LA CONFRATERNITA DELL’UVA – John Fante

Il Midwest di John Fante è l’Abruzzo ereditato dal padre, “quella parte d’Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti”. È nei racconti di Nick, muratore emigrato da Torricella Peligna, che affonda le sue radici tutta la narrativa di Fante. “Sono arrivato in America e ho trovato l’Abruzzo”, dice Svevo Bandini in Aspetta primavera, Bandini. E cosa sono, se non la Majella travestita, le Sierras de La confraternita dell’uva?

“Una sera, lo scorso settembre, telefona mio fratello da San Elmo per informarmi che mamma e papà avevano tirato in ballo un’altra volta la faccenda del divorzio.

– Be’, che c’è di nuovo?

– Stavolta fanno sul serio, – disse Mario”. 

Difficile pensare a un incipit più sobrio e diretto di questo. È John Fante nella sua forma più pura: spoglio, sincero, tagliente. La confraternita dell’uva, pubblicato nel 1977, è forse il suo romanzo più maturo, quello in cui la voce autobiografica trova il giusto equilibrio tra rabbia e affetto, sarcasmo e nostalgia.  

“Me ne sto seduto nella mia stanza piccola e sudicia a succhiarmi il pollice cercando di scrivere un romanzo… La storia di quattro italiani vecchi e ubriaconi di Roseville”, scrive Fante all’amico Carey McWilliams in una lettera datata 25 aprile 1974.  Il risultato è un libro che parla di conflitti generazionali, di emigrazione, di radici, di vino – tanto vino – e del peso tremendo dell’eredità familiare. Al centro, naturalmente, c’è Nick Molise, padre di Henry, alter ego di Fante. Muratore autoproclamatosi “primo scalpellino d’America”, Nick è una figura imponente, a tratti insopportabile, di sicuro indimenticabile. Il classico padre-padrone meridionale, emigrato negli Stati Uniti e sopravvissuto alla fatica, alla povertà, alla frustrazione, a colpi di malta, bestemmie e vino rosso. Odia quasi tutto: la moglie, i figli, la chiesa, lo stato, il paese da cui è partito e quello dove è finito, ma ama visceralmente il suo lavoro e quella manciata di paisà con cui condivide una decadenza ostinata e orgogliosa. Sono loro la “confraternita dell’uva”: vecchi italiani, mezzi sordi e ormai più vicini alla bottiglia che al cantiere, ma ancora capaci di ridere e sbracciarsi come ragazzini. Fante li racconta con feroce tenerezza. Nessuna idealizzazione: questi uomini non sono eroi, né santi, ma caricature che la vita ha scolpito con mano pesante. Eppure, nella loro anarchia, nei silenzi e nei gesti ripetuti, si intravede qualcosa di profondamente umano, di tragico e comico insieme. Il vino, che scorre ovunque nel libro, diventa un simbolo doppio: rito e rifugio, consolazione e condanna. Henry, lo scrittore di successo che ha tagliato i ponti con la famiglia e col passato, torna a San Elmo, il borgo fittizio (ma non troppo) della California che richiama chiaramente le città minerarie dove Fante è cresciuto. Lì si ritrova risucchiato nel teatrino familiare: una madre rassegnata e devota, fratelli minori alla deriva, un padre che lo disprezza perché ha scelto la letteratura anziché il cemento. È una dinamica tutta fantesca: l’arte come tradimento delle origini, la scrittura come fuga e insieme tentativo di riconciliazione. E poi c’è la cucina. Quella stanza calda, odorosa di intingoli e spezie mediterranee, dove la madre di Henry regna come una strega buona. Un santuario domestico che profuma di nostalgia e di identità. È qui che Fante tocca uno dei suoi vertici lirici: nella descrizione dei profumi, dei fornelli come altare, della tavola come cerchio magico. È un passaggio che sembra uscire da un poema familiare più che da un romanzo. Il cuore del libro, però, è il viaggio che Henry intraprende con il padre: un’ultima scalata (letterale e simbolica) sulle Sierras per un lavoro che Nick non ha nessuna intenzione di portare a termine. È in quei giorni che, tra crolli meccanici e silenzi più eloquenti di mille dialoghi, padre e figlio si incontrano davvero per la prima volta. Niente epifanie zuccherose, nessuna redenzione, ma uno spazio di riconoscimento, forse di rispetto reciproco, che fino ad allora era mancato. 

Come dicevo, con La confraternita dell’uva Fante raggiunge un equilibrio raro: racconta il mondo che ha odiato con un amore bruciante. Rifiuta le sue radici mentre ne canta la verità. La lingua è come sempre asciutta, incalzante, con momenti di un umorismo livido che fa ridere mentre morde. Tutta la sua poetica è qui: l’ossessione e la distanza incolmabile con il padre, l’identità diasporica, lo sradicamento, il sogno americano diventato routine. Quando uscì, il romanzo ebbe un successo insolitamente ampio per Fante, fino ad allora poco più che un autore di nicchia, diventato popolare solo con Full of life (“non è un buon romanzo, l’ho scritto per soldi”). Coppola mostrò interesse per una trasposizione cinematografica che però non vide mai la luce. Un anno dopo, ormai cieco per il diabete e con una gamba amputata, Fante dettò alla moglie Joyce Sogni di Bunker Hill (andato in stampa nel 1982), chiudendo così un ciclo esistenziale e letterario. 

Ho sempre considerato La confraternita dell’uva il vero capolavoro di John Fante, più di Chiedi alla polvere, se non altro per la presenza nella trama di Nick, sponda importante per John alias Henry, non solo nella fase dialogica. Lo stesso Fante, sempre a McWilliams, scrive che è “di gran lunga il mio libro migliore”.  È insieme una storia brutale e commovente, capace di scavare nella memoria senza mai indulgere nel sentimentalismo. Fa sorridere e piangere spesso nel giro di poche righe, alternando impeti istintivi a momenti di prosa più riflessiva e misurata. La comparsa dei sintomi del diabete in Nick, gli stessi che qualche anno dopo stroncheranno anche John, assume il tono di una profezia tragica e geniale, a conferma della straordinaria abilità di Fante non solo di raccontare il conflitto ma di identificarsi col padre malato. La confraternita è anche uno dei più bei romanzi americani sul rapporto padre figlio alla stregua di Patrimonio di Philip Roth e La strada di Cormac McCarthy. Rispetto agli altri due ha però qualcosa in più: una grazia sgangherata, un’ironia disperata che trasforma la miseria e la rabbia in epica quotidiana, in un’elegia ubriaca e dissacrante alla famiglia, al fallimento, e al bisogno inestirpabile di tornare a casa.   

Angelo Cennamo

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