CHE SUCCEDE A BAUM – Woody Allen

A novant’anni suonati, Woody Allen esordisce nel mondo del romanzo con Che succede a Baum, opera uscita negli Stati Uniti e in contemporanea in Italia, con La Nave di Teseo e la traduzione di Alberto Pezzotta. Non è certo il suo primo slancio letterario, ricordiamo le celebri raccolte di racconti umoristici, ma è il suo primo vero romanzo, una sorta di autobiografia mascherata, e nemmeno troppo. Il protagonista, Asher Baum, è un alter ego trasparente: giornalista e scrittore ebreo newyorkese di mezza età, paranoico, ipocondriaco, logorroico, e con l’abitudine di parlare da solo. A metà strada tra i personaggi più tormentati e nevrotici di Saul Bellow (da Herzog e Mr. Sammler) e quelli più ironicamente autolesionisti di Philip Roth (Alexander Portnoy, Nathan Zuckerman), Baum incarna il prototipo dell’intellettuale colto e fallito, pieno di risentimenti e afflitto da una lucida coscienza dei propri limiti.

“Ultimamente si trovava spesso in disaccordo con se stesso”.

Questo sdoppiamento interiore, che genera dialoghi vivaci e con battute a raffica, è il cuore pulsante del romanzo. Baum è un uomo in declino, non solo artistico ma esistenziale. Vive isolato nella campagna del Connecticut, in una casa di trenta ettari che disprezza, insieme alla moglie Connie, bellissima, laureata ad Harvard e con un curriculum sentimentale che lo mette in soggezione. Il suo matrimonio è in crisi, logorato dalla gelosia e dall’invidia: Baum è ossessionato dal successo degli ex mariti di Connie e dai suoi sospetti tradimenti, convinto che almeno una volta lei sia finita a letto con suo fratello Josh: “Un uomo elegante. Si era preso i pochi geni buoni… a me sono toccati solo i calcoli biliari di papà e la deprimente visione del mondo di mamma”.

Ma non è solo Connie a tormentarlo, c’è anche il figliastro Thane, giovane prodigio della letteratura, finalista al National Book Award a soli ventiquattro anni. Baum, incapace di contenere il livore, lo invidia visceralmente: l’ennesimo confronto che lo fa sentire un perdente agli occhi di sua moglie. Connie lo aveva sposato credendolo un romanziere alla stregua di Philip Roth o di Saul Bellow, ma lui “non è stato all’altezza del suo potenziale”. Un tema centrale del libro è proprio la mistificazione culturale: Baum è un autore di romanzi stroncati dalla critica (“troppo ambiziosi per il suo scarso talento”), dogmatici, e le sue opere teatrali pare ottengano successo solo all’estero, così almeno dice lui. La vita sentimentale di Asher è disseminata di tracolli. Dopo la prima moglie, Nina, si era innamorato della sua sorella gemella. La seconda moglie, Tyler, lo aveva lasciato per seguire un batterista rock ricco sfondato in Nuova Zelanda. Baum rivede i suoi tratti nella fidanzata del figliastro: un gioco psicologico di ritorni e proiezioni che preannuncia il finale pirotecnico della storia. Non manca una vena grottesca anche nelle radici familiari: il nonno Samuel, artista in Germania durante gli anni del nazismo, fu consigliato direttamente da Goebbels a lasciare il Paese perché “le cose si sarebbero messe male per gli ebrei”.  La narrazione si muove tra l’isolamento forzato del Connecticut e una New York mitica e cinematografica, idealizzata e mai veramente presente: la metropoli della giovinezza perduta, della cultura ebraica d’élite: colta, bianca, progressista. Uno degli aspetti più riusciti del romanzo è la rappresentazione impietosa del mondo editoriale. Allen non risparmia cinismo, imposture, logiche di marketing, editor di tendenza e giovani autori paraculi. Baum è un sopravvissuto di un’altra epoca, troppo vecchio per aggiornarsi, troppo orgoglioso per piegarsi. Tra crisi esistenziali, risentimenti familiari, fallimenti professionali e autoanalisi spietate, il romanzo ci regala numerosi momenti di comicità. Strepitosa è la scena in cui Baum propone al fratello di riesumare il padre perché si sono dimenticati di seppellirlo con il grembiule di pelle d’agnello, simbolo sacro per i massoni. Scena che richiama neanche tanto velatamente l’episodio finale di Patrimonio di Philip Roth, dove il padre Hermann rimprovera il figlio in sogno per non averlo vestito come si conveniva.

Che succede a Baum è un romanzo brioso, con molti spunti esilaranti e nello stesso tempo venato di quella malinconia elegante che da sempre caratterizza l’opera di Allen. Un libro denso di citazioni filosofiche, musicali e letterarie degne di un veterano della narrativa. Potrà stupirvi ma il talento di Allen scrittore è all’altezza di quello cinematografico, fidatevi: le centottanta pagine di Che succede a Baum scorrono veloci, tra risate, attacchi di panico, colpi di scena e dialoghi serratissimi e ben calibrati. Insomma, da questo esordio non ci si poteva aspettare di meglio. Provaci ancora, Woody.

Angelo Cennamo

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GLI AUTUNNALI – Luca Ricci

Non c’è esperienza più complessa da raccontare dell’erosione di un legame. Non la sua esplosione, non il suo inizio travolgente, ma il lento sfaldarsi: quando l’amore si prosciuga, si ritira in una zona grigia dove il desiderio diventa abitudine, e la parola silenzio. Il disamore non ha epica, non ha lirismo. È un materiale opaco, spigoloso, che mette alla prova anche gli scrittori più esperti.
Eppure, è proprio in questo territorio difficile che si muove Gli autunnali di Luca Ricci, uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, pubblicato sette anni fa e già oggi con l’aura del classico contemporaneo. Un libro che non si accontenta di raccontare la fine di un amore, ma ne esplora le conseguenze perfino metafisiche, facendone il punto di partenza per una riflessione ampia sulla decadenza dell’arte, della scrittura, e dell’identità personale.
Siamo a Roma, sul finire dell’estate. In uno di quei pomeriggi in cui la luce si fa più obliqua e l’aria porta con sé l’annuncio dell’autunno, uno scrittore di mezza età rientra in città, svuotato d’ispirazione e ormai indifferente alla moglie. Il desiderio si è affievolito. Il sesso, sempre più raro, è diventato un gesto meccanico, un anestetico contro il tempo condiviso, non più un luogo di intimità o di scoperta. “L’ossessione dell’amore non era niente al confronto dell’ossessione del disamore”, scrive Ricci. Le coppie, a un certo punto, smettono di parlarsi. E iniziano solo a guardarsi. Questa malinconica routine viene spezzata da un accadimento inatteso: sfogliando per caso una biografia di Modigliani, trovata in un mercatino, il protagonista si imbatte nella fotografia di Jeanne Hébuterne, compagna dell’artista, morta suicida dopo la sua scomparsa. Quella figura in bianco e nero, remota e struggente, lo colpisce come un’apparizione: un brivido attraversa la pagina, trasformando la fascinazione in ossessione. Pochi giorni dopo, in un incontro apparentemente casuale, lo scrittore crede di riconoscere Jeanne nel volto di Gemma, la cugina della moglie. A quel punto, l’ossessione diventa carne, voce, presenza viva. Il desiderio si riaccende, ma non ha nulla di liberatorio: è torbido, malinconico, persino farsesco. Gemma è incinta, come Jeanne lo era prima della morte. E anche questo nuovo amore viene inghiottito dalle dinamiche della quotidianità. L’attesa del figlio trasforma il rapporto in una replica imperfetta del passato: non c’è spazio per l’intimità, per la passione, per la rinascita.
Lo scrittore, ormai preda di un’inquietudine crescente, cerca un rifugio nel corpo di una prostituta nigeriana. Al tempo stesso, confida le proprie angosce a un collega, Gittani, anch’egli in crisi creativa e personale. La moglie di Gittani, malata terminale, è ricoverata al Gemelli; lui la tradisce con un’infermiera. I dialoghi tra i due: cinici, disperati, sono tra le pagine più riuscite del libro. Non sono solo conversazioni tra amici, ma riflessioni taglienti su ciò che resta della letteratura, del desiderio, dell’etica in un mondo dove tutto sembra sfaldarsi.
Attraverso questi personaggi, due scrittori in caduta libera, Ricci mette in scena un affresco amaro del sistema editoriale italiano, dove l’autore si trasforma in recensore, dove l’autenticità lascia spazio all’opportunismo, e l’arte diventa esercizio di stile per pochi eletti.
In questa cornice crepuscolare, l’autunno è il simbolo di un disfacimento più vasto, che investe le relazioni, la creatività, la città stessa. Roma appare sullo sfondo come una capitale esausta, sospesa tra la retorica della sua grandezza passata e un presente disorientato. Il romanzo si muove tra questi due poli: il privato e il collettivo, l’intimo e il culturale, in una dissolvenza che ha qualcosa di dolorosamente vero.

Gli autunnali è, con ogni probabilità, il miglior lavoro di Luca Ricci. Per l’accuratezza della lingua: elegante, precisa, mai compiaciuta. Per l’architettura narrativa, che tiene insieme introspezione e racconto. E per quella malinconia così italiana, che richiama il cinema di Monicelli, le maschere tragiche e grottesche di Tognazzi e Noiret, ma anche la tradizione letteraria di Moravia (La noia, Il disprezzo) e il disincanto di Houellebecq (Piattaforma, La carta e il territorio).

Angelo Cennamo

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IL GIORNO CHE BRUCIA – Bret Anthony Johnston

Questa storia inizia nel 1993, a Waco, Texas, in un angolo di mondo sospeso tra la polvere dei ranch e le tensioni mai sopite di un’America che cerca risposte nei posti sbagliati. A raccontarcela sono due adolescenti di quattordici anni, Roy e Jaye, le cui vite si incrociano in un’estate destinata a lasciare cicatrici, un’estate “che sciolse ogni cosa” direbbe Tiffany McDaniel. Roy vive con i genitori in un ranch nella periferia della città. Suo padre è lo sceriffo della contea, come lo era stato il nonno prima di lui: il nome Moreland, da quelle parti, è sinonimo di legge. Ma Roy non vuole seguire la tradizione. Preferisce vagare per le strade, armeggiare con grucce di fil di ferro per aprire portiere d’auto e forzare serrature: piccoli gesti di ribellione in un mondo che sente troppo stretto. Suo fratello maggiore, Mason, si è arruolato nei Marines. Dopo aver combattuto in Iraq, è rimasto lì come contractor: un’ombra lontana, un esempio forse impossibile da seguire. Jaye, invece, è fuggita dalla California con sua madre, donna fragile e facilmente influenzabile, che ha abbandonato il marito e ogni certezza per seguire un predicatore di nome Perry Cullen. L’ha conosciuto durante un incontro spirituale e da allora gli è totalmente devota. Come lei, molte altre donne hanno lasciato tutto per unirsi alla comunità fondata da Perry su una vasta proprietà appena fuori Waco: ottanta ettari di terra che gli sono stati donati da una misteriosa anziana, forse un’ex amante. Là Perry e i suoi adepti hanno costruito stalle, mense, poligoni di tiro “Ogni domenica è consacrata alle Scritture e al tiro a bersaglio”. Perry Cullen non è carismatico nel senso classico del termine, non ha eloquio né istruzione. Si vanta di aver abbandonato la scuola prima della terza media e le sue origini sono segnate dal degrado: figlio di una ex prostituta, ha vagabondato per anni prima di approdare in Texas, dove dice di voler avviare un’impresa di giardinaggio. Eppure la gente lo segue. Lo ascolta sproloquiare per ore. Lo chiamano l’Agnello. E in molti sono disposti a stravolgere la propria vita per lui. Lo amano per la sua “Sincerità, schiettezza, vulnerabilità” dirà trent’anni dopo un ex seguace, in uno degli episodi del podcast che funge da controcanto narrativo alla vicenda: una voce del futuro che si alterna al passato, anticipando il disastro verso cui la storia si muove con crescente tensione. Perché qualcosa accadrà. Lo intuiamo sin dalle prime pagine, che colpiscono con la stessa potenza dell’incipit di Canada di Richard Ford. Bret Anthony Johnston costruisce la narrazione come una corda tesa che vibra tra le voci dei due ragazzi, tra il presente della vicenda e il futuro che la ripercorre, tra la spensieratezza adolescenziale e l’ombra incombente di un’Apocalisse. Il padre di Roy, lo sceriffo, osserva la comunità di Cullen con crescente preoccupazione. L’FBI gli ha affidato il compito di monitorare lo sviluppo degli eventi. Troppe armi. Troppa gente che ha mollato tutto per rifugiarsi in quel luogo. Troppa fede cieca in un uomo che pare uscito da un sogno malato. In questo clima di attesa e carico di tensione, Roy e Jaye scoprono l’amore, ma è un amore che si sviluppa sull’orlo del baratro, tra due mondi inconciliabili: quello della legge e quello della fede, tra un padre che indaga e una madre che si è perduta in un delirio messianico. Non è esattamente un romanzo di formazione, anche se lo sguardo con cui viene raccontata la storia è quello di due adolescenti. Il giorno che brucia è piuttosto un romanzo sulla fragilità umana, sulla disperata ricerca di verità, o forse solo sull’illusione di una felicità possibile; “fidati se ti dico che questa gente qui è più felice di quanto io e te lo siamo mai stati… Mi piacerebbe tanto credere di credere in qualcosa”, dice Jaye a Roy in una delle scene centrali del libro. Una frase che racchiude l’ambiguità morale di tutta la vicenda. Con uno stile scarno e potente, ereditato dal suo maestro Chris Offutt, Johnston racconta l’America delle setta religiose, delle armi, delle solitudini irredimibili. Perry Cullen è un uomo fallito che diventa guida spirituale. Un ciarlatano o un pazzo. Ma anche un rifugio per anime disperate. La sua parabola ricorda quella di tanti predicatori borderline che hanno lasciato il segno nella cronaca nera americana, da David Koresh in poi. A distanza di anni dal suo ultimo lavoro, Bret Anthony Johnston torna con un romanzo che non solo lo consacra tra i migliori scrittori della sua generazione, ma si impone come uno dei grandi romanzi americani degli anni Venti. Il giorno che brucia – titolo originale We Burn Daylight, che potrebbe essere tradotto con “Stiamo sprecando il giorno”, un’espressione presa da Shakespeare in Romeo e Giulietta – è un’opera inquietante, attuale, che esplora cosa significhi crescere in un mondo sull’orlo del collasso. E che brucia, pagina dopo pagina, proprio come il giorno che si consuma troppo in fretta. La traduzione è di Federica Aceto. 
Angelo Cennamo

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LA MIA ÀNTONIA – Willa Cather

Dopo Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, Feltrinelli riporta in libreria un altro pilastro della letteratura del Midwest: La mia Ántonia di Willa Cather con la nuova traduzione di Monica Pareschi. Insieme a Main Street di Sinclair Lewis, questi tre romanzi (Winesburg, Ohio è un romanzo corale e destrutturato più che una raccolta di shortstories) formano una sorta di trilogia ideale del pionierismo nordamericano.

America, fine Ottocento. Sconfinate praterie battute dal vento, cieli vasti e mobili, binari che si spingono fino agli estremi confini della frontiera. È in questo scenario che Willa Cather ambienta la vicenda di Ántonia Shimerda e Jim Burden: due destini che si incontrano da bambini, e, pur tra mille deviazioni, restano legati per sempre. Ántonia, giovane immigrata boema, arriva negli Stati Uniti con la sua famiglia senza sapere una parola d’inglese. Jim, orfano, viene accolto dai nonni nelle campagne del Nebraska. Il loro primo incontro avviene a bordo di un treno diretto a ovest, ma è tra i campi di mais e l’erba alta che i due diventano inseparabili: insieme esplorano la natura selvaggia, si raccontano le rispettive origini, imparano a decifrare quel nuovo mondo, finché una tragedia segna un punto di svolta, spingendo le loro vite su strade divergenti ma mai completamente separate. Attraverso la voce di Jim, narratore affettuoso e nostalgico, La mia Ántonia si rivela un romanzo della memoria, del legame con la terra, dell’identità migrante. Ántonia non è un’eroina romantica né la vittima di un destino crudele, ma la personificazione di una forza silenziosa, fatta di lavoro, ostinazione, dignità. 

“Era come se per noi quella ragazza rappresentasse, più di chiunque altro, la terra, le circostanze, tutta l’avventura della nostra infanzia”.

In un’epoca segnata da profondi mutamenti stilistici e culturali, Cather percorre una strada autonoma e personale. Se Sinclair Lewis graffia con la satira i miti ipocriti della provincia americana, Cather preferisce un tono più sommesso e partecipe, scavando nei legami umani e nella sacralità del quotidiano. La sua letteratura è una lunga e briosa ode alla tenacia, alla memoria, al paesaggio come proiezione di sè. Il vento del Nebraska lo sentiamo sibilare costantemente tra le pagine del libro. In quel soffio si avverte il respiro collettivo di una comunità di migranti, il peso delle speranze spezzate e la promessa, non del tutto disillusa, di un domani possibile. Il romanzo diventa così il racconto sfaccettato di una frontiera interiore: uno spazio di transizione tra vecchio e nuovo mondo, tra appartenenza e trasformazione.

Nata in Virginia nel 1873 e cresciuta proprio in Nebraska, Cather è una figura centrale del primo Novecento. Formatasi sotto l’influenza del realismo ottocentesco, ha vissuto in pieno il fermento modernista senza però lasciarsene travolgere. Nei suoi scritti rifiuta gli artifici descrittivi e le mode del tempo: il romanzo deve liberarsi degli “arredi” superflui per avvicinarsi a una verità narrativa più nuda ed essenziale, scrive in un noto saggio. La scrittura, sobria ed evocativa, fa dialogare costantemente paesaggio e sentimento, natura e identità. A differenza di Henry James, altro autore attento alle trasformazioni sociali e alle tensioni tra conservazione e progresso, ma che indaga le sfumature psicologiche dell’élite borghese, Cather volge lo sguardo verso i margini: alle donne, ai contadini, agli emigranti, ai silenzi del mondo rurale. La sua estetica è profondamente etica: incentrata non sull’innovazione formale, ma sull’autenticità dell’umano. A lungo trascurata dalla critica accademica perché considerata anacronistica rispetto ai paradigmi modernisti, è stata riscoperta a partire dagli anni Settanta grazie agli studi femministi e queer, che hanno approfondito e rivelato la complessità delle sue figure, delle loro interconnessioni. Ántonia, in particolare, è stata rivista come simbolo di una femminilità altra, non riconducibile ai soliti ruoli domestici dominanti. Il suo rapporto con Jim, lontano da ogni convenzione, si apre a una dimensione affettiva fluida, fatta di desideri inespressi e di legami non normati. È questa forse la vera chiave di lettura del romanzo.

Angelo Cennamo

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L’IMPERATORE DELLA GIOIA – Ocean Vuong

Ocean Vuong, giovane autore americano di origini vietnamite, torna in libreria con L’Imperatore della gioia (in Italia con Guanda e la traduzione di Norman Gobetti), un romanzo che segna un’evoluzione nel suo percorso di scrittura e che negli Usa lo ha già consacrato tra le voci più interessanti della nuova scena letteraria. Poeta di formazione e già autore dell’acclamato Brevemente risplendiamo sulla terra, Vuong si propone questa volta con una prosa più distesa e meno lirica, ma ugualmente attenta alla fragilità dell’esperienza umana. Al centro della storia c’è Hai, un ragazzo di diciannove anni che conosciamo nel momento in cui sta per togliersi la vita, in bilico sul bordo di un ponte a East Gladness, Connecticut. Piove, ed è una voce, quella di un’anziana signora che lo osserva dalla finestra, a distoglierlo dal gesto estremo. Da qui prende avvio un incontro inatteso che si trasforma in convivenza: Grazina, 84 anni, vive da sola in un appartamento pieno di oggetti e ricordi, e accoglie Hai nella propria quotidianità disordinata e segnata dal passato. Entrambi sono rifugiati: lui fuggito dal Vietnam, lei sopravvissuta ai bombardamenti sovietici su Budapest. Le loro storie, pur lontane nel tempo e nello spazio, si incontrano sul piano della memoria e del trauma. Hai vorrebbe dimenticare, Grazina è prigioniera di ciò che non riesce a lasciarsi alle spalle. Nel loro vivere insieme, fatto di piccoli gesti, di notti condivise, di silenzi, nasce un’intimità che non è riparo, ma presenza reciproca nell’incompiutezza. Accanto al racconto di questa relazione si sviluppa la parte più sociale del romanzo. Hai, in difficoltà economiche e dipendente da sostanze, trova lavoro in un fast food che replica ogni giorno l’atmosfera del Ringraziamento. Lì si crea un gruppo eterogeneo di colleghi, figure marginali ma solidali, che offrono a Vuong lo spunto per raccontare una diversa forma di comunità: quella che nasce nel luogo di lavoro, tra sconosciuti uniti dalla precarietà. Questa famiglia circostanziale, come la definisce l’autore, si discosta sia dalla famiglia tradizionale sia da quella “scelta”. È qualcosa di più fragile, ma anche di più reale: un legame che si costruisce nella necessità, nella condivisione quotidiana della fatica e dell’alienazione. Nel romanzo ritorna il tema del debito verso la madre, già centrale nel libro precedente, ma qui declinato con maggiore distanza e misura. L’Imperatore della gioia è infatti anche il primo testo che Vuong scrive dopo la morte della madre, e si percepisce una diversa maturità nello sguardo, più narrativo che elegiaco. Come dicevo, il tono generale è meno poetico rispetto ai lavori precedenti per privilegiare una costruzione vasta e corale che si apre anche a momenti di leggerezza e di umorismo. La presenza di personaggi secondari vivaci e ben delineati offre un contrappunto alla malinconia che attraversa il romanzo e non lo fa deragliare (troppo) nel dramma. Il titolo del libro resta volutamente ambiguo. L’imperatore della gioia è una figura assente, forse ironica, un emblema del vuoto. Non a caso, Vuong apre il romanzo con una citazione tratta da Amleto: “Your worm is your only emperor…”. Il riferimento all’illusione di potere e grandezza introduce una riflessione acuta su un’America in crisi, dove il sogno è ormai collassato e ciò che resta è la fatica quotidiana del vivere. In questo senso, i personaggi di Vuong ricordano quelli sfigati di Richard Yates, ma mentre in Yates esiste ancora un contesto in cui si può riuscire, con Vuong tutto è ormai imploso: il suo cast si muove in un’America laterale, impoverita, disillusa. 

Non amo la narrativa affliggente di Vuong, il suo disagismo, il pianto greco, il dolorificio di Vuong, ma di Vuong riconosco il talento, il virtuosismo retorico e la duttilità di una scrittura viva nonostante il giacomoleopardismo dei suoi contenuti. Con L’Imperatore della gioia, Vuong si misura con un romanzo dal respiro più ampio, pur conservando una dimensione affettiva intima e i toni sussurati di altri testi. È un libro che riflette su come si sopravvive, su come ci si prende cura degli altri anche quando si è rotti, e su come, a volte, la condivisione di un presente difficile valga più di ogni possibilità di riscatto. Leggetelo. 

Angelo Cennamo

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LA RADICE DEL MALE – Adam Rapp

Una storia crudele che affonda nelle pieghe oscure della famiglia americana e nelle crepe della sua apparente normalità. Ambientato nella cittadina di Elmira, nello stato di New York, a partire dal 1951, La radice del male (NNEditore, traduzione di Michele Martino) prende il via con un incontro tanto enigmatico quanto sinistro: una tredicenne, Myra Lee Larkin, viene avvicinata da un ragazzo che si presenta come Mickey Mantle, stella dei Yankees. La stessa sera, i vicini di casa di Myra vengono brutalmente assassinati e i sospetti si concentrano su un giovane dall’identikit simile a quello del suo nuovo amico. È solo l’inizio di una lunga e complicata saga familiare a metà strada tra l’universo noir di Joyce Carol Oates e Le correzioni di Jonathan Franzen: frammentata, cupa e priva di consolazione. Rapp costruisce il ritratto dei Larkin – Ava e Donald, genitori di quattro figlie e un figlio – come di una famiglia in progressivo sgretolamento, dove il male non è un’eccezione ma una componente intrinseca. L’anima inquieta della vicenda è Alec, il figlio problematico e instabile che incarna la violenza latente di un intero sistema, familiare e sociale. Attraverso salti temporali volutamente disordinati, Rapp ci guida in una narrazione che segue i Larkin in diversi momenti della loro esistenza, lasciando emergere dolore, fallimenti, sensi di colpa. La struttura narrativa franta del romanzo non è un semplice espediente stilistico: riflette l’identità fluida dei protagonisti, il loro smarrimento e l’impossibilità di sanare ferite profonde. Ne viene fuori una complessa mappatura del trauma, che Rapp propone, come dicevo, sia come realtà individuale che collettiva. Nella sua visione cupa ma potente, Rapp dà forma a un orrore multiforme che non è solo metafora ma riferimento storico preciso, concreto. La figura reale di John Wayne Gacy, noto serial killer statunitense, emerge nel racconto come simbolo della barbarie assoluta, dimostrando come la ferocia possa assumere tratti riconoscibili, tangibili. Due punti di forza del romanzo. Il primo. A dispetto della densità della follia e dei fallimenti che attraversano la storia, essa non cade mai nella spettacolarizzazione o nella gratuità di certi sentimenti. Il secondo. Lo stile viscerale e tagliente di Rapp restituisce un contesto vivido, in cui la tensione narrativa, oltre che al servizio dell’intrattenimento, diventa strumento di indagine sul potere di contaminazione del male, e sulla (remota) possibilità di opporvisi. Tra i personaggi spiccano le sorelle Larkin, ciascuna alle prese con un destino diverso ma segnato dalla stessa matrice di disagio. Fiona, la ribelle, cerca rifugio nella controcultura degli anni Settanta e in una comune femminile; Lexy e Myra, invece, costruiscono vite ordinarie, legate al culto per la letteratura e la famiglia tradizionale. Le loro passioni / ossessioni letterarie, da Camus a Salinger (a proposito: il romanzo si apre con Myra che legge Il giovane Holden), diventano chiavi di lettura per interpretare anche i fatti: la domanda su Meursault ne Lo straniero (“perché infierire dopo il primo colpo?”) echeggia nella vicenda di Alec e nella sua deriva. Al contrario di quelle femminili, le figure maschili appaiono invece quasi tutte toccate da un destino rovinoso. Donald, il padre, è un reduce di guerra incapace di provare e trasmettere empatia; Alec, la personificazione di un male originato dall’abuso e l’abbandono. Anche Danny, marito di Myra, e il figlio Ronan sembrano destinati a soccombere a una forza oscura e inarrestabile. Rapp suggerisce che la violenza non è un accidente isolato ma una pulsione inscritta nella società stessa, in quel sogno americano che si sfalda sotto il peso delle aspettative, degli smacchi taciuti, del bigottismo che esclude e punisce. Eppure, nonostante la cupezza, il romanzo non è privo di aperture, di piccolissimi lampi di grazia che lasciano intravedere uno spiraglio, l’opportunità di trasformare il dolore in una possibile risalita. 

Angelo Cennamo

 

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