BAD LANDS – Oakley Hall

Con Bad Lands, pubblicato in Italia da Sur e tradotto come Warlock da Tommaso Pincio, Oakley Hall si misura ancora una volta con il mito fondativo dell’America, ma scegliendo questa volta di collocarsi in una posizione più defilata, laterale, rispetto ai canoni classici del western. Ambientato nel Dakota settentrionale alla fine del XIX secolo, il romanzo abbandona i codici epici della conquista per inoltrarsi nei territori meno esplorati della disgregazione storica. In questo senso, Bad Lands si configura come un’opera liminale e profondamente critica, capace di sovvertire le convenzioni del genere per offrire una riflessione acuta e politicamente consapevole sulla crisi della frontiera. La narrazione prende le mosse da Andrew Livingston, ex banchiere dell’Est segnato da un lutto familiare e dalla necessità di fuggire dal passato. La sua scelta di stabilirsi nelle Bad Lands, territorio marginale, aspra soglia tra civiltà e barbarie, non è animata da ideali eroici né da spirito pionieristico, ma dal bisogno di dimenticare, dalla volontà di svanire. Livingston è un uomo colto, educato, apparentemente inadatto a un mondo dominato dalla forza bruta, e proprio per questo si offre come specchio critico del sistema in cui lentamente si trova invischiato. Il suo percorso da osservatore esterno a complice di dinamiche di potere, espropriazione e violenza, rappresenta una delle trasformazioni centrali del romanzo, un lento ma inesorabile scivolamento verso la compromissione. La scelta di Hall di ambientare la storia in una terra contesa, sfibrata da rivalità locali, ambizioni predatorie e tensioni irrisolte, traduce in chiave narrativa l’implosione del progetto americano della frontiera. Non c’è più spazio per la retorica della conquista: il West che ci viene restituito è un paesaggio morale in rovina, dove ogni atto ha un peso sproporzionato rispetto alla volontà di chi lo compie, e dove la legge è fragile, spesso mera finzione. Attorno al protagonista si muove un cast di personaggi che incarnano, in forme complesse e antitetiche, le forze in campo in questa fase terminale della mitologia western. Lord Machray, aristocratico scozzese megalomane, è la personificazione del colonialismo economico e del capitalismo agrario emergente. Deciso a costruire un impero bovino nelle Bad Lands, Machray incarna un’idea autoritaria e verticale di civiltà: recintare il selvaggio, disciplinare lo spazio, monetizzare la terra. Hall lo tratteggia con lucidità, senza scivolare nella caricatura, come figura intellettualmente lucida e spietata, emblema di un potere moderno che non ha più bisogno di mascherare la propria violenza dietro ideali romantici. In questo, Machray è la naturale evoluzione dei baroni del bestiame, dei magnati della Gilded Age, che secondo la lezione di Richard White o di Patricia Nelson Limerick, sono i veri “conquistatori” della frontiera, non i pionieri. Mary Hardy, al contrario, è una figura dolente e lirica, ma tutt’altro che passiva. Giovane musicista dal corpo segnato e dall’anima tormentata, Mary resiste al degrado circostante grazie alla musica e a una forma di interiorità silenziosa e tragica. Il suo rapporto con Livingston fatto di tenerezza inappagata, prossimità emotiva e di vorrei ma non posso, esprime il fallimento dell’intimità in un mondo in cui ogni relazione è compromessa, ogni legame esposto alla corrosione del potere. Ma è forse Cora Benbow, tenutaria del bordello di Pyramid City, a rappresentare il vero baricentro morale del romanzo. Figura forte, strategica, mai riducibile allo stereotipo della seduttrice o della vittima, Cora incarna un potere femminile fondato sulla scaltrezza e sulla capacità di leggere e manipolare le dinamiche sociali senza esporsi direttamente. Il suo legame con Machray, fatto di desiderio e calcolo, riassume il nucleo ambivalente del romanzo: la tensione costante tra autenticità e controllo, tra bisogno di relazione e necessità di dominare. In lei vive una forma di potere sotterraneo, ma estremamente efficace, che Hall tratteggia con rara finezza psicologica. Accanto a questi poli, si stagliano figure secondarie che arricchiscono il quadro etico e politico dell’opera. Bill Driggs, rancher brutale e privo di scrupoli, incarna la degenerazione ultima del pioniere: non più eroe ma predatore, figura terminale di un capitalismo che ha perduto qualsiasi significato ideale. Jake Boutelle, ex attivista populista oggi stanco e corrotto, è invece l’eco malinconica di un’America che ha tradito se stessa: la sua decadenza personale riflette quella collettiva di un paese che ha smarrito il senso della propria promessa originaria. Lo stile di Hall, sobrio e privo di retorica, richiama autori come Cormac McCarthy o Kent Haruf nella sua capacità di dare spessore emotivo e politico anche al dettaglio più quotidiano. Il paesaggio delle Bad Lands: erosivo, friabile, instabile, è il riflesso di un’America che non riesce più a stabilizzarsi, che implode sotto il peso delle proprie contraddizioni. In tal senso, Bad Lands si inserisce in quella tradizione del western revisionista che da The Ox-Bow Incident di Walter Van Tilburg Clark a Little Big Man di Thomas Berger ha cercato di decostruire il mito della frontiera per restituirne la complessità storica e morale. Senza offrire consolazioni o nostalgie, Hall ci consegna piuttosto un romanzo del disincanto, un’indagine spietata sulle ferite della modernità americana. In questo West ormai privo di eroi, nessuno si salva del tutto, ma ogni personaggio contribuisce a illuminare, con dolorosa chiarezza, le ambiguità del presente. Bad Lands non celebra un mito: lo interroga, lo scarnifica, lo espone alla luce cruda della storia. E in questo gesto critico risiede la sua più autentica potenza letteraria.

Angelo Cennamo

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