L’ETÀ DEL DISINCANTO – Jane Smiley

Dave, il protagonista di The age of grief – in Italia L’età del disincanto con l’editore La Nuova Frontiera e la traduzione di Valentina Muccicchini – sospetta che la moglie lo tradisca. È un sospetto forte, un tarlo, ma lui preferisce non sapere. Questa scelta di negazione non è tanto una forma di codardia quanto una bizzarra strategia di sopravvivenza. Dave incarna l’uomo comune, apparentemente saldo nel suo ruolo di marito e di padre, ma profondamente turbato da un dubbio insostenibile. Ma è solo un dubbio?
La narrazione si sviluppa attorno a un microcosmo familiare in cui ogni personaggio riflette un diverso modo di affrontare la frattura interiore. La moglie di Dave, con la sua complessità emotiva e i suoi segreti, appare come figura ambivalente: traditrice e al contempo vittima delle proprie inquietudini e insoddisfazioni. Le tre figlie, ognuna con il proprio carattere e le proprie dinamiche relazionali, aggiungono profondità alla storia – brevissima, poco più di cento pagine – mostrando come il tradimento e il silenzio possono riflettersi sulle generazioni più giovani, in modi a volte sottili, a volte esplosivi. Jane Smiley, premio Pulitzer con Erediterai la terra, racconta la storia con la voce di Dave. I dialoghi sono spesso scarni, caricati di silenzi e significati celati. La scelta di Dave di ignorare ciò che percepisce si fa metafora di una più ampia condizione umana: il conflitto tra la necessità di verità e il bisogno di protezione emotiva. In questo senso, L’età del disincanto ricorda certi romanzi di Richard Yates e John Updike.
Angelo Cennamo

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ESTASI AMERICANA – CJ Leede

American Rapture di CJ Leede – in Italia Estasi Americana con l’editore Mercurio e la traduzione di Gaja Cenciarelli – è un’opera disturbante, iperbolica, che si colloca al crocevia tra l’horror corporeo e il romanzo di formazione, e che si offre come riflessione profonda sull’identità, la fede, il desiderio e la violenza sistemica dell’educazione religiosa in America, in particolare nel Midwest rurale. Ambientato in una provincia americana dominata dal cattolicesimo più rigido e da un’etica puritana che sopravvive nei dettagli quotidiani, il romanzo segue la sedicenne Sophie Allen, cresciuta in una famiglia iper-religiosa e repressiva del Wisconsin. La sua vita è definita da un codice morale ossessivo, dove il corpo è visto come sede del peccato, la sessualità femminile come minaccia

“La bellezza è pericolosa. È una tentazione e un peccato, bisogna nasconderla, fingere che non esista, per sicurezza, per decenza, per la grazia di Dio. La bellezza delle donne attira l’oscurità. È l’oscurità”.  

Il romanzo si apre su un’America colpita da un virus chiamato Sylvia, che provoca negli infetti un’esplosione di desiderio erotico incontrollabile, con derive omicide. Ma questa pandemia, più che una minaccia esterna, diventa allegoria del desiderio represso, della carnalità bandita da un’educazione violenta e colpevolizzante, e della furia che esplode quando il corpo, per troppo tempo negato, si riprende i suoi diritti. L’educazione ricevuta da Sophie non è solo religiosa: è una pedagogia del controllo e della paura, radicata in una visione patriarcale e binaria di una borghesia bigotta. Leede coglie con precisione il peso di una certa cultura del Midwest, dove la religione si intreccia a un senso di ordine, di pulizia morale e di rigida separazione tra il giusto e il peccato, e dove ogni deviazione – sessuale, identitaria, persino affettiva – è motivo di condanna e di rifiuto. Questo emerge con crudezza nel rapporto tra Sophie e suo fratello gemello Noah, espulso dalla famiglia e dall’intera comunità perché gay. La loro relazione, seppur interrotta, resta il cuore segreto del romanzo: Noah rappresenta l’assenza, ma anche la possibilità di un mondo altro, dove la libertà non è necessariamente dissoluzione, e dove l’amore non è peccato ma resistenza.

Dopo che i genitori vengono infettati e la casa si trasforma in un inferno domestico, Sophie fugge: inizia così un viaggio tra città deserte, rifugi improvvisati e comunità violente, durante il quale la ragazza incontra figure che mettono in discussione tutto ciò che le è stato insegnato. Maro, Cleo, Ben: ognuno di questi personaggi rappresenta un modo diverso di affrontare l’alterità, il trauma e la sopravvivenza. In questo itinerario, che è insieme geografico e psichico, Sophie scopre che il desiderio non è malattia ma linguaggio, che il corpo è memoria e arma, e che la religione può essere una forma di violenza quanto una maschera per il potere. Il virus, così, non è solo una minaccia biologica, ma il detonatore simbolico di un’esplosione identitaria: Sylvia agisce come uno specchio oscuro che riflette ciò che la società ha nascosto sotto il tappeto per decenni (sesso, rabbia, ribellione, vergogna). Dopo Maeve, il romanzo di esordio, CJ Leede si conferma una delle voci più interessanti ed estreme dell’horror contemporaneo. “L’horror – scrive Leede nella postfazione del romanzo – guarda negli occhi l’oscurità. Danza con l’assenza, la perdita”. Estasi Americana è un manuale di sopravvivenza alla morte delle persone e degli animali cari. Ogni frase di Leede sembra affondare nella carne viva dei suoi personaggi, mettendo a nudo paure ancestrali e desideri inesprimibili. Leede alterna la crudezza della narrazione horror – corpi che mutano, violenze apocalittiche, visioni da incubo – a passaggi intensamente introspettivi, dove il dolore e la spiritualità si fondono, suggerendo una forma di redenzione possibile solo nel caos. In questo equilibrio tra ferocia e grazia, Leede richiama due nomi cruciali della narrativa americana, appartenenti a generazioni diverse: Stephen King e Tiffany McDaniel. Da King, Leede eredita la capacità di trasformare l’orrore in specchio sociale. Come il maestro del Maine, Leede non racconta solo mostri o epidemie: racconta l’America, quella più marginale e in crisi. Alla maniera di McDaniel, Leede esplora il trauma, il significato della fede, e dell’isolamento. Da questo punto di vista, Estasi Americana è molto più di un romanzo horror: è un testo che si muove tra diversi generi e sensibilità attraverso un linguaggio feroce e brioso, che alterna immagini cupe, visioni mistiche e squarci di profonda umanità. La narrazione in prima persona filtra l’intera storia attraverso la coscienza di Sophie, rendendo tangibile il suo smarrimento, la fame di amore, il bisogno di comprendere e ricostruire se stessa. In un’America devastata non solo dalla pandemia ma dal fondamentalismo, dal sessismo e dalla solitudine, Estasi Americana non offre salvezza, ma suggerisce che nella consapevolezza del proprio corpo, nella forza dei legami autentici e nella distruzione dei dogmi, si può trovare una nuova forma di verità. È un romanzo che lacera e illumina, un grido di libertà sepolto sotto secoli di colpa e di repressione.

Angelo Cennamo

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BIG TIME – Jordan Prosser

Big Time, esordio narrativo dello scrittore e regista australiano Jordan Prosser – in Italia con Mattioli 1885 e la traduzione di Seba Pezzani – è prima di tutto un romanzo sul tempo: su come lo percepiamo, lo temiamo, lo desideriamo cambiare. Se in superficie la storia si muove entro i confini riconoscibili di una distopia musicale, un’Australia futura in cui la cultura è censurata e la musica bandita, al centro pulsante del racconto si agita una domanda più ampia, quasi metafisica: che cosa accade quando il tempo smette di essere una linea continua e si trasforma in uno spazio abitabile, invadibile, riscrivibile? La vicenda ruota attorno a Julian Ferryman, bassista della band The Acceptables, impegnato con i suoi compagni in un tour surreale per promuovere il loro secondo album in un territorio dove le note sono considerate sovversive. Ma ciò che dà al romanzo il suo taglio più radicale è l’introduzione della sostanza “F”, una droga sperimentale che permette a chi la assume di vedere frammenti del proprio futuro. Non visioni mistiche, ma flash spietati, concreti, privi di interpretazione: ciò che sarà, semplicemente. L’effetto è dirompente. I personaggi iniziano a vivere come se il futuro li stesse osservando, correggendo, consumando. Prosser fa di questo espediente narrativo un motore concettuale potentissimo. Il tempo diventa una trappola: sapere ciò che accadrà toglie significato alle scelte, ma ignorarlo rende ogni decisione cieca. È qui che il romanzo si fa davvero inquietante: mostra come il futuro, lungi dall’essere una promessa, può diventare un peso insopportabile. Le relazioni tra i protagonisti si sfaldano sotto la pressione di ciò che “saranno”, e il presente diventa solo un passaggio obbligato verso una fine già scritta. In questo senso, Big Time non è solo una riflessione sul divenire ma sul determinismo, sull’illusione della libertà, sulla fragile architettura delle nostre vite. Nel corso della storia, la traiettoria personale di Julian si intreccia con una realtà che sembra sfaldarsi sotto il peso di anomalie temporali e coincidenze estreme, eventi inspiegabili che incrinano l’ordine apparente delle cose. Partite di calcio replicate al dettaglio a distanza di decenni, pazienti terminali che riferiscono esperienze comuni dell’aldilà, sincronismi inquietanti che sfuggono alla logica causale: tutto sembra suggerire che il tempo stia collassando su se stesso, che abbia perso la propria direzione. Non c’è più progresso, né passato riconoscibile: tutto si ripete, si annoda, come se il mondo stesse vivendo l’eco di se stesso. Julian è una figura chiave in un racconto dove il presente che si dilata diventa un campo di tensione. Il suo agire, l’assunzione della droga, la partecipazione alla produzione dell’album, la ricerca di senso nelle sue visioni, contribuisce, direttamente o indirettamente, a precipitare nell’instabilità. Il punto di non ritorno non è segnato da un evento politico o una rivolta, ma dalla convergenza tra arte, corpo e percezione temporale. Julian, che all’inizio pare solo un individuo smarrito in una realtà distorta, diventa progressivamente il nodo centrale di un paradosso: è spettatore di una fine che, forse, ha contribuito ad accelerare. Le coincidenze estreme sono allora sintomi e segnali, ma anche domande aperte: cosa succede quando la cultura viene usata per cancellare il futuro? Prosser lascia Julian sospeso in questa frattura, non come eroe o martire, ma come residuo umano di un presente che implode su se stesso.

Angelo Cennamo





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PORTNOY – Philip Roth

1969. L’America non si è ancora ripresa dagli assassinii dei fratelli Kennedy e Martin Luther King – James Ellroy, Don DeLillo e Stephen King ne hanno tirato su un bel po’ di libri. Philip Roth pubblica il romanzo della consacrazione dopo le buone prove di Goodbye, Columbus, Lasciar andare e Quando lei era buona. L’invenzione di Nathan Zuckerman arriverà qualche anno più tardi, ma il gioco della simulazione si vede già: Portnoy è Roth, e il padre assicuratore di Portnoy è Herman Roth, il padre di Philip che più avanti sarà coprotagonista in Patrimonio. 

È la stagione del figlio, quella in cui Roth  interpreta il ruolo che gli riesce meglio, quella del contestatore, del ribelle. Nella finzione, il romanzo è Carnovsky, l’opera blasfema che farà infuriare la comunità ebraica e morire di crepacupre il padre di Zuckerman. Alex Portnoy è un trentatreenne piccolo borghese, con un impiego dignitoso al Comune di New York. È lì, sdraiato sul lettino del suo psicanalista a raccontare i tic e le nevrosi che lo accompagnano dall’infanzia. Tutto il libro è un lamento, vorticoso, incessante, comico, esilarante. Il 16 maggio il monologo di Roth torna in libreria con l’editore Adelphi, la nuova traduzione di Matteo Codignola e un titolo che fa storcere il naso ai puristi: semplicemente “Portnoy”. La versione di Adelphi / Codignola sarà una buona occasione per rileggerlo come se fosse la prima volta. Non si può smettere di leggere Roth, è come fare il tagliando all’automobile o le analisi del sangue. Certi libri ci danno il senso della distanza e della vicinanza alla storia, a un luogo, in questo caso a un modo di sentire e di vedere il mondo. L’uomo sul lettino racconta i conflitti con il padre, ebreo come lui, ma Alex non vuole esserlo (non vuole credere nel dio di Abramo, in nessun altro dio); l’odio-amore-incestuoso per la madre, ossessionata dall’ordine e dall’igiene (padre e madre sono “I più eminenti produttori e confezionatori di colpevolezza dei nostri tempi”); la misoginia che lo fa scappare dalle donne e dal matrimonio –Scimmia è il nomignolo affibbiato alla fidanzata ninfomane, gretta, ignorante, che fa sesso orale mentre lui declama poesie di Yeats. L’onanismo compulsivo della prima adolescenza – il dialogo tra lui, chiuso in bagno, e i genitori preoccupati per la sua finta diarrea – è una delle scene più divertenti del romanzo. Non aspettatevi il Roth più riflessivo, acuto della piena maturità, quello de La macchia umana, di Pastorale o Sabbath: lasciatevi andare. Il flusso lamentoso di Portnoy ci porta alla verbosità inarrestabile di un altro sconclusionato della letteratura americana, al giovane Holden di Salinger, il ragazzaccio mezzo matto che deve annunciare ai suoi genitori di essere stato cacciato dal liceo. Di fatto, Portnoy ne è il sequel: Portnoy è Holden Caulfield da adulto. La storia di Caulfield si conclude in una clinica psichiatrica, quella di Alex Portnoy ha come unica ambientazione lo studio del suo psicanalista. Disperati, erotici, stomp.

Angelo Cennamo

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GALVESTON – Nic Pizzolatto

Nic Pizzolatto è originario di New Orleans. A molti di voi il suo nome non suonerà familiare, ma se dico True detective? Galvestone, il suo primo romanzo, risale 2010. In Italia fu pubblicato la prima volta da Mondadori, in questi giorni è ritornato in libreria con minimum fax e la traduzione di Giuseppe Manuel Brescia. 

È il 1987. Roy Cady, soprannominato Big Country, è un quarantenne texano, alcolizzato. Si guadagna da vivere riscuotendo debiti e ammazzando persone per conto di un boss mafioso chiamato Stan Ptitko. Roy ha due grossi problemi: la sua fidanzata lo tradisce col boss; il medico gli ha diagnosticato un cancro ai polmoni. Quando Stan organizza un’imboscata per farlo fuori, a morire sono i suoi sicari, mentre Roy e una prostituta adolescente, Raquel (Rocky) Arceneaux, sopravvivono e fuggono insieme dalla Louisiana verso il Texas. Rocky è una ragazza inesperta e poco  coraggiosa. Come Roy, viene dal Texas orientale, un “mondo ondulato di kudzu, alberi scheletrici e di acque buie” che “sembrava significare qualcosa per lei, come significava qualcosa per me… Il paesaggio aveva una gravità che ci riportava indietro nel tempo, ci possedeva con le persone che eravamo stati”. Rocky prova a sedurre Roy, Roy le resiste. Ma quanto durerà questo giochino? I due raccolgono una terza compagna: Tiffany, la sorellina di Rocky, di tre anni, che Rocky libera da un patrigno lurido minacciandolo con una pistola. I tre giungono all’Emerald Shores, un motel sulla strada a pochi isolati dalla spiaggia di Galveston. Lì si uniscono a un gruppo di disadattati, come i protagonisti anime perse, in fuga dalla rovina, unite da una fragilità comune e da una vaga speranza di redenzione “Tutte le persone deboli condividono un’ossessione di base: si fissano sull’idea della soddisfazione”. 

Di stereotipi ne incontrerete tanti, leggendo il libro: la fuga, la solitudine, il confronto generazionale, l’amore impossibile, la vita e la morte che si toccano, la sconfitta, lo squallore, ma Pizzolatto è bravo a non cascarci dentro, e a tenere in apprensione i lettori sul finale della storia. Galveston è un noir come Dio comanda. La spiaggia di Pizzolatto ricorda la San Diego di Don Winslow: mancano le tavole del surf ma c’è tutto il resto.  

Angelo Cennamo

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