MAO II – Don DeLillo

C’è uno stadio, all’inizio di Mao II. Il prologo è ambientato allo Yankee Stadium, dove si celebrano i matrimoni di massa del reverendo Moon. Seimilacinquecento coppie, abiti uguali, gesti sincronizzati, un solo corpo. La folla si trasforma in coreografia, l’individualità si dissolve nel rituale collettivo. Moon, quasi una figura da incubo escatologico, li libera dal peso del pensiero indipendente. Non devono più scegliere, non devono più essere. Basta esserci: insieme, identici. Sei anni dopo, un altro stadio apre un altro romanzo di DeLillo: è Underworld. Lì la folla assiste a una partita leggendaria, Giants-Dodgers del ’51. Il tono è diverso, più lirico, quasi nostalgico. Ma la struttura è la stessa: il romanzo comincia dove si raduna la massa.In Mao II, però, la folla non è solo una massa passiva: è il segno tangibile di un nuovo ordine. Qui la parola cede il passo all’immagine, la complessità al gesto spettacolare. La figura dello scrittore, un tempo centrale, perde consistenza, si ritrae. Il protagonista, Bill Gray, è uno scrittore che ha scelto il silenzio: da trent’anni non pubblica, non si fa fotografare, non appare in pubblico. Vive nascosto, come Salinger o Pynchon, protetto dal suo anonimato, convinto che la scrittura richieda sottrazione, distanza, oscurità. Eppure, questa invisibilità non lo salva. Anzi, lo espone. È proprio perché non si fa vedere che il mondo lo cerca. La sua assenza diventa più visibile di qualunque presenza. Quando accetta di essere ritratto da Brita, fotografa che cataloga scrittori come se stesse mettendo insieme le reliquie di una specie in via d’estinzione, Gray entra in crisi. Capisce che il gesto della scrittura non basta più a incidere sulla realtà, che il linguaggio ha perso la sua centralità. Il romanzo lo seguirà fino al suo disfacimento, mentre attorno a lui esplodono eventi che sembrano appartenere a un’altra logica: un sequestro in Libano, i funerali di Khomeini, le immagini del massacro di piazza Tienanmen. Storia e terrore, propaganda e televisione, tutto si fonde in un rumore di fondo che cancella l’autore. DeLillo racconta la sparizione dello scrittore con un’intelligenza quasi profetica: Mao II è un romanzo del 1991, ma sembra scritto dopo l’arrivo dei social network. Il reverendo Moon, che solleva i suoi sposi dal peso della volontà, prefigura perfettamente la logica algoritmica che oggi governa le nostre vite digitali. Il feed che ci suggerisce cosa desiderare, chi seguire, cosa leggere. Il meccanismo di adesione collettiva che simula la scelta, ma la rende superflua. La collettività di Mao II non è più quella dei corpi radunati in uno spazio fisico, ma anticipa quella delle piattaforme: folla connessa, ma dispersa; unita, ma impersonale. Un’umanità in cui l’identità viene moltiplicata e appiattita, in cui l’esposizione è totalizzante e al tempo stesso anonima. L’individuo viene meno non per repressione, ma per sovraesposizione. L’autore non è più il creatore di senso, ma una comparsa nel flusso dell’immagine. In questo contesto, Bill Gray è forse l’ultima figura tragica dell’autore moderno. La sua invisibilità, quella scelta, consapevole, diventa oggi un gesto estremo, quasi politico. Ma Mao II non è un’utopia del silenzio. Al contrario, è il riconoscimento che la ritirata non salva, che anche il silenzio è destinato a diventare contenuto. Che l’assenza, nel mondo dei media, è solo un’altra forma di presenza. Non resta allora che accettare il paradosso: la parola è in crisi, ma il romanzo può ancora testimoniarne il crollo. Può ancora mettere in scena ciò che si perde quando l’identità cede alla massa, quando la scrittura viene sostituita dalla condivisione, quando l’autore viene surclassato dall’influencer. Mao II non è solo un romanzo sull’agonia della letteratura: è un romanzo sul mondo prima che venisse conquistato dalle immagini. E sulla solitudine di chi, troppo presto, aveva già capito tutto.

Angelo Cennamo

Standard

LA CONFRATERNITA DELL’UVA – John Fante

Il Midwest di John Fante è l’Abruzzo ereditato dal padre, “quella parte d’Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti”. È nei racconti di Nick, muratore emigrato da Torricella Peligna, che affonda le sue radici tutta la narrativa di Fante. “Sono arrivato in America e ho trovato l’Abruzzo”, dice Svevo Bandini in Aspetta primavera, Bandini. E cosa sono, se non la Majella travestita, le Sierras de La confraternita dell’uva?

“Una sera, lo scorso settembre, telefona mio fratello da San Elmo per informarmi che mamma e papà avevano tirato in ballo un’altra volta la faccenda del divorzio.

– Be’, che c’è di nuovo?

– Stavolta fanno sul serio, – disse Mario”. 

Difficile pensare a un incipit più sobrio e diretto di questo. È John Fante nella sua forma più pura: spoglio, sincero, tagliente. La confraternita dell’uva, pubblicato nel 1977, è forse il suo romanzo più maturo, quello in cui la voce autobiografica trova il giusto equilibrio tra rabbia e affetto, sarcasmo e nostalgia.  

“Me ne sto seduto nella mia stanza piccola e sudicia a succhiarmi il pollice cercando di scrivere un romanzo… La storia di quattro italiani vecchi e ubriaconi di Roseville”, scrive Fante all’amico Carey McWilliams in una lettera datata 25 aprile 1974.  Il risultato è un libro che parla di conflitti generazionali, di emigrazione, di radici, di vino – tanto vino – e del peso tremendo dell’eredità familiare. Al centro, naturalmente, c’è Nick Molise, padre di Henry, alter ego di Fante. Muratore autoproclamatosi “primo scalpellino d’America”, Nick è una figura imponente, a tratti insopportabile, di sicuro indimenticabile. Il classico padre-padrone meridionale, emigrato negli Stati Uniti e sopravvissuto alla fatica, alla povertà, alla frustrazione, a colpi di malta, bestemmie e vino rosso. Odia quasi tutto: la moglie, i figli, la chiesa, lo stato, il paese da cui è partito e quello dove è finito, ma ama visceralmente il suo lavoro e quella manciata di paisà con cui condivide una decadenza ostinata e orgogliosa. Sono loro la “confraternita dell’uva”: vecchi italiani, mezzi sordi e ormai più vicini alla bottiglia che al cantiere, ma ancora capaci di ridere e sbracciarsi come ragazzini. Fante li racconta con feroce tenerezza. Nessuna idealizzazione: questi uomini non sono eroi, né santi, ma caricature che la vita ha scolpito con mano pesante. Eppure, nella loro anarchia, nei silenzi e nei gesti ripetuti, si intravede qualcosa di profondamente umano, di tragico e comico insieme. Il vino, che scorre ovunque nel libro, diventa un simbolo doppio: rito e rifugio, consolazione e condanna. Henry, lo scrittore di successo che ha tagliato i ponti con la famiglia e col passato, torna a San Elmo, il borgo fittizio (ma non troppo) della California che richiama chiaramente le città minerarie dove Fante è cresciuto. Lì si ritrova risucchiato nel teatrino familiare: una madre rassegnata e devota, fratelli minori alla deriva, un padre che lo disprezza perché ha scelto la letteratura anziché il cemento. È una dinamica tutta fantesca: l’arte come tradimento delle origini, la scrittura come fuga e insieme tentativo di riconciliazione. E poi c’è la cucina. Quella stanza calda, odorosa di intingoli e spezie mediterranee, dove la madre di Henry regna come una strega buona. Un santuario domestico che profuma di nostalgia e di identità. È qui che Fante tocca uno dei suoi vertici lirici: nella descrizione dei profumi, dei fornelli come altare, della tavola come cerchio magico. È un passaggio che sembra uscire da un poema familiare più che da un romanzo. Il cuore del libro, però, è il viaggio che Henry intraprende con il padre: un’ultima scalata (letterale e simbolica) sulle Sierras per un lavoro che Nick non ha nessuna intenzione di portare a termine. È in quei giorni che, tra crolli meccanici e silenzi più eloquenti di mille dialoghi, padre e figlio si incontrano davvero per la prima volta. Niente epifanie zuccherose, nessuna redenzione, ma uno spazio di riconoscimento, forse di rispetto reciproco, che fino ad allora era mancato. 

Come dicevo, con La confraternita dell’uva Fante raggiunge un equilibrio raro: racconta il mondo che ha odiato con un amore bruciante. Rifiuta le sue radici mentre ne canta la verità. La lingua è come sempre asciutta, incalzante, con momenti di un umorismo livido che fa ridere mentre morde. Tutta la sua poetica è qui: l’ossessione e la distanza incolmabile con il padre, l’identità diasporica, lo sradicamento, il sogno americano diventato routine. Quando uscì, il romanzo ebbe un successo insolitamente ampio per Fante, fino ad allora poco più che un autore di nicchia, diventato popolare solo con Full of life (“non è un buon romanzo, l’ho scritto per soldi”). Coppola mostrò interesse per una trasposizione cinematografica che però non vide mai la luce. Un anno dopo, ormai cieco per il diabete e con una gamba amputata, Fante dettò alla moglie Joyce Sogni di Bunker Hill (andato in stampa nel 1982), chiudendo così un ciclo esistenziale e letterario. 

Ho sempre considerato La confraternita dell’uva il vero capolavoro di John Fante, più di Chiedi alla polvere, se non altro per la presenza nella trama di Nick, sponda importante per John alias Henry, non solo nella fase dialogica. Lo stesso Fante, sempre a McWilliams, scrive che è “di gran lunga il mio libro migliore”.  È insieme una storia brutale e commovente, capace di scavare nella memoria senza mai indulgere nel sentimentalismo. Fa sorridere e piangere spesso nel giro di poche righe, alternando impeti istintivi a momenti di prosa più riflessiva e misurata. La comparsa dei sintomi del diabete in Nick, gli stessi che qualche anno dopo stroncheranno anche John, assume il tono di una profezia tragica e geniale, a conferma della straordinaria abilità di Fante non solo di raccontare il conflitto ma di identificarsi col padre malato. La confraternita è anche uno dei più bei romanzi americani sul rapporto padre figlio alla stregua di Patrimonio di Philip Roth e La strada di Cormac McCarthy. Rispetto agli altri due ha però qualcosa in più: una grazia sgangherata, un’ironia disperata che trasforma la miseria e la rabbia in epica quotidiana, in un’elegia ubriaca e dissacrante alla famiglia, al fallimento, e al bisogno inestirpabile di tornare a casa.   

Angelo Cennamo

Standard

STATO DI SOGNO – Eric Puchner

Quando lascia Los Angeles per trasferirsi temporaneamente a Salish, una pittoresca cittadina del Montana, Cece è convinta che si tratti solo di una breve parentesi: è lì per organizzare le nozze con Charlie Margolis, giovane cardiologo, nella casa di famiglia affacciata su un lago. Il paesaggio è mozzafiato, l’ambiente sembra idilliaco: frutteti, cespugli di lamponi, pendii montani punteggiati di pini offrono a Cece, cresciuta tra i laghi artificiali della California, un rifugio che somiglia a un paradiso. Sin dall’inizio, però, qualcosa si incrina. Charlie è ancora impegnato con il suo lavoro e incarica Garrett Meek, suo migliore amico dai tempi del college, di aiutare Cece con i preparativi. Garrett, che è un tipo schivo, un po’ ruvido e che dopo aver rinunciato all’università lavora come addetto ai bagagli in aeroporto, è anche la persona scelta da Charlie per celebrare il matrimonio. Cece accetta con riluttanza questa strana idea di Charlie, ma la convivenza forzata con Garrett dà presto origine a un’attrazione inattesa, resa ancora più complessa dai rispettivi passati e fragilità. In Garrett, prese con il padre morente – un artista anarchico, poco presente durante la sua infanzia, e segnato dalla lunga negazione della propria omosessualità – si cela un dolore silenzioso, una malinconia che Cece imparerà a comprendere troppo tardi. Da questo delicato triangolo emotivo prende avvio un romanzo vasto e ambizioso. Dream state di Eric Puchner – in Italia Stato di sogno con l’editore Fazi e la traduzione di Stefano Bortolussi – si apre nel 2004 con una scena di grande bellezza: Cece che si tuffa in un lago cristallino, in mezzo ai monti che fanno da contorno alla spendida cittadina che la ospita. Da questo inizio quasi edenico, Puchner ci conduce attraverso più decenni: muove la storia nel nostro presente e la proietta in un futuro immaginato, seguendo le traiettorie di Cece, Charlie e Garrett, ma anche quelle dei loro figli, e intrecciando queste vite in una narrazione che si inspessisce in corso d’opera. La forza del romanzo non risiede tanto nella risoluzione del triangolo amoroso, che anzi si rivela illusoria, ma nella capacità di Puchner di mostrare come sentimenti, relazioni e scelte si trasformino nel tempo, si complichino e lascino tracce indelebili. Seguendo le pagine del libro, i personaggi invecchiano, cambiano, diventano genitori, e i legami che li uniscono, pur sottili, restano indissolubili. Col passare degli anni, Stato di sogno muta registro: da dramma romantico si trasforma in un’opera corale e struggente. I punti di vista si moltiplicano, includendo le nuove generazioni, nello specifico Jasper e Lana, che diventano specchio, continuazione e distorsione delle vite dei loro genitori. Le loro esperienze raccontano l’eredità emotiva e psicologica che si trasmette da una generazione all’altra, mettendo in discussione l’idea stessa di libero arbitrio. Per chi è nato negli anni Duemila, la libertà di scegliere sembra sempre più limitata, condizionata da un mondo incerto, dal cambiamento climatico, dall’insicurezza globale. Nel capitolo finale, particolarmente toccante, Puchner ci riporta all’origine della storia, rivelando come le vite dei protagonisti siano state modellate da scelte, casualità e promesse mancate. È una chiusura che amplifica la malinconia e la bellezza del romanzo: non solo per la giovinezza perduta, ma per quella giovinezza carica di futuro che oggi sembra sempre più lontana.

Angelo Cennamo

Standard

LE VITE DI DUBIN – Bernard Malamud

“La vita di ogni uomo è la mia non vissuta. Si scrive delle vite che non si possono vivere. Vivere in eterno è una brama umana”.

Con queste parole, Bernard Malamud ci introduce in Le vite di Dubin (Dubin’s Lives, 1979), uno dei suoi romanzi più complessi e maturi, probabilmente meno noto rispetto ai più celebrati Il commesso (The Assistant, 1957) e L’uomo di Kiev (The Fixer, 1966), ma non per questo meno rilevante nell’economia della sua opera. Anzi, come ebbe a dire lo stesso Malamud, è tra i suoi lavori più riusciti, tanto per profondità tematica quanto per la qualità della scrittura. William Dubin ha superato la soglia della mezza età. Dopo anni trascorsi scrivendo necrologi per un giornale di provincia, ha deciso di dedicarsi alla biografia, convinto che nei frammenti della sua modesta esistenza potesse celarsi un’unità narrativa, un senso da restituire al mondo attraverso la scrittura. Vive a Center Campobello, una piccola cittadina nello Stato di New York al confine con il Vermont, insieme alla moglie Kitty, vedova di un uomo (Nathaneal) la cui ombra aleggia ancora tra le stanze della loro casa, come un terzo incomodo. “A volte Dubin aveva l’impressione di aver sposato il matrimonio di sua moglie”, scrive Malamud con la consueta ironia amara. La loro unione, nata da un annuncio personale “inventato” da lei e da una risposta “fantasiosa” da parte di lui, si è nel tempo assestata in un equilibrio delicato e forse già logoro. Dubin è un uomo silenziosamente tormentato, un intellettuale solitario che cerca rifugio nella natura: lunghe passeggiate nei boschi, un vagabondaggio meditativo che ricorda Thoreau, e nella disciplina metodica della scrittura. I suoi pensieri vagano spesso verso i figli lontani, verso un passato che non smette di interrogare il presente. Nel momento in cui lo incontriamo, sta lavorando alla biografia di D.H. Lawrence, figura scandalosa e visionaria, simbolo della lotta tra eros e convenzione. Una scelta tutt’altro che neutra, che funge da specchio dei dilemmi esistenziali del protagonista: anche per Dubin, come per Lawrence, la sessualità è una forza ambigua, vitalistica, disgregante. La sua routine intellettuale fatta di appunti, cartelle, riletture e riscritture, è destinata a essere infranta dall’arrivo inatteso di Fanny Bick, una giovane e sensuale studentessa universitaria, assunta da Kitty come domestica. Fanny è disinibita, desiderosa di emanciparsi, proiettata verso un futuro che immagina a New York, ben lontano dall’asfissiante provincia in cui si trova. Non passerà molto tempo prima che la ragazza, in un gesto clamorosamente diretto, si presenti nuda nello studio del biografo, offrendosi a lui. Il momento è perfetto: la casa è vuota, Kitty è uscita, la tensione è palpabile. Eppure Dubin, in un misto di paura, incertezza e morale residuale, decide di rimandare. Almeno per ora. Malamud costruisce con maestria una commedia umana intima, venata di malinconia e tensione morale. Il tradimento, il desiderio senile, l’illusione di una seconda giovinezza: tutto concorre a mettere in crisi l’identità di Dubin e a far emergere le contraddizioni della sua vita. Fanny non è solo una giovane tentazione, ma l’incarnazione di una possibilità alternativa, di una vita altra che Dubin non ha vissuto, o che teme di non saper più vivere.

Il romanzo è una riflessione profonda sul senso stesso dell’esistenza e sul potere della letteratura. “Vivere significa investire nella vita”, dice Dubin in un passaggio chiave. Ma vivere, per uno scrittore, è anche osservare, raccontare, appropriarsi, almeno sulla pagina, di ciò che non si può o non si riesce a vivere realmente. In questo senso Le vite di Dubin è un tributo alla letteratura come moltiplicatrice d’esperienza, come forma di eternità, come sostituto e surrogato della vita stessa. In questo romanzo, lo stile di Malamud si fa più disteso, più analitico, abbandonando in parte la secchezza simbolica dei libri precedenti per aprirsi a una scrittura quasi proustiana in certi brani più introspettivi. Non mancano momenti di ironia tagliente, tipica della tradizione ebraico-americana, nella quale Malamud si inserisce a pieno titolo accanto a Isaac Bashevis Singer, Saul Bellow e Philip Roth. Se Bellow è l’intellettuale epico, Singer il mistico e Roth il provocatore, Malamud è forse il più umanista dei quattro, lo scrittore delle ferite invisibili, delle cadute silenziose, dei piccoli dilemmi quotidiani che diventano tragedia interiore. In Italia, i romanzi di Bernard Malamud sono pubblicati da minimum fax, che ha contribuito negli ultimi anni a riscoprirne l’opera, offrendo nuove traduzioni e un contesto critico aggiornato. Le vite di Dubin, in particolare, merita di essere riscoperto oggi per la sua capacità di parlare con lucidità e grazia del tempo che passa, delle scelte mancate, del desiderio che sopravvive anche quando il corpo comincia a cedere, e della fragile linea di confine tra realtà e immaginazione.

Angelo Cennamo

Standard