L’8 maggio del 1983, quarantadue anni fa circa, ci lasciava John Fante. Era nato a Denver, nel Colorado, l’8 aprile del 1909, da uno scalpellino abruzzese e da una casalinga dell’Illinois, anche lei di chiare origini italiane (i suoi genitori si erano trasferiti a Chicago partendo da un paesino della Basilicata). Chi volesse conoscere la vita di Fante può leggere i suoi libri, hanno tutti una forte impronta autobiografica, oppure il ricco epistolario raccolto nel volume Lettere 1932 – 1981, edito da Einaudi, sulla cui cover però campeggia per errore la foto di un altro scrittore: l’inglese Stephen Spender. Sono a Cinecittà, in compagnia di Luca Ricci, fuori a un teatro di posa dove si registra un noto show televisivo che va in onda non so quando, con… vabbè. Parliamo di Manganelli per quanto l’argomento della nostra conversazione dovrebbe essere un altro. Ma perché ci siamo visti qui, Luca? E che ne so, me lo hai detto tu di venire. Sì, ma avevo detto zona Cinecittà, non dentro Cinecittà. Beh, per il tema della conversazione a me questo posto sembra perfetto. Luca ha tra le mani una vecchia copia de La confraternita dell’uva, uno dei pochi romanzi che John Fante si è goduto da vivo. Francis Ford Coppola avrebbe voluto trarne un film poi il progetto saltò. È il mio libro preferito di Fante, dico, una delle più belle storie mai scritte sul rapporto padre figlio. Non trovi?
In Fante è interessante il rapporto tra biografia e finzione. Nonostante tutta la sua opera parli della sua famiglia, nessuno ha mai messo in dubbio che si tratti di letteratura. Nessuno ha mai minimamente pensato a una sorta di autofiction ante litteram. Motivo? Fante ricorre all’espediente degli alter ego, non solo per sé stesso ma per la pressoché totalità dei componenti della sua famiglia. Un conto è romanzare sé stessi, tutt’altra cosa è disporre di un universo romanzesco speculare a quello reale. Alter ego: persona che rappresenta un’altra. Già nella definizione della parola c’entra l’arte. Così ne La confraternita dell’uva abbiamo la figura di questo muratore in pensione che si chiama Nick Molise che è il padre di Fante pur non essendolo. Qui si annida la benedetta adulterazione della letteratura nei confronti della vita. Lo scarto che salva Fante dall’essere soltanto il mesto cantore degli immigrati italiani in America negli anni trenta, dell’epopea dei dago red (i bevitori di vino scadente, gli anti wasp).
Effettivamente Cinecittà è la location più adatta per parlare di Fante: il nostro amico si era guadagnato da vivere scrivendo per il cinema. Senza gli ingaggi delle case di produzione Fante non avrebbe avuto la giusta serenità (comodità) per dedicarsi alla narrativa. Quando partì per Los Angeles con pochi spiccioli in tasca e una valigia di cartone legata con lo spago, negli studios era in atto la rivoluzione del sonoro: le major reclutavano scrittori, soggettisti, sceneggiatori… la paga era buona e consentiva ai nuovi arrivati di coltivare senza affanni anche altri interessi. A Scott Fitzgerald toccò la stessa sorte ma lui seguì il procedimento inverso: cercò di risollevarsi dai debiti e dalla crisi di ispirazione riciclandosi come sceneggiatore. Gli andò malissimo. Una volta Joyce, la moglie di Fante, disse che suo marito era sprecato per il cinema, avrebbe dovuto fare solo il romanziere. Ti hanno mai chiesto di scrivere per il cinema o per la tv?
Ne I primaverili, il quarto romanzo del ciclo sulle stagioni, metto in scena una madre in fissa sul riadattamento delle opere del figlio scrittore (e io narrante del libro). Credo che a tutt’oggi sia stato il mio modo per esorcizzare la questione. Il mondo del cinema è impenetrabile, gli sceneggiatori sono una casta chiusa tipo i notai. Ho ricevuto una opzione per Gli autunnali e ho avuto qualche interessamento da parte della filiera dell’audiovisivo ma tutto è immerso in questa atmosfera alla Barton Fink, il lungometraggio capolavoro molto fantiano dei fratelli Coen.
Il nome di Fante spesso viene accostato a quello Bukowski. Pare che il giovane Bukowski un giorno avesse trovato in una biblioteca pubblica – le uniche che poteva frequentare non avendo allora il becco di un quattrino – Ask The Dust (Chiedi alla polvere), e che si fosse riconosciuto nel giovane spiantato Arturo Bandini. Da scrittore affermato, alla fine degli anni ’70, Bukowski riuscì a conoscere e diventare amico di Fante al punto da spingere il proprio editore a ripubblicare alcune sue opere ormai dimenticate. Fante era prossimo alla morte, cieco e senza gambe per via di una grave forma di diabete. L’intercessione, chiamiamola così, di Bukowski fu essenziale per la riscoperta dell’anziano collega ma non decisiva, visto che negli Usa, subito dopo la sua morte, Fante nessuno se lo ricordava più. La simbiosi tra lui e Bukowski è una storia dentro le storie. C’è tanto da scavare, da imparare anche da quella comune visione della vita.
La storia della letteratura è costellata di queste corrispondenze miracolose, forse medianiche. È una storia anche di reincarnazioni. Ho sempre pensato che Henry Chinaski sia Arturo Bandini invecchiato. Gli alter ego più famosi di Bukowski e Fante sono lo stesso personaggio. Sono entrambi scrittori in attesa della consacrazione, umanamente vitali e pieni di difetti e impegnati in lavoretti umilianti, emarginati dalla società. Ci sono dei singoli passaggi che Bukowski sembra letteralmente avere ricopiato da Fante – nelle lettere che le riviste inviano a Bandini – in quel che si potrebbe definire tranquillamente un furto onesto.
Prima parlavamo del padre di Fante, Nick. È una figura ricorrente in molte storie di Fante. Direi uno dei personaggi migliori. A volte viene indicato come Nick Molise, in altre è Svevo Bandini. In Aspetta primavera, Bandini, Nick è il protagonista assoluto del romanzo: tutto ruota intorno al suo presunto adulterio, alle lusinghe inaspettate della vedova danarosa che lo circuisce, al rispetto per la famiglia, al duro lavoro, ai sacrifici di una vita. È una storia profondamente italiana. Una volta scrissi che Aspetta primavera, Bandini è uno dei più bei romanzi italiani del ‘900.
Non dobbiamo dimenticarci che, per quanto lo ritenesse un lavoro negletto, Fante era o provò a essere uno sceneggiatore di Hollywood, oltre che un italo americano. Il suo registro è perennemente in bilico tra pianto e riso, una prerogativa da cui mosse la commedia all’italiana. Bisogna ricordare il libro di racconti che si mise alle spalle un certo neo realismo molto plumbeo e inaugurò questo doppio registro poi saccheggiato dal cinema: I racconti romani di Alberto Moravia del 1957.
Il tema principale della narrativa di Fante è l’ambizione di scrivere. Il giovanissimo Arturo Bandini parte per Los Angeles sognando di diventare uno scrittore di successo. Nella tua quadrilogia sulle stagioni lo scrittore senza nome è perennemente in crisi di ispirazione e deve fare i conti con un’editoria stagnante, moribonda, che si barcamena tra romance e gialli da ombrellone. Il sogno di Bandini si smarrisce nel tempo di Gittani e di Lello Annibali.
John Fante è un autore che ho letto e amato tantissimo a vent’anni. Se sei giovane e cerchi di essere uno scrittore non c’è lettura più avvincente, è una goduria a ogni pagina. In occasione di questa nostra conversazione mi ero ripromesso di rileggere la saga di Bandini ma poi non l’ho fatto, volevo venire impreparato, o meglio con l’impressione che quei libri mi avevano lasciato. Non ricordo più che fine faccia Arturo Bandini alla fine. Per me sarà sempre quello che lotta contra tutti per riuscire ad avverare il suo sogno di scrittura. E credo che in questo singolo tratto sia racchiusa tutta la potenza, tutta la memorabilità di John Fante. Uno scrittore deve fare benissimo anche una cosa soltanto. Certo poi le cose sono più complicate di così. Già Bukowski-Chinaski ha una visione più indolente e pessimistica. Nella mia quadrilogia delle stagioni non poteva andare meglio: è nata la rete, la letteratura non va più letta, va fotografata.
Negli anni in cui Fante ha iniziato a scrivere in Europa si consumava la tragedia del nazifascismo con la deportazione e lo sterminio di migliaia di ebrei. Nei libri di Fante non c’è traccia di questi avvenimenti. Come Philip Roth, Fante si è concentrato su stesso, ha tradotto in inchiostro la propria esistenza, le vicende dei familiari, perfino del suo cane stupido.
Fante ha parlato di altro, ci sono molti appigli sociologici nei suoi libri, in filigrana, ma fortunatamente nessuna forma di sociologia. Gli scrittori si fermano sempre un attimo prima oppure un attimo dopo, ma non possono scrivere in maniera diretta sulla storia. Glielo impedisce la letteratura, che è sul pezzo proprio perché non è sul pezzo. Dicono storie universali, ma si potrebbe anche chiamarle storie inattuali. L’inattualità è un principio letterario, e non significa essere vecchi o non capire il proprio tempo, tutto il contrario.
Fante lo si può includere nella vasta categoria degli scrittori minimalisti e realisti che proprio in quegli anni cominciavano a venire fuori. Fante è quasi coevo di Hemingway, li divide un decennio.
L’Hemingway di “Festa mobile” non era forse un Arturo Bandini al contrario, un giovane americano espatriato a Parigi? Certo non proprio un wop, ma comunque fuori dalla sua nazione e dalla sua cerchia affettiva, vivendo di espedienti per realizzare il sogno della scrittura, in attesa di un parere favorevole da parte di Gertrude Stein. La potenza di Fante sta in questo: puoi trovare Arturo Bandini nelle aspirazioni di ogni giovane scrittore.
Tu nasci come autore di racconti. Ultimata la quadrilogia delle stagioni sei tornato quest’anno alla forma breve con Gotico rosa. Come giudichi il Fante scrittore di short stories?
Lo invidio perché all’epoca in cui Fante scriveva i primi racconti le riviste lo pagavano fino a 175 dollari. Nei suoi racconti torna sempre la sua famiglia con alter ego differenti. C’è il padre, artista del mattone e gran donnaiolo, la madre cattolica e castrante e le sorelle iper critiche nei confronti di chi ha velleità letterarie. La scrittura di Fante è sempre quella, scabra e scattante, ma i suoi racconti mi sono sempre sembrati bozzetti preparatori ai romanzi. Insomma dietro ci vedo sempre Bandini, tutto mi porta a Bandini. Un racconto invece dovrebbe bastare a se stesso.
L’ultima parola la lasciamo al cinico Gittani. Fosse vissuto settant’anni prima, di fronte a tutto questo sbattersi di Bandini per fare lo scrittore, gli avrebbe detto: ma lascia perdere, tanto ti leggeranno quando sarai già morto.
Temo gli avrebbe detto di peggio. “Bandini, per non fallire evita di iniziare”.