LE CORREZIONI – Jonathan Franzen

Vent’anni dopo la mia prima lettura, ho ripreso Le correzioni di Jonathan Franzen durante l’ultima, incandescente settimana di luglio, rintanato in casa con l’aria condizionata a palla. L’intento iniziale era scrivere un pezzo intorno a una domanda solo in apparenza semplice: siamo finalmente riusciti a liberarci del clamore che accompagnò l’uscita del romanzo all’alba del XXI secolo? Man mano che avanzo nella rilettura, però, si è fatto strada un altro interrogativo, più urgente e sottilmente provocatorio: quale spazio/considerazione si è ritagliato il romanzo comico nella narrativa contemporanea? Un quesito che si impone con forza proprio nel caso de Le correzioni, romanzo tra i più osannati e divisivi della modernità recente, capace di affrontare il collasso affettivo e culturale di una famiglia americana con uno sguardo insieme tragico e irresistibilmente ironico. Uscito il 1° settembre del 2001, appena dieci giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, il romanzo si è trovato a incarnare, quasi involontariamente, una cesura epocale. In un mondo che da lì a poco avrebbe riscritto le proprie narrazioni collettive, Le correzioni è parso fin da subito un libro-sismografo, capace di registrare le crepe già presenti nel tessuto sociale e psicologico dell’America post-Clinton: la disintegrazione del sogno borghese suburbano, la fragilità della famiglia nucleare, il tramonto dell’autorità maschile, la dissoluzione dei legami emotivi. Non sorprende che la stampa statunitense lo abbia accolto come “il Grande Romanzo Americano” dell’era postmoderna: non tanto per un’ambizione enciclopedica alla DeLillo o alla Pynchon, quanto per la capacità di restituire, con chirurgica precisione, il crollo di un ordine interiore più ancora che storico.

Al centro della storia – lo dico a beneficio dei pochi che non lo hanno (ancora) letto – troviamo i Lambert, famiglia del Midwest alle prese con una lenta e inesorabile disgregazione. Alfred, il patriarca, è un ingegnere ferroviario in pensione, simbolo vivente dell’ideologia del controllo e della razionalità, ormai divorato dal Parkinson e dalla demenza. Le sue allucinazioni — su tutte, la celebre scena del dialogo con feci animate — sono un vertice di grottesco psicologico: disturbanti e al tempo stesso toccanti, rivelano quanto fragile sia l’illusione del dominio di sé. La moglie Enid, ossessionata da una normalità borghese fatta di rituali vuoti e nevrosi domestiche, proietta nella cena di Natale un’impossibile restaurazione dell’armonia familiare. Ma i figli sono altrove, ognuno naufrago nel proprio fallimento: Gary, il primogenito, lotta con una depressione mascherata da efficienza e benessere; Denise, chef di talento, cerca di dare forma a un’identità sessuale ancora irrisolta; Chip, il più intellettuale, vede sfaldarsi ogni ambizione accademica, finendo in una farsesca, e profetica, vicenda di truffe finanziarie nell’Europa dell’Est. Eppure, nonostante l’impianto tragico, Le correzioni lo trovo un romanzo profondamente comico. Un aspetto troppo spesso trascurato, o relegato a mero “sollievo” narrativo, e che invece costituisce la chiave per comprendere l’unicità dell’opera. Il riso, in Franzen, non è mai evasione ma strumento di precisione morale: una lama sottile che incide le idiosincrasie linguistiche, i tic sociali, gli automatismi relazionali. La sua comicità, ereditata da autori come Saul Bellow e Philip Roth, è impastata di malinconia e di un’ironia corrosiva che scaturisce dall’osservazione spietata della borghesia americana, colta nel momento esatto in cui le sue finzioni iniziano a crollare. Quella di Franzen è una satira morale che non si compiace mai della distruzione. Non c’è cinismo nelle sue pagine, ma una compassione severa, un’attenzione umanissima per le contraddizioni dei suoi personaggi. In questo senso, Le correzioni rappresenta una scommessa riuscita: quella di fondere l’ambizione totalizzante del grande romanzo realistico con l’intimità psicologica del racconto domestico, trovando nel quotidiano una risonanza universale. È una delle ragioni per cui, nonostante l’evoluzione dei linguaggi letterari, tra autofiction, memoir e scritture ibride, il romanzo di Franzen conserva ancora oggi una sorprendente vitalità. Rileggere oggi Le correzioni significa confrontarsi con un’America diversa ma per certi versi ancora simile a quella rappresentata nel romanzo: le stesse fratture familiari, lo stesso senso di alienazione affettiva, la stessa precarietà identitaria. Temi che appaiono se possibile ancora più urgenti. Ed è forse proprio in questo che risiede l’attualità dell’opera: nella sua capacità di ridere del disastro senza mai banalizzarlo, di riconoscere nel dolore un fondo comune e condiviso, e nel riso una forma suprema di lucidità.

Angelo Cennamo

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LEGS – William Kennedy

Jack «Legs» Diamond è molte cose, troppe per essere un uomo solo. È un gangster e un eroe popolare, un marito devoto e un amante insaziabile, un ballerino elegante e un assassino spietato. È il volto contraddittorio di un’America che sogna e sanguina, l’emblema vivente di un mito che affascina e corrode. Sopravvissuto a rapimenti e imboscate, a una dozzina di pallottole e a fughe rocambolesche (l’uomo più crivellato d’America, scrisse il Mirror) Legs incarna un’epoca, ma anche una condizione esistenziale: quella di chi vive al limite, tra gloria e rovina. Il romanzo di William Kennedy – pubblicato negli Usa nel 1975 e oggi riproposto in una nuova edizione da minimum fax, che conserva la traduzione di Attilio Veraldi anche se “considerevolmente riveduta e corretta” – non è soltanto il racconto della vita di un gangster, è una riflessione struggente e romanzata sulla costruzione del mito americano e sulla sua inevitabile caduta. Attraverso lo sguardo di Marcus Gorman, avvocato ambiguo e complice morale del protagonista, Kennedy ci guida tra le luci artificiali del Kenmore, nightclub newyorkese simbolo di un’epoca, e le strade oscure di Albany, città natale dell’autore e teatro prediletto della sua “Trilogia di Albany”, di cui Legs costituisce il primo atto. Seguiranno L’ultima scommessa di Billy Phelan e il più noto Ironweed, romanzo vincitore del Pulitzer, trasposto da Héctor Babenco in un film senza successo con Jack Nicholson e Meryl Streep. Ma se Ironweed è una discesa nel mondo dei reietti, Legs è il racconto dell’ascesa e della rovina di un uomo che diventa leggenda, e della leggenda che finisce per distruggere l’uomo.

Cuore pulsante del romanzo non è solo Jack ma anche le due donne che gravitano attorno a lui: Alice Diamond, la moglie, e Kiki Roberts, l’amante. Lontane dall’essere semplici comparse, Alice e Kiki rappresentano due volti complementari della femminilità, soprattutto due riflessi dell’anima tormentata del protagonista. Alice è la moglie devota, presenza silenziosa e discreta, simbolo di una normalità ormai compromessa, l’unico legame autentico con una vita stabile, la promessa di un’esistenza diversa, forse più giusta. L’amore cieco di Alice tuttavia non salva Jack, ma lo accompagna nella discesa, diventando l’orma di una rispettabilità corrotta, della casa che non è più rifugio, ma prigione. All’opposto, Kiki è la giovinezza, la seduzione, l’effimero. È la donna moderna, disinvolta, attratta più dalla fama che dall’uomo. Con lei Jack vive l’illusione della libertà, il brivido della trasgressione, ma anche l’eco della propria rovina. Kiki non ama davvero: riflette il fascino passeggero del potere e del successo, alimenta il narcisismo di Jack ma ne rivela anche la fragilità. Se Alice è il passato, la redenzione mancata, Kiki è il presente dissoluto, la caduta inarrestabile. Kennedy costruisce con maestria questo contrasto, dando a entrambe le donne uno spessore iconografico che va oltre il triangolo amoroso. Alice e Kiki sono le due anime dell’America degli anni Trenta: una realtà spaccata tra il sogno domestico e la frenesia dell’eccesso, tra il bisogno di ordine e il fascino del disordine. Entrambe, in modi diversi, sono vittime e specchi del sogno americano deformato. E proprio attraverso il loro sguardo, Legs appare per ciò che è: un uomo lacerato, incapace di scegliere, consumato dalla sua stessa leggenda. Kennedy, giornalista, drammaturgo e romanziere nato ad Albany nel 1928, racconta tutto questo e molto altro con uno stile denso, ritmato, e ricco di suggestioni cinematografiche. Il suo Legs non è una biografia convenzionale, ma un’opera di finzione che interroga continuamente la realtà e che, anticipando autori come James Ellroy e Don Winslow, mescola noir e romanzo storico con una voce unica, malinconica, spigolosa e con una componente dialogica dominante. In un’epoca in cui il gangster diventa archetipo narrativo – siamo nel tempo de Il padrino di Coppola, un decennio più tardi arriverà C’era una volta in America di Sergio Leone – Kennedy offre un ritratto che sfugge alla retorica del criminale romantico. Il suo Legs è una figura impossibile, un’anima che si dibatte tra luce e tenebra, tra potere e dannazione. A mio avviso, il miracolo di Kennedy sta proprio qui: nel raccontare una leggenda senza mai celebrarla, ma scavando con compassione nelle sue crepe, mettendo a nudo l’uomo che il mito ha divorato.

Angelo Cennamo

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BAD LANDS – Oakley Hall

Con Bad Lands, pubblicato in Italia da Sur e tradotto come Warlock da Tommaso Pincio, Oakley Hall si misura ancora una volta con il mito fondativo dell’America, ma scegliendo questa volta di collocarsi in una posizione più defilata, laterale, rispetto ai canoni classici del western. Ambientato nel Dakota settentrionale alla fine del XIX secolo, il romanzo abbandona i codici epici della conquista per inoltrarsi nei territori meno esplorati della disgregazione storica. In questo senso, Bad Lands si configura come un’opera liminale e profondamente critica, capace di sovvertire le convenzioni del genere per offrire una riflessione acuta e politicamente consapevole sulla crisi della frontiera. La narrazione prende le mosse da Andrew Livingston, ex banchiere dell’Est segnato da un lutto familiare e dalla necessità di fuggire dal passato. La sua scelta di stabilirsi nelle Bad Lands, territorio marginale, aspra soglia tra civiltà e barbarie, non è animata da ideali eroici né da spirito pionieristico, ma dal bisogno di dimenticare, dalla volontà di svanire. Livingston è un uomo colto, educato, apparentemente inadatto a un mondo dominato dalla forza bruta, e proprio per questo si offre come specchio critico del sistema in cui lentamente si trova invischiato. Il suo percorso da osservatore esterno a complice di dinamiche di potere, espropriazione e violenza, rappresenta una delle trasformazioni centrali del romanzo, un lento ma inesorabile scivolamento verso la compromissione. La scelta di Hall di ambientare la storia in una terra contesa, sfibrata da rivalità locali, ambizioni predatorie e tensioni irrisolte, traduce in chiave narrativa l’implosione del progetto americano della frontiera. Non c’è più spazio per la retorica della conquista: il West che ci viene restituito è un paesaggio morale in rovina, dove ogni atto ha un peso sproporzionato rispetto alla volontà di chi lo compie, e dove la legge è fragile, spesso mera finzione. Attorno al protagonista si muove un cast di personaggi che incarnano, in forme complesse e antitetiche, le forze in campo in questa fase terminale della mitologia western. Lord Machray, aristocratico scozzese megalomane, è la personificazione del colonialismo economico e del capitalismo agrario emergente. Deciso a costruire un impero bovino nelle Bad Lands, Machray incarna un’idea autoritaria e verticale di civiltà: recintare il selvaggio, disciplinare lo spazio, monetizzare la terra. Hall lo tratteggia con lucidità, senza scivolare nella caricatura, come figura intellettualmente lucida e spietata, emblema di un potere moderno che non ha più bisogno di mascherare la propria violenza dietro ideali romantici. In questo, Machray è la naturale evoluzione dei baroni del bestiame, dei magnati della Gilded Age, che secondo la lezione di Richard White o di Patricia Nelson Limerick, sono i veri “conquistatori” della frontiera, non i pionieri. Mary Hardy, al contrario, è una figura dolente e lirica, ma tutt’altro che passiva. Giovane musicista dal corpo segnato e dall’anima tormentata, Mary resiste al degrado circostante grazie alla musica e a una forma di interiorità silenziosa e tragica. Il suo rapporto con Livingston fatto di tenerezza inappagata, prossimità emotiva e di vorrei ma non posso, esprime il fallimento dell’intimità in un mondo in cui ogni relazione è compromessa, ogni legame esposto alla corrosione del potere. Ma è forse Cora Benbow, tenutaria del bordello di Pyramid City, a rappresentare il vero baricentro morale del romanzo. Figura forte, strategica, mai riducibile allo stereotipo della seduttrice o della vittima, Cora incarna un potere femminile fondato sulla scaltrezza e sulla capacità di leggere e manipolare le dinamiche sociali senza esporsi direttamente. Il suo legame con Machray, fatto di desiderio e calcolo, riassume il nucleo ambivalente del romanzo: la tensione costante tra autenticità e controllo, tra bisogno di relazione e necessità di dominare. In lei vive una forma di potere sotterraneo, ma estremamente efficace, che Hall tratteggia con rara finezza psicologica. Accanto a questi poli, si stagliano figure secondarie che arricchiscono il quadro etico e politico dell’opera. Bill Driggs, rancher brutale e privo di scrupoli, incarna la degenerazione ultima del pioniere: non più eroe ma predatore, figura terminale di un capitalismo che ha perduto qualsiasi significato ideale. Jake Boutelle, ex attivista populista oggi stanco e corrotto, è invece l’eco malinconica di un’America che ha tradito se stessa: la sua decadenza personale riflette quella collettiva di un paese che ha smarrito il senso della propria promessa originaria. Lo stile di Hall, sobrio e privo di retorica, richiama autori come Cormac McCarthy o Kent Haruf nella sua capacità di dare spessore emotivo e politico anche al dettaglio più quotidiano. Il paesaggio delle Bad Lands: erosivo, friabile, instabile, è il riflesso di un’America che non riesce più a stabilizzarsi, che implode sotto il peso delle proprie contraddizioni. In tal senso, Bad Lands si inserisce in quella tradizione del western revisionista che da The Ox-Bow Incident di Walter Van Tilburg Clark a Little Big Man di Thomas Berger ha cercato di decostruire il mito della frontiera per restituirne la complessità storica e morale. Senza offrire consolazioni o nostalgie, Hall ci consegna piuttosto un romanzo del disincanto, un’indagine spietata sulle ferite della modernità americana. In questo West ormai privo di eroi, nessuno si salva del tutto, ma ogni personaggio contribuisce a illuminare, con dolorosa chiarezza, le ambiguità del presente. Bad Lands non celebra un mito: lo interroga, lo scarnifica, lo espone alla luce cruda della storia. E in questo gesto critico risiede la sua più autentica potenza letteraria.

Angelo Cennamo

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L’EDUCATORE – Antonio Lanzetta

“Il passato non si lascia mai seppellire per davvero; torna sempre, con la sua camminata lenta e le unghie sporche di terra.” È su questa inquietudine che si apre L’Educatore, il nuovo romanzo di Antonio Lanzetta, autore salernitano che ritorna con il libro più radicato nella sua città e al tempo stesso più ambizioso per la profondità dei temi trattati. Il giudice Borrelli viene ritrovato morto nella sua auto, parcheggiata nel cortile della villa a Raito. Sul volto un’espressione di sorpresa, come se la morte fosse arrivata improvvisa, ma non casuale. L’arma del delitto è una sparachiodi; un’esecuzione brutale, chirurgica, carica di simboli. All’interno dell’abitacolo, tracciata con un gessetto bianco, compare una sequenza di numeri, apparentemente priva di senso. A indagare è il vicequestore Fausto De Santis, un uomo tormentato, con una ferita aperta nell’anima: anni prima Fausto ha perso suo figlio, ucciso da un serial killer conosciuto come l’Educatore. Da allora, De Santis ha trasformanto la rettitudine e l’etica professionale in una specie di rifugio, l’unico possibile per non soccombere alla devastazione mentale. Di tanto in tanto, De Santis lo rivede e parla con lui come Rocco Schiavone di Manzini con la moglie Marina. Accanto a De Santis c’è l’ispettrice Ferri, collega leale e lucida, in un’indagine che presto si trasforma in qualcosa di più grande: un ritorno al passato, una spirale di violenza che sembra emergere da un tempo sepolto e ora risvegliato. I numeri riappaiono accanto ad altre vittime come un’impronta ricorrente. Tutto sembra condurre a un caso archiviato alla fine degli anni Novanta, a un assassino ritenuto morto, a una storia che forse non si è mai davvero conclusa. È possibile che l’Educatore sia tornato? O che qualcuno stia replicando il suo metodo? Il romanzo si apre con De Santis che salva un ragazzo dal suicidio: “Ci sono passato anch’io. Oggi sono qui e posso salvare te. Magari un giorno tu farai lo stesso favore a qualcun altro.” Frasi che racchiudono il senso profondo del libro: la memoria come salvezza, la trasmissione del dolore che diventa cura. L’omicidio Borrelli non è un caso isolato, ma il primo tassello di un mosaico di sangue che attraversa Salerno e la sua provincia, città che Lanzetta racconta con una toponomastica forte, precisa, trasformandola in un luogo narrativo denso e riconoscibile, specialmente per chi come me ci vive. De Santis è costretto a riaprire vecchie ferite e a chiedere l’aiuto di chi, come l’ex collega Lanzara, lo salvò durante una drammatica operazione nel 1999, quando affrontava proprio l’Educatore. Lanzetta intreccia passato e presente, cronaca e psichiatria, memoria e colpa, in un romanzo che è allo stesso tempo poliziesco puro e indagine interiore. Alcune delle sue cifre ricorrenti: l’infanzia spezzata, la malattia mentale, le cicatrici invisibili, riaffiorano anche qui, amplificando l’impatto emotivo della storia. L’Educatore è un poliziesco coraggioso, che si muove lontano dai territori consolidati del crimine organizzato o della storia politica, per esplorare un presente ferito, dolente, ma non privo di umanità. Un crime ben strutturato dall’inizio alla fine (soprattutto alla fine, passaggio sul quale Lanzetta è migliorato molto rispetto ad altri finali forse un po’ frettolosi), e raccontato in una prima persona capace di restituire tutta la complessità di un male che non ha un solo volto e che torna da dove non si pensava più potesse riemergere.

Angelo Cennamo

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