Luglio del 1996, a Talcott, West Virginia, si tiene un festival in memoria di un leggendario spaccapietre di colore che alla fine dell’Ottocento avrebbe sfidato e battuto una delle prime trivelle a vapore. Avrebbe perché della reale esistenza di John Henry nessuno può essere certo. Per partecipare all’evento, in città si ritrovano J. Sutter e una combriccola di giornalisti sbafisti che come lui girano gli States in lungo e in largo scroccando cene, alloggi e tutto il resto. I loro nomi sono segnati, registrati sulla Lista. “L’intento della Lista è di avere a disposizione un gruppo di persone affidabili a cui non frega un cazzo di niente, che vogliono roba gratis. La Lista desidera americani chiave. E gli sbafisti sono la quintessenza dell’americanità…”. Quando nel 2001 pubblica John Henry Days (in Italia John Henry Festival con l’editore Sur), Colson Whitehead non ha ancora vinto i due premi Pulitzer e il National Book Award (La ferrovia sotterranea e I ragazzi della Nickel sono arrivati qualche anno dopo). John Henry Festival è il suo secondo romanzo. A differenza di quanto risulterà nei libri successivi, il tema del razzismo qui viene appena sfiorato. Ciò che incuriosisce di più del romanzo è l’articolazione della narrazione, abbastanza complessa e con diversi capitoli che appaiono scollegati dall’argomento centrale, lasciato sullo sfondo, quasi si trattasse, e lo è, di un espediente per raccontare altro: il folklore, le perversioni del circuito mediatico, l’avvento di internet (così come John Henry “aveva abbandonato un’economia schiavistica alla volta di un’economia industriale”, J. sta abbandonando gli anni dell’analogico per entrare nel tempo digitale). Dicevo dei dubbi sulla reale esistenza di John Henry. La sua storia a un certo punto si intreccia con quella di John Hardy, un criminale vissuto negli stessi anni del protagonista e morto impiccato. I due John erano la stessa persona? Poco importa, quello che conta è che almeno la leggenda dello spaccapietre sia vera e che venga tramandata ai posteri. Le diverse microstorie che compongono il romanzo secondo una schema quasi decameronesco, dalle origini del blues ai concerti dei Rolling Stones, dalle droghe al collezionismo dei cimeli di John Henry, fino ai cartoni animati che ne riproducono la sfida alla trivella, superano spesso il confine della fiction. Anche per questo è difficile inquadrare John Henry Festival in un unico genere letterario. Per questo e per altro, nel senso che il lettore è chiamato a fare i conti non solo con una sorprendente vastità del racconto (riflessioni, digressioni, analisi della cultura pop americana) ma anche con una struttura così poco lineare che in alcuni passaggi non sembra neppure esistere. Insomma, non stiamo parlando di un libro facile e non sarà stato facile neppure scriverlo per Whitehead: l’approccio a John Henry Festival richiede pazienza e un tasso di concentrazione superiore alla media. Ma vi assicuro che lo sforzo alla fine sarà ben ripagato. Il miglior romanzo di Whitehead.
Angelo Cennamo