“La vita di ogni uomo è la mia non vissuta. Si scrive delle vite che non si possono vivere. Vivere in eterno è una brama umana”.
Con queste parole, Bernard Malamud ci introduce in Le vite di Dubin (Dubin’s Lives, 1979), uno dei suoi romanzi più complessi e maturi, probabilmente meno noto rispetto ai più celebrati Il commesso (The Assistant, 1957) e L’uomo di Kiev (The Fixer, 1966), ma non per questo meno rilevante nell’economia della sua opera. Anzi, come ebbe a dire lo stesso Malamud, è tra i suoi lavori più riusciti, tanto per profondità tematica quanto per la qualità della scrittura. William Dubin ha superato la soglia della mezza età. Dopo anni trascorsi scrivendo necrologi per un giornale di provincia, ha deciso di dedicarsi alla biografia, convinto che nei frammenti della sua modesta esistenza potesse celarsi un’unità narrativa, un senso da restituire al mondo attraverso la scrittura. Vive a Center Campobello, una piccola cittadina nello Stato di New York al confine con il Vermont, insieme alla moglie Kitty, vedova di un uomo (Nathaneal) la cui ombra aleggia ancora tra le stanze della loro casa, come un terzo incomodo. “A volte Dubin aveva l’impressione di aver sposato il matrimonio di sua moglie”, scrive Malamud con la consueta ironia amara. La loro unione, nata da un annuncio personale “inventato” da lei e da una risposta “fantasiosa” da parte di lui, si è nel tempo assestata in un equilibrio delicato e forse già logoro. Dubin è un uomo silenziosamente tormentato, un intellettuale solitario che cerca rifugio nella natura: lunghe passeggiate nei boschi, un vagabondaggio meditativo che ricorda Thoreau, e nella disciplina metodica della scrittura. I suoi pensieri vagano spesso verso i figli lontani, verso un passato che non smette di interrogare il presente. Nel momento in cui lo incontriamo, sta lavorando alla biografia di D.H. Lawrence, figura scandalosa e visionaria, simbolo della lotta tra eros e convenzione. Una scelta tutt’altro che neutra, che funge da specchio dei dilemmi esistenziali del protagonista: anche per Dubin, come per Lawrence, la sessualità è una forza ambigua, vitalistica, disgregante. La sua routine intellettuale fatta di appunti, cartelle, riletture e riscritture, è destinata a essere infranta dall’arrivo inatteso di Fanny Bick, una giovane e sensuale studentessa universitaria, assunta da Kitty come domestica. Fanny è disinibita, desiderosa di emanciparsi, proiettata verso un futuro che immagina a New York, ben lontano dall’asfissiante provincia in cui si trova. Non passerà molto tempo prima che la ragazza, in un gesto clamorosamente diretto, si presenti nuda nello studio del biografo, offrendosi a lui. Il momento è perfetto: la casa è vuota, Kitty è uscita, la tensione è palpabile. Eppure Dubin, in un misto di paura, incertezza e morale residuale, decide di rimandare. Almeno per ora. Malamud costruisce con maestria una commedia umana intima, venata di malinconia e tensione morale. Il tradimento, il desiderio senile, l’illusione di una seconda giovinezza: tutto concorre a mettere in crisi l’identità di Dubin e a far emergere le contraddizioni della sua vita. Fanny non è solo una giovane tentazione, ma l’incarnazione di una possibilità alternativa, di una vita altra che Dubin non ha vissuto, o che teme di non saper più vivere.
Il romanzo è una riflessione profonda sul senso stesso dell’esistenza e sul potere della letteratura. “Vivere significa investire nella vita”, dice Dubin in un passaggio chiave. Ma vivere, per uno scrittore, è anche osservare, raccontare, appropriarsi, almeno sulla pagina, di ciò che non si può o non si riesce a vivere realmente. In questo senso Le vite di Dubin è un tributo alla letteratura come moltiplicatrice d’esperienza, come forma di eternità, come sostituto e surrogato della vita stessa. In questo romanzo, lo stile di Malamud si fa più disteso, più analitico, abbandonando in parte la secchezza simbolica dei libri precedenti per aprirsi a una scrittura quasi proustiana in certi brani più introspettivi. Non mancano momenti di ironia tagliente, tipica della tradizione ebraico-americana, nella quale Malamud si inserisce a pieno titolo accanto a Isaac Bashevis Singer, Saul Bellow e Philip Roth. Se Bellow è l’intellettuale epico, Singer il mistico e Roth il provocatore, Malamud è forse il più umanista dei quattro, lo scrittore delle ferite invisibili, delle cadute silenziose, dei piccoli dilemmi quotidiani che diventano tragedia interiore. In Italia, i romanzi di Bernard Malamud sono pubblicati da minimum fax, che ha contribuito negli ultimi anni a riscoprirne l’opera, offrendo nuove traduzioni e un contesto critico aggiornato. Le vite di Dubin, in particolare, merita di essere riscoperto oggi per la sua capacità di parlare con lucidità e grazia del tempo che passa, delle scelte mancate, del desiderio che sopravvive anche quando il corpo comincia a cedere, e della fragile linea di confine tra realtà e immaginazione.
Angelo Cennamo