatt mente agli altri e a sé stesso, Wyatt è la personificazione della menzogna, un bugiardo seriale, un disturbato che farfuglia monosillabi e che a un certo punto della storia non verrà neppure chiamato per nome dall’autore (pare che il personaggio sia stato ricalcato sulla figura del celebre fotografo Walker Evans). Nella prime pagine, con la giovane moglie Camilla lo vediamo partire per la Spagna a bordo della Purdue Victory. Durante la traversata la donna viene colpita da un attacco di appendicite e curata da un sedicente medico, Frank Sinisterra, che si scoprirà essere invece un profugo imbarcatosi con documenti da lui stesso falsificati. Colto, vertiginoso, scomposto – secondo canoni evidentemente introdotti dallo stesso Gaddis – ma non privo di momenti di leggerezza e di comicità, con esilaranti scambi di persona, disguidi, incastri, equivoci, a distanza di settanta anni Le perizie sprigiona una forza centripeta difficile da spiegare se non con l’uso virtuoso di una retorica che disorienta, non concede spazi di facile intuizione né riferimenti comodi per il lettore, che viene continuamente colto di sorpresa e trascinato nelle dinamiche delle numerose vicende. Come avrete capito, gli argomenti principali sono la falsificazione dell’arte, l’abuso dell’incapacità altrui di riconoscerne il vero valore, l’autoreferenzialità di un sistema di primedonne che premia i soliti amici degli amici. Temi attualissimi che ritroveremo anche in altri romanzi americani: pensate al fienile più fotografato d’America in Rumore bianco di Don DeLillo “Prima, sa, mi ha accennato all’idea di una fabbrica di romanzi, una specie di catena di montaggio di scrittori, ciascuno col suo piccolo incarico specifico. Produzione di massa, ha detto, e fatta su misura per il gusto del pubblico”. Nel dark web di Gaddis resiste l’idea di un’America che non avendo un proprio gusto né memoria, riproduce stili e modelli di altri. Il primo falsificatore di questa fauna di cialtroni è proprio Wyatt, i cui quadri devono essere necessariamente delle imitazioni perché gli è stato insegnato che “Il Signore è l’unico vero creatore, e solo i peccatori cercano di emularLo”. Quello della creazione è un concetto che Gaddis circumnaviga dall’inizio alla fine del libro sempre con quel tono finto mistico al quale accennavo prima. Tutto è falso, di più: il falso è meglio dell’originale “Le copie, invece, continuavano e raggiungevano la perfezione, quella perfezione alla quale può arrivare solo il falso, riproducendo ogni forma di inadeguatezza, ogni attentato alla Perfezione dell’originale”. Attraverso perizie accomodanti che spacciano delle patacche per opere d’arte “La critica è oggi l’arte più importante. Quella di cui abbiamo più bisogno” e a recensioni compiacenti che urlano al capolavoro, questo processo di contraffazione si riverbera in un cortocircuito di continue dissolvenze dal quale è impossibile emanciparsi. Uno scherzo infinito, direbbe Wallace parafrasando Amleto, attraverso il quale Gaddis mette in guardia il lettore da ogni forma di mistificazione, raggiro, compresa la religione. Tutte le religioni, non solo quella cristiana “Ma perché si convertono tutti alla Chiesa di Roma? Quando ci sono tante altre religioni così divinamente divertenti?”, sono il tentativo di falsificare delle mitologie preesistenti, e l’impossibilità di distinguere i riti pagani dai simboli e i precetti della fede alla quale assistiamo a un certo punto della storia, serve proprio a negare ogni verità storicizzata dalla Chiesa. È un romanzo sconfinato, Le perizie, senza trama ma denso di microstorie, mille e altre mille, come i personaggi, molti dei quali anonimi, che seguendo le traiettorie del demiurgo Gaddis danno vita a una stupefacente commedia umana. Col senno di poi, una gigantesca allegoria sull’Intelligenza Artificiale o sul marasma delle fake news che ci bombardano attraverso i social. Un libro sulla menzogna e l’impostura, dunque “Segua i libri degli altri, non cerchi di farsi venire un sacco di idee intelligenti”… chi lo dice sembra strizzare l’occhio al cut-up di William Burroughs (quattro anni dopo Le perizie Burroughs pubblicò Pasto nudo). Un delirio di verità sminuite e ribaltate “L’originalità è un artificio di cui si serve la gente priva di talento per fare colpo su altra gente priva di talento, e per difendersi dalla gente di talento…”. Un prodigio letterario paragonabile solo a certe opere di Joyce, per quanto Gaddis abbia sempre negato su di lui l’influenza dello scrittore irlandese (forse non l’ha mai letto) ma dichiarato di essersi ispirato a scrittori come Dostoevskij, o al Frazer de Il Ramo D’oro, o al Robert Graves de La Dea Bianca. Un magma di parole che stordisce, diverte, annoia, sfianca. Negli anni a venire, alla maniera di Wyatt Gwyon, in tanti hanno imitato le forme disordinate di Gaddis: cosa ne sarebbe stato di romanzi come V, Underworld, Il Velo Nero, Infinite Jest, 2666, se Mr Difficult non ci avesse stupito con le sue finzioni? Il ritorno de Le perizie nelle librerie italiane è l’evento letterario più importante del 2024. Grazie a Il Saggiatore per avercelo restituito, grazie ai lettori di Telegraph Avenue per averlo reclamato. 

Angelo Cennamo

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