CONVERSAZIONI AMERICANE. CORMAC McCARTHY/ con Sandro Bonvissuto

Seduti in una trattoria dietro il Pantheon alla vigilia di Ferragosto, io e Sandro Bonvissuto sembriamo Enzo e Sergio, i protagonisti di Un sacco bello di Verdone in procinto di partire all’avventura per l’Est Europa con la spider decapottabile e le calze di nylon nel cruscotto. Sono le dieci di sera, la sala è mezza vuota. Alle nostre spalle una coppia di francesi sta litigando per una questione di eredità, ma del mio francese mi fido poco. Per strada ci saranno ancora trenta gradi, dentro però si sta freschi. Sul tavolo, spartano e con una tovaglia rosso pompeiano, tra la Falanghina e un piatto di bruschette, fa la sua figura una copia di Suttree di Cormac McCarthy. È il nostro argomento di conversazione. Da qualche anno Sandro è ostaggio della sua capigliatura rasta; Nun me li posso taglià, dice, me ce vorrebbe na fiamma ossidrica. Sulla mia polo bianca mi accorgo di avere una macchia di sugo a forma di sigaro. Fingo di non farci caso ma la macchia si vede benissimo anche con le luci soffuse. Suttree intanto è lì, al centro del tavolo, che ci fissa.

Su una cosa io e Sandro siamo d’accordo: il capolavoro di McCarthy non è Meridiano di sangue. “Se non hai mai letto Cormac McCarthy, della letteratura non hai capito niente”, disse una volta David Foster Wallace a un suo amico regista, suggerendogli di prendere spunto proprio da Suttree per il suo nuovo film. La storia di Cornelius Suttree, l’uomo che fugge dagli affetti più cari per rifugiarsi in una baracca su un fiume e sopravvivere pescando pesci gatto da rivendere al mercato, è un romanzo senza trama e senza un vero finale. Un lungo flusso di coscienza o diario che in alcuni passaggi lo fa somigliare all’Ulisse di Joyce, in altri alla Divina Commedia. L’habitat di Cornelius è un perimetro di ladri, neri, ubriaconi, puttane. Una fauna di derelitti e di balordi con vissuti di galera e di grande sofferenza che l’antieroe del romanzo incontra navigando con la sua barca e nei bar sgangherati di una landa oscura fatta di “anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche”. Se vuoi entrare in contatto con la parte più intima e più vera di te stesso, devi arrivare a toccare il fondo, devi perdere tutto. È questa la lezione di Suttree?

È il suo capolavoro senz’altro. Anzi, non il suo, è proprio un capolavoro nella storia della letteratura americana, e ha consentito che il nome di Cormac McCarthy venisse annoverato nell’Olimpo della scrittura a stelle e strisce, assieme a W. Faulkner e F. O’Connor. È un libro lento e fangoso come il fiume, divertentissimo e straziante insieme, che potrebbe andare avanti all’infinito, e che spiega l’America come nessun altro al mondo, presentando una carrellata di personaggi straordinari, lasciati ai margini dell’esistenza da un sistema socio economico che costruisce il successo di alcuni sul fallimento di molti altri, ai quali altri poi non resta che sopravvivere in mezzo a squallore violenza e privazioni. Credo che voglia dirci questo. La parte del neonato morto trasportato dall’acqua, o della famiglia che arriva con una baracca alla deriva sul fiume a cui qualcuno ha tagliato gli ormeggi, sono dei momenti di un’altezza tragica e di una grandezza umana vertiginose. Meritava il Nobel. 

L’ultimo romanzo della Border Trilogy, Città della pianura, è uscito nel 1998, a ridosso di una manciata di capolavori la cui concentrazione temporale credo abbia pochi precedenti nella storia della letteratura americana: Fight Club di Palahniuk e Infinite Jest di Foster Wallace, nel 1996; Underworld di DeLillo, Mason & Dixon di Pynchon e Pastorale Americana di Roth,  nel 1997. Proprio nel ’98 il libro di Roth si aggiudica il Pulitzer, McCarthy lo vincerà un decennio più tardi con La Strada, l’opera che anticipa l’apocalisse del suo ultimo tratto, quello più sorprendente. John Grady Cole e Billy Parham, i ragazzi che sognano il vecchio West e che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti, li ritroviamo in un ranch tra il Messico e il Texas ad allevare cavalli e ad ascoltare storie di vecchi cowboy. Siamo nei primi anni Cinquanta, in un tempo di confine, un tempo ormai al crepuscolo. Il confine è il luogo reale e ideale nel quale McCarthy proietta ogni sua storia, e sonda la mente e il cuore di un’umanità corazzata contro qualunque dolore. 

La concentrazione di libri americani straordinari in quegli anni è effettivamente incredibile, ma la scrittura ci ha abituati a sorprese del genere: Puskin nasce nel 1799, Tolstoij muore nel 1910; in quei 111 anni c’è tutta la letteratura russa classica, un diluvio di capolavori che ti fanno girare la testa. A proposito del concetto di confine, direi che questo per McCarthy è il limite di uno spazio smisurato che hai davanti, la fermata prima dell’ignoto, un ambito letterario che a noi manca completamente. È il punto dal quale parte il concetto di frontiera, il suo limite basso, quello dove sono i suoi personaggi, è il margine. L’altro capolinea, quello dalla parte opposta, è sconosciuto. E nessuno è mai tornato da lì per poterci raccontare qualcosa. Il modo nel quale questo spazio sconfinato ha saputo agire nell’immaginario collettivo di chi scrive e di chi legge, è una cosa americana. Il limite prima dello spazio, e’ una categoria dello spirito che a noi manca, perchè siamo figli dei vicoli rinascimentali delle città d’arte, non delle praterie, del vento e delle catene montuose. Noi siamo schiacciati dentro noi stessi dalla storia, gli americani sono cavalli al galoppo nell’infinito senza destinazione. Loro sono sul limite che poi ha davanti uno spazio narrativo, noi su un limite ma lo spazio ce lo siamo lasciati alle spalle. Loro guardano all’eternità sporgendosi in avanti, noi indietro. Loro devono capire dove vanno, noi da dove veniamo. E così via. Spero di non essermi capito da solo. 

“Luccicavano tutte leggermente nell’aria torrida, queste forma di vita, come minuscole apparizioni. Rozze sembianze elevate a dicerie, dopo che le cose stesse erano svanite nella mente degli uomini”. Il confine tra il bene e il male – “Ha la capacità di dare la vita e la morte” disse di McCarthy Saul Bellow – è la prima traccia anche di Meridiano di sangue, il romanzo che contende a Lonesome Dove di Larry McMurtry, pubblicato nello stesso anno (1985), il titolo di più bel Western di sempre. È una storia brutale leggendo la quale hai continuamente la sensazione di essere giunto al punto che accada finalmente qualcosa, ma di fatto non accade nulla oltre il lento scorrere del tempo, e del sangue, naturalmente. Sangue e lentezza sono i binari sui quali McCarthy spinge la sua tragedia omerica assecondando il mood dell’antica tradizione orale sui bivacchi di pionieri e fuorilegge. Harold Bloom definì Meridiano di sangue Il Grande Romanzo Americano alla pari di Moby Dick di Melville e di Mentre morivo di William Faulkner. 

“Moby Dick” è il più grande romanzo americano ma non è del tutto americano, è anche intriso di idealismo tedesco, un libro che ha due livelli di lettura, uno terrestre e un altro speculativo. Verismo e trascendentalismo insieme. “Mentre Morivo” di Faulkner è un coro tetro, oscuro, di voci e figure appartenenti ad un paese per noi sconosciuto, arcano e agricolo, è la storia dell’America. Meridiano di Sangue invece ne è la leggenda. Ti confesso che, nonostante “Suttree”, è il mio preferito. Il giudice Holden di “Meridiano di Sangue” è una delle più grandi figure letterarie di tutti i tempi, semplicemente apocalittico. Per ciò che mi riguarda l’unico erede del comandante Achab. 

Il passeggero e Stella Maris sono stati i romanzi più attesi degli ultimi sedici anni. In Italia Stella Maris è uscito a distanza di qualche mese rispetto a Il passeggero, negli Stati Uniti invece la pubblicazione dei volumi è avvenuta in contemporanea. Si può stabilire con esattezza quale dei due libri sia il sequel dell’altro? Joy Williams dice che la sequenza giusta è quella inversa rispetto alla scelta di Einaudi. Le reazioni dei critici e dei lettori sono state abbastanza diverse, direi opposte. Sandro, non mi hai ancora detto come la pensi, ma a chi non avesse mai letto nulla di McCarthy io non suggerirei mai di cominciare a farlo da questi ultimi testi, entrambi straordinari, siamo d’accordo, ma troppo ostici e distanti dalla vera identità di McCarthy. Ma secondo te, chi glielo ha fatto fare al grande Cormac di ritornare in pista a novant’anni suonati, dopo tutto quel ben di Dio che ci aveva regalato prima?

Il vero campione non vuole mai mollare (guarda Francesco Totti). A chi si accosta a McCarthy per la prima volta, consiglio di cominciare con “Il Buio Fuori” o con la “Trilogia della Frontiera”. Per quello che concerne “Il Passeggero” e “Stella Maris” credo che tutta la critica mondiale sia fuori strada: mi dispiace che debba essere io a dovervi dire che se i libri in America sono usciti insieme è perchè vanno letti insieme. Io almeno ho fatto così. Te li metti sulla scrivania tutti e due e leggi stereo. Alle prime incertezze de “Il Passeggero” vai a rifugiarti nelle pagine di “Stella Maris”, che alla fine sta nell’altro libro come un romanzo nel romanzo, un po’ come l’episodio della “Monaca di Monza” nei “Promessi Sposi”. Perchè il grande Cormac non abbia pensato a fare un unico libro non lo so, ma a 90 anni si può concedere un lieve rincoglionimento anche al più grande di tutti. 

In Italia uno scrittore come McCarthy non lo abbiamo mai avuto. Vale per lui ma anche per altri autori diversississimi da lui, da Stephen King a Thomas Pynchon, da James Ellroy a Don DeLillo. Come te lo spieghi?  

Nel 300 abbiamo avuto dante Petrarca e Boccaccio quando nel resto del mondo ancora andavano in giro con le corna di montone in testa, fino al 1600 non c’è stata altra letteratura in Europa oltre quella italiana. Poi le cose cambiano, la ruota gira. Ora tocca agli americani, sono ancora la società dominante, e noi, alienati da trent’anni di berlusconismo e di telefilm di merda, abbiamo perso qualunque contatto con la nostra dimensione antropologica, diventando una specie di colonia di un’altra cultura, siamo sprofondati in un nuovo Medioevo senza fine, e a fare libri e classifica sono Moccia, Fabio Volo, la Mazzantini ecc ecc. Tutti alberi abbattuti per niente. Purtroppo il responsabile dei libri brutti è il cattivo lettore, l’editore, si sa, risponde dicendo che lui vende ciò che la gente vuole. Anche se questo non lo giustifica affatto, anzi, lo rende complice. Per il resto ti ringrazio di cuore; poter parlare di grande letteratura è un modo per resistere, per combattere. Siamo come i Càtari ormai.

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Una risposta a "CONVERSAZIONI AMERICANE. CORMAC McCARTHY/ con Sandro Bonvissuto"

  1. Avatar di Aceto Gennaro Aceto Gennaro ha detto:

    Bellissima conversazione, mi sarebbe piaciuto ascoltarvi dal vivo con un bicchiere in mano, senza parlare!

    Mi avete fatto venire la voglia di rileggere Melville, De Lillo e la trilogia della pianura e magari lo farò

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