IL GIORNO DELL’APE – Paul Murray

Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo e il modo dei Barnes non potreste paragonarlo a quello di nessun altro. The bee sting – Il giorno dell’ape – dello scrittore irlandese Paul Murray è arrivato in Italia (con Einaudi e la traduzione di Tommaso Pincio) sull’onda di giudizi che definire entusiastici sarebbe poco: romanzo dell’anno per diverse riviste americane; uno dei più importanti libri di questo quarto di secolo per Sandro Veronesi; somiglia a Le correzioni di Jonathan Franzen, a detta di qualcun altro. Mi pare tutto molto esagerato o forzato. Intanto il Franzen de Le correzioni non c’entra nulla con questo libro: Franzen è più sofisticato di Murray, che del collega americano ha però più senso dell’umorismo, questo lo si può dire. E poi nelle dinamiche dei Lambert il gap generazionale è marcato, più centrale, porta a forme e architetture di maggiore precisione. Di cosa parliamo allora. Di un romanzo familiare in piena regola (il riferimento a Franzen ha senso per questo) che sorprende per l’ampiezza e gli incastri dei suoi blocchi narrativi. La storia è ambientata dopo la crisi economica del 2008, ma con dei salti all’indietro di quattro decenni. Murray alterna le voci e le prospettive dei protagonisti: moglie e marito (Imelda e Dickie), e i loro due figli (Cass e PJ). I Barnes sembrerebbero una sana famiglia della borghesia rurale irlandese; proprietari, come gli Angstrom di John Updike, di una concessionaria di auto. Ora però gli affari vanno male e lo spettro della povertà smorza sorrisi e finzioni. No, i Barnes non sono quello che sembrano. Cass è un’adolescente tormentata dall’incertezza del futuro e manipolata dalla sua amica Elaine, figlia di Mike, un viscido mercante di bestiame che potrebbe non solo incunearsi nella gestione della concessionaria ma approfittare dell’infelicità sessuale di Imelda. Il flusso di coscienza joyciano della bellissima signora Barnes è senza segni di interpunzione. Dickie gestisce “il garage” ma non pare portato per quel mestiere: legge i libri, pensa al clima e alla natura. Per farsi notare e riunire i genitori, prossimi al divorzio, PJ immagina di fuggire e nascondersi da un suo follower. La sola persona che può risollevare le sorti della famiglia è il vecchio Maurice, il suocero di Imelda che anni prima era stato costretto a lasciare l’azienda a Dickie. La comparsa sulla scena del ricco copostipite, che oggi trascorre le giornate a giocare a golf in Portogallo, consente a Murray di aprire la storia con dei succulenti flashback: prima di sposare Dickie, Imelda era fidanzata con suo fratello Frank, promessa del calcio, morto tragicamente a pochi giorni dalle nozze. Murray è bravo a scavare nel torbido e a sorprendere sia i lettori che i personaggi, nessuno dei quali sa dei segreti degli altri. I Barnes sono profondamente soli e infelici; i loro drammi, esistenziali sessuali economici, formano singoli romanzi dentro il romanzo. Ma al di là degli errori e delle imposture, è facile simpatizzare con ognuno dei protagonisti, anche perché tutti e quattro ci appaiono bisognosi di amore, di maggiore considerazione, di essere capiti. Nei conti della concessionaria c’è un buco di diversi milioni. Cosa sarà mai accaduto? E per colpa di chi? Di fronte al disastro, sull’orlo dell’abisso, Dickie guarda altrove, costruisce un bunker nel bosco dietro casa. L’imminente catastrofe economica viaggia sul binario di una possibile crisi ambientale, ma niente di woke. Il bunker è come l’arca di Noè, l’illusione o la speranza di Dickie è quella di traghettare la famiglia in un posto sicuro, entrare in una nuova vita, ribaltare tutto. 

Angelo Cennamo

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IL TAGLIAPIETRE – Cormac McCarthy

Dramma in cinque atti. Un’opera teatrale dunque, scritta nella sua stagione più feconda, qualche anno dopo Meridiano di sangue e contemporaneamente alla Trilogia della frontiera. Teatro. Ma quale opera di Cormac McCarthy non ha a che fare col teatro, dagli abissi e le visioni di Stella Maris e de Il Passeggero ai tormenti di (Cornelius) Suttree? Il tagliapietre uscì negli Stati Uniti nel 1994 ma ebbe poca fortuna; oggi ne avrebbe avuta ancora meno, con l’autore processato di appropriazione culturale e minacciato ai reading o sotto casa da frotte di lettori woke: come si permette quello yankee di McCarthy di scrivere di quattro generazioni di neri? Il libro, in Italia in questi giorni con Einaudi e la traduzione di Maurizia Balmelli, racconta (molto brevemente, meno di 130 pagine) le vicende della famiglia Telfair, arrivata a Louisville, Kentucky, dalla Carolina del Sud. Il protagonista della pièce, ambientata perlopiù nella cucina di casa, è Ben, nipote dell’ultracentenario Papaw, un trentenne che ha riununciato agli studi universitari per fare il lavoro del nonno: lo scalpellino.  

“Se non fosse stato per lui avrei fatto l’insegnante… Il mestiere non era nei libri. Ce lo tenevamo stretto al cuore. Ce lo tenevamo stretto al cuore ed era come un potere e sapevamo che non ci avrebbe tradito”.

Il testo è una specie di parabola biblica (“Un muro è fatto allo stesso modo in cui è fatto il mondo. Una casa. Un tempio”) nella quale Papaw assume il ruolo dell’Altissimo e Ben quello di Cristo. Big Ben, che al mestiere del padre e del figlio preferisce il cemento e che sguazza in affari loschi, è Giuda.

“All’origine di tutto… c’è il mestiere… La sua arte è la più antica che esiste”. L’uscita di scena del patriarca, saggio e silenzioso, innesca la spirale tragica del peccato e della morte. Non saprei dire se l’insuccesso de Il Tagliapietre sia derivato da una retorica un po’ forzata sulla condizione dei neri e in alcuni passaggi su quella delle donne: a pagina 46, sentiamo dire dalla sorella di Ben alla madre: “Tu pensi che gli uomini nascano con dei diritti che le donne non hanno. Che possano andare e venire come uccelli migratori e che sia perfettamente naturale… Certo che è naturale – risponde la madre – Tu cerchi di cambiare la natura”. Dettagli, forse. Nella profonda simbiosi tra Papaw e suo nipote Ben, ho rivisto lo stesso rapporto, ma capovolto, di Nick Molise col figlio Henry ne La confraternita dell’uva di John Fante, il più bel romanzo americano sulla paternità insieme a Patrimonio di Philip Roth. Come Papaw, Nick è uno scalpellino, ma Henry lo ha tradito scegliendo il mestiere dello scrittore. Pur di riavvicinarsi al padre, l’alter ego di Fante decide di seguire il vecchio in montagna con un furgone scassato, nel suo ultimo lavoro di muratore. “Un muro è fatto allo stesso modo in cui è fatto il mondo”, dice Ben sul palco di un teatro immaginario. Deve averlo pensato anche Henry, ne sono sicuro. 

Angelo Cennamo

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