CONVERSAZIONI AMERICANE. PHILIP ROTH / con John Domini

L’incontro con John Domini è al Vomero, nella zona collinare di Napoli, in un bar defilato, poco distante da via Luca Giordano. John è qui in Italia per promuovere il suo romanzo (Talking Heads 77) e per incontrare i parenti sparsi tra Napoli e il Cilento. Fa molto caldo. Ci accomodiamo a un tavolo vicino l’ingresso, rinfrescato, si fa per dire, dall’ombra di un albero di alto fusto. Sul tavolo ci sono i nostri caffè appena ordinati e una copia de Il teatro di Sabbath. Il nostro argomento di conversazione è Philip Roth. Racconto a John che una volta sul blog lanciai un sondaggio sul Grande Romanzo Americano. Selezionai una ventina di titoli: Moby Dick, Furore, RevolutionaryRoad, Le correzioni… Il romanzo più votato fu Pastorale Americana. Non ne fui sorpreso: in Italia Roth è uno degli scrittori americani più venduti; non c’è libreria che non sia fornita di almeno quattro cinque titoli di Roth, e tra questi quattro cinque c’è sempre Pastorale Americana. John, è un azzardo dire che Roth sia stato il più grande scrittore del suo tempo? 

Nessun azzardo, certo! L’opera di Philip Roth è monumentale, e con uno sguardo onesto e profondo verso l’animo umano. Ne abbiamo una considerazione quasi sacra, è un riferimento ineludibile per chiunque. Detto questo, non sono convinto che di lui si possa dire il “più grande.” Alla fine del primo quarto del XXI secolo, il panorama della letteratura americana ha preso altri riferimenti, perlopiù afro-americani. I figli di Toni Morrison, si può dire, hanno lanciato un nuovo Rinascimento. Un romanzo come The Heaven & Earth Grocery Store di James McBride può essere considerato un capolavoro alla pari di certi romanzi di Roth, come per esempio The Human Stain.     

Roth ha scritto una trentina di romanzi. Il libro che ho scelto per avviare la nostra conversazione non è Pastorale Americana, del quale parleremo sicuramente più avanti, ma Il teatro di Sabbath, pubblicato nel 1995, due anni prima di Pastorale. L’ho scelto perché lo considero il romanzo più rothiano di Roth, il romanzo in cui Eros e Thanatos (due topoi centrali della poetica di Roth) raggiungono i picchi più alti e si amalgano meglio che in altri testi. Sei d’accordo?

In una parola: sì. Come dici tu, la narrativa suggerisce una commistione di Eros e Thanatos ipnotizzante, perché tutte le avventure sessuali di Mickey Sabbath rivelano un legame forte con due vuoti enormi nella sua anima: il  fratello morto durante la Seconda Guerra Mondiale, e più recentemente la complice del suo adulterio e della sua lussuria: Drenka. Ma descrivere il romanzo in questo modo sarebbe una semplificazione eccessiva; non è per niente una tragedia semplice, basata su schemi elementari. Al contrario, è una comedia che lascia lividi, piena di sorprese ma che non ha nulla di pornografico né di morale. I movimenti nel buio, in questo Teatro, finiscono in un vero dramma, con grandi rischi. Ne viene fuori un degradato e disordinato Captain America, avvolto nella bandiera Americana. 

Mickey Sabbath, l’artista di strada costretto da una malattia alle dita a cessare l’attività, è un povero disperato, ma non vive dando le spalle alla morte come farebbero le persone normali. Non si può dire che ispiri simpatia nei lettori, Mickey è un uomo inassolvibile, volgare, lussurioso all’eccesso. Solo Roth sembra provare per i suoi fallimenti, per la sua vita ripugnante una certa compassione: “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria”. Roth ha ragione: Mickey non va condannato perché il primo a condannarsi è lui stesso. Delle macerie che si è lasciato alle spalle Mickey è consapevole. Nell’ultima scena del romanzo lo vediamo nel cimitero dove riposano i familiari che prova goffamente a organizzare la sua sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994”. 

Vero. Lui si confronta con la morte dappertutto: nel New Jersey (dove sono sepolto i suoi genitori) e anche in Massachusetts (dove la sua vera compagna Drenka dorme sotto la terra). Nonostante ciò, Mickey Sabbath non ha un piede nella tomba; è sempre in giro, tra un ricovero e l’altro, una donna e l’altra, fugge anche dalla polizia. Un po’ come una delle sue marionette. Mentre sua moglie cade nella dipendenza dall’alcol e scompare in una terapia senza fine, Mickey non smette di abbracciare la vita, magari all’Inferno: “Meglio che rimanere qui. Tutti quelli che odia stanno qui.” 

La lunga carriera di Roth, iniziata nel 1959 con Goodbye, Columbus e conclusasi nel 2010 con Nemesi, la si può dividere in due stagioni: quella “del figlio”, la prima; quella “del padre”, la seconda. Nella stagione “del figlio” Roth interpreta il ruolo forse a lui più congeniale, quello del ribelle. Il giovane Roth si scontra con l’educazione familiare, con l’ipocrisia della società borghese, perfino con la religione ebraica. L’ebraismo di Roth non è mai sereno né identitario, critico piuttosto, spesso conflittuale nella finzione: la blasfemia di Carnovsky manderà su tutte le furie la comunità ebraica di Newark e farà morire di crepacuore il padre di Zuckerman. John, partendo proprio dalla stagione “del figlio” mi vengono in mente soprattutto titoli come Goodbye, Columbus (l’esordio), Quando lei era buona (l’unico romanzo in cui Roth dà voce a una protagonista femminile, Lucy Nelson) e Lamento di Portnoy, il romanzo della consacrazione. È il 1969, siamo in piena rivoluzione sessuale, e Roth delega la sua protesta a un giovanotto stralunato che ci sembra di avere già incontrato. Alex Portnoy è Holden Caulfied adulto. Non trovi, John? 

I libri con cui Roth ha iniziato la sua carriera mi interessano meno, anche se sono buoni libri, certo. Il mio primo ricordo è legato a Portnoy, un bella ventata di aria fresca sulla gioventù americana. Per tre quarti un Holden Caulfield adulto, sì, o almeno più cinico, più smaliziato. Poi ho apprezzato altri testi; il racconto degli ebrei americani nell’esercito, “Defender of the Faith,” è stato ogetto di critiche, per me è solo della buona narrativa sul bene e il male. Ricordo che The Great American Novel mi ha fatto ridere tanto; forse è il suo romanzo più divertente. Comunque, al di là di tutto, la cosa importante è lo spirito, in queste storie c’è un’energia creativa che esplode in una eruzione di dettagli. Con Roth anche le cose banali diventano illuminanti. 

Nella seconda parte della carriera Roth dà il meglio di sé. Patrimonio (forse l’opera più autobiografica) è un testo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Lui che nella vita non ha avuto figli, diventa padre nella letteratura. Arrivano i libri migliori: Il teatro di Sabbath, Pastorale Americana, La macchia umana. Concentriamoci però su Pastorale. Nell’anno in cui Roth lo pubblica, negli Stati Uniti escono altri due capolavori: Underworld di DeLillo e Mason & Dixon di Pynchon. Pochi mesi prima, nel 1996, FightClub di Chuck Palahniuk, L’atlante di William Vollmann, Infinite Jest di David Foster Wallace. Nel 1998 Pastorale Americana si aggiudica il Pulitzer. A Roth a questo punto manca solo il Nobel. Lo meriterebbe ma a scombinare i piani è Leaving a Doll’s House, il memoir di Claire Bloom che spara a zero sull’ex marito facendo a pezzi la sua immagine di uomo e di scrittore. Roth misogino e sessuomane? La stessa malevolenza toccò anche John Updike (“un pene con un grosso vocabolario” disse di lui David Foster Wallace). Perché Pastorale Americana è il Grande Romanzo Americano è presto detto: contiene tutti gli ingredienti del GRA. Sono tre o quattro, non di più. 1) Il sogno. Seymour Levov, il protagonista del romanzo, eredita dal padre una fabbrichetta di guanti di pelle e la trasforma in una grossa azienda. Seymour può dirsi un uomo di successo. Seymour ha svoltato, ha realizzato l’american dream. 2) Il mito della forza e della bellezza. Seymour è alto, biondo, con gli occhi azzurri. Lo chiamano lo svedese per via di quell’aspetto nordico. Non solo. Seymour ha sposato una donna bellissima, aspirante miss America, già miss New Jersey. Da studente, Saymour eccelle in tutte le discipline sportive, i suoi primati fanno esultare il quartiere ebraico dove abita e dimenticare perfino la guerra. 3) Il conflitto generazionale. Nella ricostruzione immaginaria di Zukerman, Merry, la prima figlia di Seymour, è una ragazza introversa e scontrosa per via di una fastidiosa balbuzie. Il disagio di Merry si trasforma in frustrazione poi in rabbia, infine esploderà nel gesto clamoroso che cambierà direzione alla storia. 

Proprio così, Angelo, i conflitti di Pastorale sono una foto perfetta di una certa società americana. I conflitti dei Levov sono intimamente legati ai grandi movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta e Settanta (femminismo, pacifismo, le grandi questioni degli afro-americani eccetera). In altre parole, il titolo è molto ironico: questa pezzo d’arte non è per niente “pastorale.” Aggiungerei che Pastorale è uno dei romanzi più seri e realistici (classici) di Roth. Lo sviluppo del dramma non sfreccia sempre agli estremi, come in Sabbath. Impossible non percepire la differenza tra Pastorale e Mason & Dixon di Pynchon. Per quanto riguarda Underworld (anche questo è un libro tremendo, senza dubbio), DeLillo gioca tanto con i tempi, con le epoche, nella sua narrativa, dal 1951 al futuro. 

Ai tre ingredienti che prima ho indicato in Pastorale Americana, andrebbe aggiunto un quarto. È un ingrediente presente in ogni libro di Roth. Il suo tocco magico. Mi spiego meglio. Per tutta la vita Roth non ha fatto altro che raccontare se stesso, simulando e dissimulando la verità. Mascherandosi. Come tutti i grandi romanzieri, Roth ha tradotto in inchiostro la propria esistenza. Scrivi di quello che sai. Il gioco di specchi tra verità e finzione, che raggiunge il suo culmine ne IFatti, in Pastorale non tocca il fondo ma il doppiofondo: la storia del romanzo è sì un’invenzione di Roth ma dentro la storia di Roth c’è quella di Zuckerman. Pastorale è una gigantesca allegoria, i Levov sono come l’America, vuole dirci l’autore, che mostra la parte migliore di sé e nasconde la polvere sotto il tappeto. “L’America non è mai stata innocente” scrive Ellroy nell’incipit di American Tabloid. Neppure i Levov lo sono. Non c’è lieto fine né consolazione nelle ultime battute, i Levovsprofondano nell’abisso, i lettori assistono inermi, attoniti, quasi intimoriti. Philip Roth ci getta nel caos. Non è a questo che serve la letteratura, John?

Assolutamente sì, lo dicevo prima. 

Voglio concludere ritornando sull’onda moralistica che si è abbattuta a un certo punto sulla vita e la carriera di Philip Roth, macchiando (secondo alcuni) la sua immagine di scrittore. Roth è stato uno dei primi bersagli della Woke Culture: ripulitura anche di vecchi testi da termini che possono risultare offensivi e razzisti; censura di qualunque forma di appropriazione culturale; valorizzazione pro-quota (e quindi al di là dei più equi parametri metitocratici) delle donne. John, l’America è ancora un paese libero? 

In pochi parole, sì: gli Stati Uniti sono ancora un paese libero — nello stesso senso in cui anche l’Italia è libera. Cioè, ci sono sempre pressioni di vari tipi, contro la libertà di stampa, per esempio (ho scritto di questo nel mio Talking Heads: 77), e anche nell’arte in generale. Roth è stato uno degli autori più attaccati, senza dubbio, come hai spiegato tu. Nonostante ciò, conserva una grossa reputazione. Non dimentichiamoci che nella sua carriera ha ricevuto premi e riconoscimenti prestigiosi. Ancora oggi, tu, io e tanti altri, continuiamo a leggerlo e ad esplorare la sua opera con attenzione. Insomma, esiste ancora la meritocrazia, anche se i tempi e le sensibilità cambiano. Pensa per esempio al caso di Kamala Harris, che ha vinto un’elezione dopo l’altra, misurandosi con un elettorato diversificato. Ma bando alla politica, concentriamoci sulla letteratura. Ho già menzionato Toni Morrison, per esempio; il suo successo non è fondato sul colore della pelle né sull’appartenenza a un certo mood, ma sull’enorme talento. Piu recentemente potremmo citare il caso di Percival Everett e del suo nuovo romanzo James, di cui hai scritto su Telegraph Avenue. Come il buon James, lo schiavo Jim, lotta per la sua libertà, i bei romanzi di Roth ci ispirano e ci aiutano a combattere contro le avversità. È solo una mia suggestione, un sogno? D’accordo, ma è un sogno con cui posso ancora vivere e fare del mio meglio. 

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DMV – Bentley Little

Di Bentley Little, scrittore sessantaquattrenne dell’Arizona, si sa poco. È una persona schiva, non ama apparire in tv o sui social, raramente partecipa a reading, rilascia interviste. Se provate a digitare il suo nome sul pc vi appariranno al massimo due o tre foto, non proprio recenti. L’assenza mediatica di Little richiama quella di altri suoi colleghi più celebri, da Salinger a Pynchon. In tempi di sovraesposizione e di oscuramento dell’opera in favore del corpo del suo autore “il romanzo sei tu”, sottrarsi alle luci della ribalta è una scelta vincente: libera il testo da inutili sovrastrutture che divergono o distraggono dall’essenziale. Spesso il nome di Little viene accostato a quello di Stephen King: fateci caso, sulla quarta di copertina dei suoi libri non manca mai una frase, un apprezzamento del re del brivido. Ma il paragone, a mio avviso, regge poco. Dietro la schiena di King qualcuno molti anni fa deve avere incollato l’etichetta di maestro dell’Horror. In verità King è uno scrittore realista che vira al metafisico, e se certe scene di Shining o di It fanno effettivamente saltare dalla sedia, non è da questi dettagli che si giudica un romanziere. Al contrario di King, Little è al 100% un autore Horror, genere che il nostro invisible novelist declina nella forma più inquietante dell’aziendalismo o del corporativismo. Sì, perché nelle storie di Little spesso il mostro non ha sembianze umane o aliene, il mostro è l’apparato, metafora di un potere più vasto e invasivo che si insinua nelle vite dei protagonisti, le sorveglia e le manipola secondo uno schema orwelliano (Orwell è un riferimento costante nell’opera di Little), in Italia diremmo fantozziano (nella filmografia di Villaggio il canovaccio è lo stesso ma in chiave tragicomica). In The consultant l’apparato è la CompWare, società californiana di software che evoca il colosso Google. In The resort, un accogliente polo turistico che poco alla volta si trasforma in un girone dantesco. Nel più recente DMV, in uscita in Italia il 6 settembre sempre con l’editore Vallecchi e la traduzione di Ariase Barretta, la fabbrica della paura è la Motorizzazione Civile, simbolo di una burocrazia asfissiante, illogica, liberticida. 

Todd Klein è uno scrittore che ha conosciuto tempi migliori; vende ancora molti libri ma le recensioni dei lettori sono pessime. Il suo Ufficio stampa Woke gli suggerisce di scusarsi con la comunità asiatica perché nel nuovo romanzo fa parlare un cinese in un americano stentato. I “colletti bianchi delle nuove sensibilità” (citaz. di Luca Ricci) la chiamano “appropriazione culturale”. Dovendo sostenere un nuovo esame di teoria per rinnovare la patente di guida, Todd si ritrova inspiegabilmente invischiato in una vicenda assurda, kafkiana. Pensereste che il suo esame si risolva in una semplice formalità, e invece come spesso accade in queste storie, le cose più normali, i riti ordinari nascondono insidie imprevedibili, voragini, baratri di malvagità. Nei romanzi di Little il quotidiano finisce sempre per fare i conti con un’autorità superiore, una specie di regime nazista sotto mentite spoglie: il numero della nuova patente di Todd è lo stesso che aveva tatuato sul braccio la sua bisnonna ad Auschwitz. Il campo di concentramento. È uno dei luoghi di DMV. Jorge, il cognato disoccupato di Todd, viene reclutato da due energumeni qualificatisi come funzionari della Motorizzazione. Prima di assumerlo lo sottopongono a un tirocinio durissimo dentro un lager che non ammette contatti con l’esterno. Jorge, come Todd e come i giovani Danny e Zal, finirà nel peggiore incubo della sua vita, in un labirinto di atrocità e di adempimenti beffardi che aggiungono perfino tratti di ilarità al racconto. In ogni storia di Little la dimensione dell’assurdo si configura come un compartimento stagno che non sfiora la realtà ma è dentro di essa. Eppure non c’è polizia o tribunale che facciano irruzione in quelle vite per ristabilire ordine e legalità, misura e giustizia: l’assurdo si compie oltre ogni limite, oltre ogni umana comprensione. DMV è un romanzo sull’eterna lotta tra il bene e il male, e sul pericolo che la nostre conquiste, le nostre libertà, vengano di punto in bianco minacciate da qualcuno. Un romanzo lungo (539 pagine) ma scorrevole, il cui punto di forza è essenzialmente la storia: Little è un abile inventore e costruttore di trame, in questo sì, molto simile a Stephen King.

Angelo Cennamo

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CONVERSAZIONI AMERICANE. JOHN FANTE / con Luca Ricci

L’8 maggio del 1983, quarantadue anni fa circa, ci lasciava John Fante. Era nato a Denver, nel Colorado, l’8 aprile del 1909, da uno scalpellino abruzzese e da una casalinga dell’Illinois, anche lei di chiare origini italiane (i suoi genitori si erano trasferiti a Chicago partendo da un paesino della Basilicata). Chi volesse conoscere la vita di Fante può leggere i suoi libri, hanno tutti una forte impronta autobiografica, oppure il ricco epistolario raccolto nel volume Lettere 1932 – 1981, edito da Einaudi, sulla cui cover però campeggia per errore la foto di un altro scrittore: l’inglese Stephen Spender. Sono a Cinecittà, in compagnia di Luca Ricci, fuori a un teatro di posa dove si registra un noto show televisivo che va in onda non so quando, con… vabbè. Parliamo di Manganelli per quanto l’argomento della nostra conversazione dovrebbe essere un altro. Ma perché ci siamo visti qui, Luca? E che ne so, me lo hai detto tu di venire. Sì, ma avevo detto zona Cinecittà, non dentro Cinecittà. Beh, per il tema della conversazione a me questo posto sembra perfetto. Luca ha tra le mani una vecchia copia de La confraternita dell’uva, uno dei pochi romanzi che John Fante si è goduto da vivo. Francis Ford Coppola avrebbe voluto trarne un film poi il progetto saltò. È il mio libro preferito di Fante, dico, una delle più belle storie mai scritte sul rapporto padre figlio. Non trovi?

In Fante è interessante il rapporto tra biografia e finzione. Nonostante tutta la sua opera parli della sua famiglia, nessuno ha mai messo in dubbio che si tratti di letteratura. Nessuno ha mai minimamente pensato a una sorta di autofiction ante litteram. Motivo? Fante ricorre all’espediente degli alter ego, non solo per sé stesso ma per la pressoché totalità dei componenti della sua famiglia. Un conto è romanzare sé stessi, tutt’altra cosa è disporre di un universo romanzesco speculare a quello reale. Alter ego: persona che rappresenta un’altra. Già nella definizione della parola c’entra l’arte. Così ne La confraternita dell’uva abbiamo la figura di questo muratore in pensione che si chiama Nick Molise che è il padre di Fante pur non essendolo. Qui si annida la benedetta adulterazione della letteratura nei confronti della vita. Lo scarto che salva Fante dall’essere soltanto il mesto cantore degli immigrati italiani in America negli anni trenta, dell’epopea dei dago red (i bevitori di vino scadente, gli anti wasp). 

Effettivamente Cinecittà è la location più adatta per parlare di Fante: il nostro amico si era guadagnato da vivere scrivendo per il cinema. Senza gli ingaggi delle case di produzione Fante non avrebbe avuto la giusta serenità (comodità) per dedicarsi alla narrativa. Quando partì per Los Angeles con pochi spiccioli in tasca e una valigia di cartone legata con lo spago, negli studios era in atto la rivoluzione del sonoro: le major reclutavano scrittori, soggettisti, sceneggiatori… la paga era buona e consentiva ai nuovi arrivati di coltivare senza affanni anche altri interessi. A Scott Fitzgerald toccò la stessa sorte ma lui seguì il procedimento inverso: cercò di risollevarsi dai debiti e dalla crisi di ispirazione riciclandosi come sceneggiatore. Gli andò malissimo. Una volta Joyce, la moglie di Fante, disse che suo marito era sprecato per il cinema, avrebbe dovuto fare solo il romanziere. Ti hanno mai chiesto di scrivere per il cinema o per la tv? 

Ne I primaverili, il quarto romanzo del ciclo sulle stagioni, metto in scena una madre in fissa sul riadattamento delle opere del figlio scrittore (e io narrante del libro). Credo che a tutt’oggi sia stato il mio modo per esorcizzare la questione. Il mondo del cinema è impenetrabile, gli sceneggiatori sono una casta chiusa tipo i notai. Ho ricevuto una opzione per Gli autunnali e ho avuto qualche interessamento da parte della filiera dell’audiovisivo ma tutto è immerso in questa atmosfera alla Barton Fink, il lungometraggio capolavoro molto fantiano dei fratelli Coen. 

Il nome di Fante spesso viene accostato a quello Bukowski. Pare che il giovane Bukowski un giorno avesse trovato in una biblioteca pubblica – le uniche che poteva frequentare non avendo allora il becco di un quattrino – Ask The Dust (Chiedi alla polvere), e che si fosse riconosciuto nel giovane spiantato Arturo Bandini. Da scrittore affermato, alla fine degli anni ’70, Bukowski riuscì a conoscere e diventare amico di Fante al punto da spingere il proprio editore a ripubblicare alcune sue opere ormai dimenticate. Fante era prossimo alla morte, cieco e senza gambe per via di una grave forma di diabete. L’intercessione, chiamiamola così, di Bukowski fu essenziale per la riscoperta dell’anziano collega ma non decisiva, visto che negli Usa, subito dopo la sua morte, Fante nessuno se lo ricordava più. La simbiosi tra lui e Bukowski è una storia dentro le storie. C’è tanto da scavare, da imparare anche da quella comune visione della vita.

La storia della letteratura è costellata di queste corrispondenze miracolose, forse medianiche. È una storia anche di reincarnazioni. Ho sempre pensato che Henry Chinaski sia Arturo Bandini invecchiato. Gli alter ego più famosi di Bukowski e Fante sono lo stesso personaggio. Sono entrambi scrittori in attesa della consacrazione, umanamente vitali e pieni di difetti e impegnati in lavoretti umilianti, emarginati dalla società. Ci sono dei singoli passaggi che Bukowski sembra letteralmente avere ricopiato da Fante – nelle lettere che le riviste inviano a Bandini –  in quel che si potrebbe definire tranquillamente un furto onesto. 

Prima parlavamo del padre di Fante, Nick. È una figura ricorrente in molte storie di Fante. Direi uno dei personaggi migliori. A volte viene indicato come Nick Molise, in altre è Svevo Bandini. In Aspetta primavera, Bandini, Nick è il protagonista assoluto del romanzo: tutto ruota intorno al suo presunto adulterio, alle lusinghe inaspettate della vedova danarosa che lo circuisce, al rispetto per la famiglia, al duro lavoro, ai sacrifici di una vita. È una storia profondamente italiana. Una volta scrissi che Aspetta primavera, Bandini è uno dei più bei romanzi italiani del ‘900. 

Non dobbiamo dimenticarci che, per quanto lo ritenesse un lavoro negletto, Fante era o provò a essere uno sceneggiatore di Hollywood, oltre che un italo americano. Il suo registro è perennemente in bilico tra pianto e riso, una prerogativa da cui mosse la commedia all’italiana. Bisogna ricordare il libro di racconti che si mise alle spalle un certo neo realismo molto plumbeo e inaugurò questo doppio registro poi saccheggiato dal cinema: I racconti romani di Alberto Moravia del 1957. 

Il tema principale della narrativa di Fante è l’ambizione di scrivere. Il giovanissimo Arturo Bandini parte per Los Angeles sognando di diventare uno scrittore di successo. Nella tua quadrilogia sulle stagioni lo scrittore senza nome è perennemente in crisi di ispirazione e deve fare i conti con un’editoria stagnante, moribonda, che si barcamena tra romance e gialli da ombrellone. Il sogno di Bandini si smarrisce nel tempo di Gittani e di Lello Annibali. 

John Fante è un autore che ho letto e amato tantissimo a vent’anni. Se sei giovane e cerchi di essere uno scrittore non c’è lettura più avvincente, è una goduria a ogni pagina. In occasione di questa nostra conversazione mi ero ripromesso di rileggere la saga di Bandini ma poi non l’ho fatto, volevo venire impreparato, o meglio con l’impressione che quei libri mi avevano lasciato. Non ricordo più che fine faccia Arturo Bandini alla fine. Per me sarà sempre quello che lotta contra tutti per riuscire ad avverare il suo sogno di scrittura. E credo che in questo singolo tratto sia racchiusa tutta la potenza, tutta la memorabilità di John Fante. Uno scrittore deve fare benissimo anche una cosa soltanto. Certo poi le cose sono più complicate di così. Già Bukowski-Chinaski ha una visione più indolente e pessimistica. Nella mia quadrilogia delle stagioni non poteva andare meglio: è nata la rete, la letteratura non va più letta, va fotografata. 

Negli anni in cui Fante ha iniziato a scrivere in Europa si consumava la tragedia del nazifascismo con la deportazione e lo sterminio di migliaia di ebrei. Nei libri di Fante non c’è traccia di questi avvenimenti. Come Philip Roth, Fante si è concentrato su stesso, ha tradotto in inchiostro la propria esistenza, le vicende dei familiari, perfino del suo cane stupido. 

Fante ha parlato di altro, ci sono molti appigli sociologici nei suoi libri, in filigrana, ma fortunatamente nessuna forma di sociologia. Gli scrittori si fermano sempre un attimo prima oppure un attimo dopo, ma non possono scrivere in maniera diretta sulla storia. Glielo impedisce la letteratura, che è sul pezzo proprio perché non è sul pezzo. Dicono storie universali, ma si potrebbe anche chiamarle storie inattuali. L’inattualità è un principio letterario, e non significa essere vecchi o non capire il proprio tempo, tutto il contrario. 

Fante lo si può includere nella vasta categoria degli scrittori minimalisti e realisti che proprio in quegli anni cominciavano a venire fuori. Fante è quasi coevo di Hemingway, li divide un decennio. 

L’Hemingway di “Festa mobile” non era forse un Arturo Bandini al contrario, un giovane americano espatriato a Parigi? Certo non proprio un wop, ma comunque fuori dalla sua nazione e dalla sua cerchia affettiva, vivendo di espedienti per realizzare il sogno della scrittura, in attesa di un parere favorevole da parte di Gertrude Stein. La potenza di Fante sta in questo: puoi trovare Arturo Bandini nelle aspirazioni di ogni giovane scrittore. 

Tu nasci come autore di racconti. Ultimata la quadrilogia delle stagioni sei tornato quest’anno alla forma breve con Gotico rosa. Come giudichi il Fante scrittore di short stories?

Lo invidio perché all’epoca in cui Fante scriveva i primi racconti le riviste lo pagavano fino a 175 dollari. Nei suoi racconti torna sempre la sua famiglia con alter ego differenti. C’è il padre, artista del mattone e gran donnaiolo, la madre cattolica e castrante e le sorelle iper critiche nei confronti di chi ha velleità letterarie. La scrittura di Fante è sempre quella, scabra e scattante, ma i suoi racconti mi sono sempre sembrati bozzetti preparatori ai romanzi. Insomma dietro ci vedo sempre Bandini, tutto mi porta a Bandini. Un racconto invece dovrebbe bastare a se stesso. 

L’ultima parola la lasciamo al cinico Gittani. Fosse vissuto settant’anni prima, di fronte a tutto questo sbattersi di Bandini per fare lo scrittore, gli avrebbe detto: ma lascia perdere, tanto ti leggeranno quando sarai già morto. 

Temo gli avrebbe detto di peggio. “Bandini, per non fallire evita di iniziare”.

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UOMINI DI POCA FEDE – Nickolas Butler

Lyle Hovde e sua moglie Peg che la domenica indossano il vestito buono e risalgono in auto le colline dove si erge la chiesa di Sant’Olaf. È una delle tante immagini che ti restano dentro di “Little Faith” (in Italia “Uomini di poca fede” con Marsilio editore e la traduzione di Fabio Cremonesi) di Nickolas Butler, scrittore che del Midwest ne ha fatto un vero e proprio tratto identitario (puoi togliere Butler dal Wisconsin ma non puoi togliere il Wisconsin da Butler, un po’ come Chris Offutt col Kentucky). E pensare che tempo fa proprio con Butler ebbi un piccolo screzio per via di una cosa che scrissi forse con troppa leggerezza, e cioè che dava l’impressione di essere uno che gioca a fare lo scrittore di provincia: camicia di flanella, Iowa writers’ workshop, pick-up scassati, campi di mais sui social, minimalismo ruvido, eccetera. Ehi, Angelo, rispose piccato, io sono del Wisconsin al 100%! Vabbè, acqua passata. Ma torniamo al libro. Lyle e Peg Hovde hanno una figlia adottiva (Shiloh) appena tornata a vivere con loro dopo un lungo periodo di assenza e di ribellione, e un nipotino (Isaac) che la madre considera una specie di divinità: Shiloh è convinta che il piccolo abbia dei poteri sovrannaturali, che sia capace di guarire i malati. Lyle, personaggio chiave del romanzo (pare ispirato dal suocero di Butler, Jim) è preoccupato per le sorti del nipote e fa il possibile per sottrarlo alle assurde credenze di quella cerchia di fanatici che gli ruota intorno. Siamo nella parte decisiva del racconto: è qui che la storia decolla definitivamente con una serie di scene di grande impatto. Come il precedente “Shotgun Lovesongs” – che romanzone anche quello – “Little Faith” è uno spaccato preciso e vivido di un’America rurale (non dirò “America trumpiana”, nel Wisconsin Trump vinse per una manciata di voti), per certi versi ferma alla prima metà dello scorso secolo, fatta di piccole comunità e di fattorie, con i suoi ritmi lenti, un forte senso della famiglia e dell’amicizia, la fede comune ma anche la più integralista di certe chiese che sfidano qualunque forma di emancipazione o progresso, perfino la legge. Una vicenda colma di umanità e di una religiosità ancestrale, quasi demoniaca, che sconfina nella superstizione e nell’intolleranza, a metà strada tra “Benedizione” di Kent Haruf e “Gilead” di Marilynne Robinson, autori dalle radici antiche, vicini a Butler e alla sua vocazione di uomo e romanziere autenticamente del Midwest. 

Angelo Cennamo

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IN QUESTO PICCOLO MONDO – Philip K. Dick

Roger Lindahl e Virginia Watson, marito e moglie come tanti con alti e bassi, un figlio di sette anni che lei (Virginia) pretende di iscrivere in una scuola costosissima di Oja, cittadina a due ore di macchina da Los Angeles, e il negozio di televisori di lui (Roger): contenuto, poco in vista, ma ben avviato. È il primo frame di In questo piccolo mondo, romanzo scritto nel 1957 e pubblicato quasi trent’anni dopo, quando il suo autore, Philip Dick, era già passato a miglior vita. Per chi non avesse ancora fatto esperienza del Dick realista e più intimista, siamo in zona Richard Yates, in quella dimensione amara e sinistra del sobborgo dove covano sogni e dissapori familiari della middle class americana uscita ammaccata dalla seconda guerra mondiale. Come in Confessioni di un artista di merda, altro meraviglioso romanzo mainstream dello scrittore di Chicago, anche in questo caso il tema dominante è l’adulterio. L’istituto dove viene iscritto Gregg è lo stesso dove studiano i figli di Chic e Liz Bonner, i vicini di casa di Roger e Virginia che di lì a poco mineranno la loro già traballante unione matrimoniale. Chic è un uomo d’affari invadente che decide (da solo) di entrare in società con Roger: si informa su costi e ricavi, fa sopralluoghi nel suo negozio di elettrodomestici, progetta improbabili restyling dei quali dice di volersi accollare le spese. Liz è una donna svampita e sensuale che esce di casa senza indossare la biancheria intima, specie quando sa di incontrare Roger, col quale divide i viaggi di andata e di ritorno per accompagnare i figli a Oja, e una relazione clandestina folle, bruciante, fatta di soste in motel, sotterfugi, ripicche. Nel piccolo mondo di Dick si muovono pochi personaggi ma a primeggiare su tutto e tutti sono le donne. Da un lato il solido pragmatismo di Virginia, il cui amore per Roger è più forte dei condizionamenti e i moniti di Marion, la madre di lei che in quell’inconcludente del genero non ha mai creduto; dall’altro la romantica sciatteria di Liz, la figura chiave della storia, la circe intorno ai cui capricci e slanci emotivi ruotano tutte le aspettative del lettore. Siate indulgenti con Roger: non è il ragazzo rozzo e incapace dell’Arkansas che Marion rimprovera a Virginia di aver sposato; fa del suo meglio, vuole bene a Gregg e gestisce con successo quel negozietto costatogli tanta fatica e ostinazione. La sua unica colpa è aver ceduto al richiamo di Liz, ma quanti al suo posto non sarebbero inciampati nei subdoli tentativi di seduzione di questa specie di Marilyn? Il realismo di Philip K. Dick è uno scrigno di capolavori semisconosciuti che meritano migliori ribalte. Senza troppa enfasi Mondadori li ha riportati in libreria con una nuova veste grafica (la traduzione di In questo piccolo mondo è di Simona Fefè) nella collana degli Oscar. Prima ho citato Richard Yates, altro gigante sottostimato della narrativa americana (in Italia lo pubblica minimum fax); è il riferimento più vicino al Dick fuori dal cosmo e dalla distopia, forse il Dick migliore.    

Angelo Cennamo

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CONVERSAZIONI AMERICANE. CORMAC McCARTHY/ con Sandro Bonvissuto

Seduti in una trattoria dietro il Pantheon alla vigilia di Ferragosto, io e Sandro Bonvissuto sembriamo Enzo e Sergio, i protagonisti di Un sacco bello di Verdone in procinto di partire all’avventura per l’Est Europa con la spider decapottabile e le calze di nylon nel cruscotto. Sono le dieci di sera, la sala è mezza vuota. Alle nostre spalle una coppia di francesi sta litigando per una questione di eredità, ma del mio francese mi fido poco. Per strada ci saranno ancora trenta gradi, dentro però si sta freschi. Sul tavolo, spartano e con una tovaglia rosso pompeiano, tra la Falanghina e un piatto di bruschette, fa la sua figura una copia di Suttree di Cormac McCarthy. È il nostro argomento di conversazione. Da qualche anno Sandro è ostaggio della sua capigliatura rasta; Nun me li posso taglià, dice, me ce vorrebbe na fiamma ossidrica. Sulla mia polo bianca mi accorgo di avere una macchia di sugo a forma di sigaro. Fingo di non farci caso ma la macchia si vede benissimo anche con le luci soffuse. Suttree intanto è lì, al centro del tavolo, che ci fissa.

Su una cosa io e Sandro siamo d’accordo: il capolavoro di McCarthy non è Meridiano di sangue. “Se non hai mai letto Cormac McCarthy, della letteratura non hai capito niente”, disse una volta David Foster Wallace a un suo amico regista, suggerendogli di prendere spunto proprio da Suttree per il suo nuovo film. La storia di Cornelius Suttree, l’uomo che fugge dagli affetti più cari per rifugiarsi in una baracca su un fiume e sopravvivere pescando pesci gatto da rivendere al mercato, è un romanzo senza trama e senza un vero finale. Un lungo flusso di coscienza o diario che in alcuni passaggi lo fa somigliare all’Ulisse di Joyce, in altri alla Divina Commedia. L’habitat di Cornelius è un perimetro di ladri, neri, ubriaconi, puttane. Una fauna di derelitti e di balordi con vissuti di galera e di grande sofferenza che l’antieroe del romanzo incontra navigando con la sua barca e nei bar sgangherati di una landa oscura fatta di “anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche”. Se vuoi entrare in contatto con la parte più intima e più vera di te stesso, devi arrivare a toccare il fondo, devi perdere tutto. È questa la lezione di Suttree?

È il suo capolavoro senz’altro. Anzi, non il suo, è proprio un capolavoro nella storia della letteratura americana, e ha consentito che il nome di Cormac McCarthy venisse annoverato nell’Olimpo della scrittura a stelle e strisce, assieme a W. Faulkner e F. O’Connor. È un libro lento e fangoso come il fiume, divertentissimo e straziante insieme, che potrebbe andare avanti all’infinito, e che spiega l’America come nessun altro al mondo, presentando una carrellata di personaggi straordinari, lasciati ai margini dell’esistenza da un sistema socio economico che costruisce il successo di alcuni sul fallimento di molti altri, ai quali altri poi non resta che sopravvivere in mezzo a squallore violenza e privazioni. Credo che voglia dirci questo. La parte del neonato morto trasportato dall’acqua, o della famiglia che arriva con una baracca alla deriva sul fiume a cui qualcuno ha tagliato gli ormeggi, sono dei momenti di un’altezza tragica e di una grandezza umana vertiginose. Meritava il Nobel. 

L’ultimo romanzo della Border Trilogy, Città della pianura, è uscito nel 1998, a ridosso di una manciata di capolavori la cui concentrazione temporale credo abbia pochi precedenti nella storia della letteratura americana: Fight Club di Palahniuk e Infinite Jest di Foster Wallace, nel 1996; Underworld di DeLillo, Mason & Dixon di Pynchon e Pastorale Americana di Roth,  nel 1997. Proprio nel ’98 il libro di Roth si aggiudica il Pulitzer, McCarthy lo vincerà un decennio più tardi con La Strada, l’opera che anticipa l’apocalisse del suo ultimo tratto, quello più sorprendente. John Grady Cole e Billy Parham, i ragazzi che sognano il vecchio West e che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti, li ritroviamo in un ranch tra il Messico e il Texas ad allevare cavalli e ad ascoltare storie di vecchi cowboy. Siamo nei primi anni Cinquanta, in un tempo di confine, un tempo ormai al crepuscolo. Il confine è il luogo reale e ideale nel quale McCarthy proietta ogni sua storia, e sonda la mente e il cuore di un’umanità corazzata contro qualunque dolore. 

La concentrazione di libri americani straordinari in quegli anni è effettivamente incredibile, ma la scrittura ci ha abituati a sorprese del genere: Puskin nasce nel 1799, Tolstoij muore nel 1910; in quei 111 anni c’è tutta la letteratura russa classica, un diluvio di capolavori che ti fanno girare la testa. A proposito del concetto di confine, direi che questo per McCarthy è il limite di uno spazio smisurato che hai davanti, la fermata prima dell’ignoto, un ambito letterario che a noi manca completamente. È il punto dal quale parte il concetto di frontiera, il suo limite basso, quello dove sono i suoi personaggi, è il margine. L’altro capolinea, quello dalla parte opposta, è sconosciuto. E nessuno è mai tornato da lì per poterci raccontare qualcosa. Il modo nel quale questo spazio sconfinato ha saputo agire nell’immaginario collettivo di chi scrive e di chi legge, è una cosa americana. Il limite prima dello spazio, e’ una categoria dello spirito che a noi manca, perchè siamo figli dei vicoli rinascimentali delle città d’arte, non delle praterie, del vento e delle catene montuose. Noi siamo schiacciati dentro noi stessi dalla storia, gli americani sono cavalli al galoppo nell’infinito senza destinazione. Loro sono sul limite che poi ha davanti uno spazio narrativo, noi su un limite ma lo spazio ce lo siamo lasciati alle spalle. Loro guardano all’eternità sporgendosi in avanti, noi indietro. Loro devono capire dove vanno, noi da dove veniamo. E così via. Spero di non essermi capito da solo. 

“Luccicavano tutte leggermente nell’aria torrida, queste forma di vita, come minuscole apparizioni. Rozze sembianze elevate a dicerie, dopo che le cose stesse erano svanite nella mente degli uomini”. Il confine tra il bene e il male – “Ha la capacità di dare la vita e la morte” disse di McCarthy Saul Bellow – è la prima traccia anche di Meridiano di sangue, il romanzo che contende a Lonesome Dove di Larry McMurtry, pubblicato nello stesso anno (1985), il titolo di più bel Western di sempre. È una storia brutale leggendo la quale hai continuamente la sensazione di essere giunto al punto che accada finalmente qualcosa, ma di fatto non accade nulla oltre il lento scorrere del tempo, e del sangue, naturalmente. Sangue e lentezza sono i binari sui quali McCarthy spinge la sua tragedia omerica assecondando il mood dell’antica tradizione orale sui bivacchi di pionieri e fuorilegge. Harold Bloom definì Meridiano di sangue Il Grande Romanzo Americano alla pari di Moby Dick di Melville e di Mentre morivo di William Faulkner. 

“Moby Dick” è il più grande romanzo americano ma non è del tutto americano, è anche intriso di idealismo tedesco, un libro che ha due livelli di lettura, uno terrestre e un altro speculativo. Verismo e trascendentalismo insieme. “Mentre Morivo” di Faulkner è un coro tetro, oscuro, di voci e figure appartenenti ad un paese per noi sconosciuto, arcano e agricolo, è la storia dell’America. Meridiano di Sangue invece ne è la leggenda. Ti confesso che, nonostante “Suttree”, è il mio preferito. Il giudice Holden di “Meridiano di Sangue” è una delle più grandi figure letterarie di tutti i tempi, semplicemente apocalittico. Per ciò che mi riguarda l’unico erede del comandante Achab. 

Il passeggero e Stella Maris sono stati i romanzi più attesi degli ultimi sedici anni. In Italia Stella Maris è uscito a distanza di qualche mese rispetto a Il passeggero, negli Stati Uniti invece la pubblicazione dei volumi è avvenuta in contemporanea. Si può stabilire con esattezza quale dei due libri sia il sequel dell’altro? Joy Williams dice che la sequenza giusta è quella inversa rispetto alla scelta di Einaudi. Le reazioni dei critici e dei lettori sono state abbastanza diverse, direi opposte. Sandro, non mi hai ancora detto come la pensi, ma a chi non avesse mai letto nulla di McCarthy io non suggerirei mai di cominciare a farlo da questi ultimi testi, entrambi straordinari, siamo d’accordo, ma troppo ostici e distanti dalla vera identità di McCarthy. Ma secondo te, chi glielo ha fatto fare al grande Cormac di ritornare in pista a novant’anni suonati, dopo tutto quel ben di Dio che ci aveva regalato prima?

Il vero campione non vuole mai mollare (guarda Francesco Totti). A chi si accosta a McCarthy per la prima volta, consiglio di cominciare con “Il Buio Fuori” o con la “Trilogia della Frontiera”. Per quello che concerne “Il Passeggero” e “Stella Maris” credo che tutta la critica mondiale sia fuori strada: mi dispiace che debba essere io a dovervi dire che se i libri in America sono usciti insieme è perchè vanno letti insieme. Io almeno ho fatto così. Te li metti sulla scrivania tutti e due e leggi stereo. Alle prime incertezze de “Il Passeggero” vai a rifugiarti nelle pagine di “Stella Maris”, che alla fine sta nell’altro libro come un romanzo nel romanzo, un po’ come l’episodio della “Monaca di Monza” nei “Promessi Sposi”. Perchè il grande Cormac non abbia pensato a fare un unico libro non lo so, ma a 90 anni si può concedere un lieve rincoglionimento anche al più grande di tutti. 

In Italia uno scrittore come McCarthy non lo abbiamo mai avuto. Vale per lui ma anche per altri autori diversississimi da lui, da Stephen King a Thomas Pynchon, da James Ellroy a Don DeLillo. Come te lo spieghi?  

Nel 300 abbiamo avuto dante Petrarca e Boccaccio quando nel resto del mondo ancora andavano in giro con le corna di montone in testa, fino al 1600 non c’è stata altra letteratura in Europa oltre quella italiana. Poi le cose cambiano, la ruota gira. Ora tocca agli americani, sono ancora la società dominante, e noi, alienati da trent’anni di berlusconismo e di telefilm di merda, abbiamo perso qualunque contatto con la nostra dimensione antropologica, diventando una specie di colonia di un’altra cultura, siamo sprofondati in un nuovo Medioevo senza fine, e a fare libri e classifica sono Moccia, Fabio Volo, la Mazzantini ecc ecc. Tutti alberi abbattuti per niente. Purtroppo il responsabile dei libri brutti è il cattivo lettore, l’editore, si sa, risponde dicendo che lui vende ciò che la gente vuole. Anche se questo non lo giustifica affatto, anzi, lo rende complice. Per il resto ti ringrazio di cuore; poter parlare di grande letteratura è un modo per resistere, per combattere. Siamo come i Càtari ormai.

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TALKING HEADS 77 – John Domini

Non ci crederete ma è esistito un tempo in cui i giovani ascoltavano della buona musica. Chi ha più di cinquant’anni, come il sottoscritto e come John Domini, scrittore e critico italoamericano trapiantato nel bel mezzo del Midwest, avrà certamente consumato i vinili di una leggendaria band newyorchese chiamata Talking Heads. Cosa c’entrino le teste parlanti di David Byrne con questo romanzo, il primo di Domini, uscito negli Usa nel 2003 e ripubblicato in Italia da Arkadia con la traduzione di Alessandra Ceccoli, lo capirete nelle ultime pagine del libro, quando tutti i pezzi del racconto riprendono la loro giusta collocazione e la storia si ricompone in forme più nitide dopo alcuni passaggi abbastanza criptici e postmoderni (Domini ha studiato con John Barth e Donald Barthelme, due a caso). Cominciamo col dire che Talking Heads 77, il titolo è un evidente omaggio al più noto degli album della band, è fondamentalmente un romanzo sugli anni ’70. Se in Italia li abbiamo chiamati anni di piombo, negli Stati Uniti non sono stati da meno in termini di violenza e di disordini. Kit Viddich è un ragazzotto del Minnesota sposato con la rampolla di una famiglia bostoniana molto in vista, il “clone” di Farrah Fawcett, e con un’idea fissa: aprire una rivista alternativa che scardini le regole del mainstream della solita stampa accomodante e asservita al potere. Con “Sea Level” Kit intende rovistare nel torbido, denunciare i crimini fuori dai radar, dare voce agli ultimi, distinguersi dall’omologazione mediatica di marchi più noti. Siamo a ridosso del Watergate e a pochi anni dall’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca, una stagione di mezzo che ribolle per la dure rivendicazioni delle minoranze, per il massiccio uso delle droghe, ma anche per l’emersione di nuovi fermenti musicali come il punk. Se avete letto romanzi come Chronic city di Jonathan Lethem, Città in fiamme di Gart Risk Hallberg o Città di morti di Herbert Lieberman, avrete un quadro preciso dell’atmosfera sapientemente riprodotta da Domini nella sua storia, che per due terzi ruota intorno a un’inchiesta sulla decadenza architettonica e sugli abusi perpetrati all’interno di un penitenziario di Boston chiamato Monsod. Nelle stesse ore in cui ho letto il romanzo di John, in Italia si è registrato il 64° caso di suicidio nelle carceri dal primo gennaio del 2024. L’indagine di Kit sul trattamento disumano riservato a molti detenuti del Monsod, a cominciare dal giovane di colore Junior Rebes (“Vuoi prenderti solo la tua storia del cazzo e andartene via comodo da qui!… Non siamo niente e saremo niente per sempre”), mostra una realtà poco distante da quella dei nostri giorni, a qualunque latitudine. Kit è un idealista ma Boston non è il Minnesota; la sua condizione di uomo semplice e privo di sovrastrutture ideologiche è una delle tracce principali della storia, che include anche aspetti più intimi del difficile rapporto tra lui e Bette: il sesso, il distacco, un possibile adulterio. Le voci di dentro che infestano la coscienza di Kit si riverberano in un Non è come immaginavo, Sono troppo piccolo per ripulire l’Inferno, È tutto uno schifo, ma poteva andarmi peggio. Che ne sarà del Sea Level e della purezza di Kit? Teste parlanti 77. 

Angelo Cennamo

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MY NAME IS DAVE

Nel 1987 uno studente universitario di Ithaca (NY), cresciuto nel Midwest, riscrive la propria tesi di laurea in filosofia e ne fa un romanzo folle ma per tante ragioni destinato a lasciare un segno nella letteratura americana, in quegli anni alle prese col minimalismo di personaggi come Carver, Ellis, Leavitt, McInerney. Si chiama David Foster Wallace, di lì a poco diventerà uno degli scrittori più innovativi della sua generazione, e a seguito della morte, avvenuta per suicidio a soli quarantasei anni, una vera e propria figura di culto. Definire lo stile di Foster Wallace è complicato anche per un linguista arguto come Stefano Bartezzaghi che del suo romanzo di esordio ha curato la prefazione italiana per conto di Einaudi. Postmoderno, si è detto. Già, ma c’è dell’altro. La scrittura è vertiginosa, ellittica, in alcuni passaggi ostica e incomprensibile, in altri più snella perché Wallace sa tradurre, scomporre pensieri complessi e rivestirli di nuove forme pop, avvicinare l’alto al basso, ispezionare la mente dei suoi personaggi, destrutturare sinapsi, offrire al lettore secondi e terzi punti di osservazione. La Scopa del Sistema racconta le avventure di Lenore Beadsman, una ragazza fragile e insicura che si mette alla ricerca della bisnonna novantenne (ultima allieva del filosofo Wittgenstein), fuggita misteriosamente dalla casa di riposo insieme a un folto gruppo di altri pazienti e infermieri. Tutto quello che accade nelle cinquecentosettantacinque pagine del romanzo: la difficile relazione – diciamo pure l’impossibile relazione – tra Lenore e Rick Vigorous, l’ultraquarantenne conosciuto nello studio di uno psicanalista; la popolarità di Vlad l’Impalatore, l’uccellino che recita sermoni religiosi su una tv via cavo (in Telegraph Avenue di Michael Chabon c’è un pennuto che gli somiglia molto – Telegraph Avenue è uscito nel 2012); i problemi di tossicodipendenza del fratello minore di Lenore, LaVache, ragazzo nato con una sola gamba; insomma tutta questa proliferazione di storie, ognuna delle quali costituisce un romanzo dentro il romanzo, fa da corollario alla traccia centrale del libro che è proprio l’assenza della bisnonna filosofa. I pezzi cuciti da Wallace intorno alla vicenda della scomparsa non seguono una linea retta, la struttura è volutamente disarmonica, con una punteggiatura avventurosa, ma l’incastro tra le diverse sottotrame è efficace così come l’alternarsi degli spunti comici alle parti più filosofiche, i continui richiami agli studi dell’anziana fuggiasca: aporie, antinomie, messaggi cifrati; dettagli oscuri, in alcuni casi indigesti, che tuttavia stimolano la curiosità del lettore attirandolo in un vortice ipnotico. Quando La Scopa  fu pubblicato non mancarono voci dissonanti di chi contestava a Wallace un eccesso di narcisismo e liquidava la sua opera prima come un vibrante esercizio di stile, nulla di più. In verità il romanzo funziona in ogni sua parte, perfino nei cazzeggi, ma per comprenderne appieno il senso: 1) non va persa di vista la sua fase embrionale, e cioè la tesi di laurea dell’autore, che viene fuori in diversi passaggi del testo, per esempio nelle trascrizioni delle sedute terapeutiche tra Lenore e il suo psichiatra o nei dialoghi tra Lenore e il fratello LaVache all’Amherst College; 2) va inclusa tra i protagonisti la figura invisibile di Wittgenstein. La presenza di Wittgenstein è consustanziale rispetto all’assenza di Lenore. Di più, i due sono praticamente la stessa cosa. Wittgenstein giudicava il linguaggio come un insieme di “giochilinguistici” dove il significato di una parola è l’uso di quella parola in un particolare contesto. Ecco allora la chiave di volta: siamo fatti di parole, non esiste realtà oltre il linguaggio, “La vita è il suo racconto” dice Lenore al suo psicanalista. Questo assioma vale anche per gli osceni sproloqui di Vlad l’Impalatore o gli animali parlanti ne sono esclusi? Dicevo di Wittgenstein, è la password per accedere e decriptare tutta l’opera di Wallace, che due anni dopo questo romanzo si riconferma tra le voci migliori della nuova narrativa americana con La ragazza dai capelli strani, un compendio variegato della cultura occidentale, una brillante carrellata di nevrosi e di ossessioni – una chiara parodia ellisiana, dirà Gerald Howard, editor di Bret Easton Ellis (oltre che di Wallace). Il dramma dell’incomunicabilità. Pagine esilaranti nelle quali Wallace tira fuori il marcio della società americana alla sua maniera, con umorismo, stile, e con quella oscura originalità sempre sul filo dell’incomprensione che lo rende unico e capostipite di una generazione di “strani” talenti. Wallace è forte sia nel romanzo che nel tratto breve (Brevi interviste con uomini schifosi, Oblio).

“Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia.”

Maneggiare un romanzo di Wallace è un’esperienza difficilmente comparabile ad altre letture. È come avventurarsi senza indicazioni in un luogo che non è contemplato su Google maps, un luogo abitato da un’umanità esasperata, quasi lobotomizzata, assuefatta al male, perennemente inquieta. Perché uno scrittore ostico come Foster Wallace ci piace così tanto? Forse perché in quella oscurità ritroviamo le nostre stesse insicurezze. Forse perché “non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo”, come scrisse Jonathan Franzen in un suo saggio. Nel 1996 Wallace pubblica il suo capolavoro. Per la sua mole – nella versione italiana 1.280 pagine fittissime oltre centinaia di note – Infinite Jest incute terrore e scoraggia anche i cultori più incalliti della parola scritta (“Non leggi un libro di mille pagine perché hai sentito dire che il suo autore è un tipo simpatico. Lo leggi perché ti hanno fatto capire che il suo autore è un genio” – Come diventare se stessi di David Lipsky). Lasciare però quel mattone in bella vista sulla scrivania alla stregua di un fermacarte o di un vecchio almanacco, temendo che la smisurata lunghezza possa annoiare o peggio logorare i nervi – può accadere se non si è rodati al postmodernismo spinto – è più di un peccato veniale: è sottrarsi a un’operazione rigenerativa che dopo tutto finisce per amplificare la nostra qualità di lettori – dopo aver letto Wallace si diventa lettori terribilmente esigenti. Una catarsi dunque. Ma prima della catarsi – che poi è lo stesso rituale di purificazione al quale si è sottoposto l’autore scrivendo il libro – il supplizio, sfiancante, ai limiti della sopportazione. Infinite Jest è un romanzo meravigliosamente faticoso, nei momenti di scoramento si ha voglia di lanciare il mattone contro la parete della camera da letto e maledire il critico della rivista o l’amico – in questo caso nemico – che ne ha consigliato l’acquisto. Ma dura poco. Dura poco perché dai libri di Wallace e dallo stupore che alimentano le sue non-trame è difficile stare lontani “Voglio creare qualcosa capace di ristrutturare mondi e anche di far provare qualcosa agli umani”. Un libro fluviale con tre linee narrative (familare, distopico-politica, passionale), un’architettura frammentata e senza un vero finale (un finale probabilmente c’è ma va ricercato oltre la struttura fisica del romanzo), che racconta di una società rassegnata al proprio annientamento psicofisico, per quanto Wallace si ribelli a questo andazzo nichilista attraverso la figura di Don Gately, forse il personaggio cardine. Il libro fu pubblicato nel 1996 – quattro anni prima Michael Pietsch, editor della Little, Brown, acquisì il romanzo versando un anticipo di ottantamila dollari – ma Wallace cominciò a lavorarci già nel 1986. Alcune scene dovevano integrare altri progetti, vennero inizialmente accantonate poi riprese di nuovo, riadattate. In un tempo imprecisato e sponsorizzato gli Usa avranno inglobato il Messico e il Canada in una supernazione chiamata ONAN (Organization of North American Nations). Wallace ambienta la/le storie all’interno dell’ETA ( Enfield Tennis Academy), un liceo per giovani promesse del tennis che sognano di  giocare nell’ATP “lo Show”, e all’Ennet House, un centro di riabilitazione per alcolisti e drogati che puzza del tempo che passa. Come tutti i protagonisti del libro, attuali nella loro unidimensionalità, i ragazzi dell’ETA sono sopraffatti dalla noia e invischiati nell’uso di sostanze ricreative. ETA e EH sono luoghi di solitudine e di individualismo esasperato; due universi paralleli, idealmente collegati tra loro, ma che nel corso della narrazione si sfiorano appena. Infinite Jest è anche il titolo di un film misterioso che ipnotizza gli spettatori condannandoli ad una pericolosa assuefazione. Un’arma letale che può cambiare il corso degli eventi. Eccoci  dunque al tema del romanzo: la dipendenza. Dipendenza da qualunque cosa, non solo dall’alcol e dalle droghe, forse anche dallo stesso libro che imprigiona il lettore più intrepido fino alle note del post scriptum in una sorta di stato catatonico: il magnetismo di Wallace è un argomento da approfondire, da studiare. Dicevamo della trama come espediente dell’autore per raccontare molto altro attraverso divagazioni su fatti, luoghi e personaggi, seguendo i consueti schemi labirintici ai quali the genius ci ha abituato per guidarci nel suo mondo enigmatico e ricco di suggestioni: dilatazioni spazio-temporali, periodi lunghi e scomposti senza mai un capoverso, punteggiatura fantasiosa “se la realtà contemporanea è frammentaria, deve esserlo anche il romanzo”. Un reticolo di scene l’una dentro l’altra che tolgono il fiato e lasciano attoniti. Una scelta precisa dell’autore che non vuole accattivare i lettori con espedienti immediati ma fare del suo romanzo “Un intrattenimento fallito”. Del realismo isterico di Wallace (espressione coniata da James Wood per Zadie Smith) e dell’impossibilità di cogliere fino in fondo tutte le sfaccettature della sua grammatica mentale non si può dire di più. La cosa più faticosa della mia vita riferì Edoardo Nesi che del libro ha curato la traduzione italiana.                                       

“E’ giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?” 

Separare il David Foster Wallace saggista dal romanziere non ha molto senso. Nella sua vita Wallace ha scritto di Tennis, Matematica, ha spiegato il Rap ai bianchi. Nel 2005 esce Considera l’aragosta, una raccolta di saggi brevi, articoli, recensioni, lezioni universitarie, nella quale il genio di Athena ci conduce in posti stravaganti come un festival di cinema porno, una sagra di aragoste nel Maine, un tour elettorale di John McCain.

“Raccontare l’apatia con garbo e umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare”. 

Si può giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che a soli quarantasei anni lo ha portato al suicidio? Il realismo isterico della prosa massimalistica, lo sguardo malincomico sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi  pubblicati e dei racconti, sono probabilmente legati a quel malessere, all’urgenza, già altre volte avvertita, di abbandonare la vita. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont (California), pare che avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, ordinato negli  scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. “La Cosa Lunga”, un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato all’amico Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa, al party per il decennale di Infinite Jest, a uscite con gli amici. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva al telefono come stai, lui alla sua maniera rispondeva:  “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del  romanzo che Wallace stava scrivendo vennero faticosamente assemblati tre anni dopo la sua morte, nel 2011, dall’editor Michael Pietsch in un libro di circa ottocento pagine pubblicato col titolo Il Re Pallido. Parliamo evidentemente di un romanzo incompiuto, ma quale opera di Wallace non lo è? Soprattutto, siamo proprio sicuri che si tratti di un romanzo? La risposta è nell’introduzione o parte metanarrativa, che troviamo, pensate, a pagina ottantacinque “Questo libro non è opera di fantasia, bensì sostanzialmente vero e accurato: Il Re Pallido è di fatto più un libro di memorie che una storia inventata”. Chiaro, no? Un libro di memorie ispirato all’esperienza che il giovane studente universitario David  Wallace avrebbe vissuto per tredici mesi presso l’Agenzia delle Entrate della sperduta Peoria, nell’Illinois “Il libro è basato in buona parte sui vari taccuini e diari che ho tenuto durante i miei tredici mesi come liquidatore standard al Ccr del Midwest. Il Re Pallido è, in altre parole, una specie di libro di memorie professionali”. Mm, bello scherzo, in tanti hanno abboccato. E sì perché tra il 1985 e il 1986 Wallace era impegnato negli studi universitari e a scrivere il suo primo romanzo: in quell’ufficio di Peoria non mise mai piede. Dunque? La noia. È questo il vero argomento, del romanzo? Assolutamente sì. Ma attenzione, non parliamo solo di quel non luogo a procedere della felicità, quel baratro astratto di malinconia nel quale è facile perdersi per sempre. La noia si può sconfiggere, è questo il messaggio contenuto nel libro. Lasciarsi attraversare senza opporre resistenza, sviluppare la capacità, a volte innata a volte acquista, di trovare l’altra faccia della ripetizione meccanica dell’inezia, dell’insignificante, del ripetitivo, dell’inutilmente complesso “eccola la chiave alla base di tutto, la chiave della vita moderna e della vera felicità: essere, in una parola, inannoiabile”. Il Re Pallido è un monumento di introspezione, un’opera di narrativa ma nel contempo un trattato di filosofia, un saggio di psicologia, il migliore testamento che un incursore dell’entropia come Wallace potesse lasciare ai suoi lettori. 

Angelo Cennamo

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