IL LAUREATO – Charles Webb

Quando The Graduate esce negli Stati Uniti nel 1963, Charles Webb è poco più che ventenne. Scrive il romanzo ai tavolini di un bar, forse traendo ispirazione da esperienze personali, immaginando la storia di un giovane sospeso tra il privilegio e l’inquietudine. Il successo, inizialmente moderato, esploderà solo qualche anno più tardi, grazie all’indimenticabile trasposizione cinematografica del 1967: Il laureato, con un giovanissimo Dustin Hoffman e la colonna sonora di Simon & Garfunkel, trasformerà un romanzo di nicchia in un fenomeno culturale, arricchendo il suo autore e consegnandolo alla storia.

The Graduate – tradotto in Italia come Il laureato (Paolo Cioni per Mattioli 1885) – fotografa un’America borghese, solare e apparentemente serena, ancora inconsapevole delle fratture sociali e politiche che di lì a poco sfoceranno nel ribellismo del ’68. È l’America de Il nuotatore di John Cheever: elegante, ottimista, immersa nella luce artificiale dei sobborghi, tra piscine, cocktail e sorrisi impeccabili. In questo scenario patinato si muove Benjamin Braddock, giovane fresco di laurea, erede di una ricchezza e di un futuro già scritti per lui. Ma dietro la facciata del successo, Ben è smarrito. Sente un vuoto profondo, un’inquietudine che lo spinge a rifiutare i valori della famiglia, l’istruzione che avrebbe dovuto garantirgli il riscatto sociale, perfino l’affetto dei genitori. È la crisi di un’intera generazione che si affaccia all’età adulta scoprendo l’inganno del sogno americano. Lo scontro generazionale, nel romanzo di Webb, prende la forma del desiderio e della seduzione. Mrs. Robinson – resa immortale sullo schermo da Anne Bancroft – è la moglie del socio del padre di Ben: una quarantenne disillusa, cinica, alcolizzata, che trova nel giovane laureato un diversivo alla propria infelicità. La loro relazione, torbida e ossessiva, diventa il simbolo del conflitto tra conformismo e libertà, tra l’ipocrisia del mondo adulto e la ricerca di autenticità di una generazione nascente. Elaine, la figlia di Mrs. Robinson, rappresenta per Ben l’unica via di fuga: l’amore come salvezza, ma anche come condanna, perché il prezzo di quella ribellione sentimentale sarà altissimo. Romanzo essenziale e teso, Il laureato è costruito quasi interamente sui dialoghi: brevi, taglienti, scanditi da un ritmo che anticipa la scrittura cinematografica. Webb dipinge personaggi memorabili con poche, incisive pennellate, restituendo un’umanità fragile, contraddittoria, in bilico tra desiderio e repulsione. La trama, lineare e potente, si fa allegoria di un disagio più ampio: quello di un’America che non sa più riconoscersi nei propri miti. Eppure, paradossalmente, la straordinaria potenza del film di Mike Nichols ha finito per oscurare la voce originale del romanzo. Per molti, Il laureato è Dustin Hoffman dietro il vetro di un acquario, è la chitarra malinconica di Mrs. Robinson. Ma dietro quell’immagine ormai iconica resta un piccolo grande libro del Novecento: lucido, ironico e profondamente inquieto, come il suo protagonista.

Angelo Cennamo

Standard

LA CASA DELLE ANIME – Matt Ruff

Di Matt Ruff, autore di Seattle ma newyorchese di nascita, avevo letto La trilogia dei lavori pubblici, in Italia edita da Fanucci (vado a memoria), e poco altro. A distanza di anni, ritrovo Ruff con Set This House in Order – La casa delle anime – datato 2003, uno dei suoi lavori più complessi e originali, un’opera che fonde elementi di psicologica, realismo magico e thriller esistenziale, per raccontare argomenti non facili come il trauma, la memoria, la costruzione dell’identità. Il protagonista del romanzo, tornato in libreria con minimum fax e la traduzione di Luca Briasco, la stessa della prima edizione del 2005 sempre di Fanucci, è Andrew Gage, un uomo affetto da disturbo dissociativo dell’identità (DID), un tempo noto come disturbo da personalità multiple. In seguito a un’infanzia segnata da abusi estremi, Andy ha sviluppato una “comunità interna” di personalità autonome tra cui spiccano Andrew (la voce narrante), Sefaris (la figura protettiva), Adam (l’adolescente irriverente), e altri ancora, ognuna con una funzione specifica e una propria visione del mondo. Per gestire questa complessità psichica, Andy ha costruito una “casa” mentale con un’organizzazione interna delle varie identità che permette al corpo di condurre una vita esteriore apparentemente normale. L’equilibrio precario viene messo in crisi quando Andy incontra Penny Driver, una giovane donna anch’essa affetta da DID, ma del tutto inconsapevole della propria condizione. Le sue personalità (Thread, Maledicta, Malefica e Loins) si muovono senza alcun coordinamento, lasciando la ragazza spesso spaesata. Attraverso un incontro forzato e inizialmente conflittuale, le due menti infrante intraprendono un viaggio che è insieme interiore e narrativo, portandole a confrontarsi con le rispettive verità rimosse. Il tema del disturbo dissociativo Ruff lo affronta con la giusta dose di sensibilità e un uso sapiente della metafora. La “casa interiore” non è soltanto un espediente narrativo singolare, ma un luogo simbolico dove si gioca il conflitto tra le diverse parti, tra passato e presente, tra rimozione e consapevolezza. Se la struttura del romanzo può apparire inizialmente labirintica e in certi passaggi ridondante, è proprio attraverso questa complessità che l’autore riesce a restituire l’esperienza di una psiche frammentata. Uno degli elementi di forza del libro è lo stile di Ruff: preciso, controllato, capace di registrare con naturalezza toni molto diversi, dal lirismo malinconico all’ironia dissacrante, senza mai cadere nel sensazionalismo o nella patologizzazione gratuita. La voce di Adam, l’adolescente che abita la mente di Andy, fornisce momenti di ironia che servono ad alleggerire la storia senza tuttavia banalizzarla. Il racconto procede su più livelli: psicologico, semiotico e narrativo, con una coerenza interna equilibrata e matura. Devo dire che Ruff ha un talento speciale nel rendere semplice ciò che in mani meno esperte sarebbe potuto risultare confuso o artificioso. Il lettore accetta senza fatica la realtà interna di Andrew e impara a conoscere (e a distinguere) le sue numerose personalità, ognuna dotata di una voce e una psicologia definita. Nonostante la struttura complicata, il romanzo scorre con la leggerezza e la tensione di un thriller. Ma non stiamo parlando di un thriller. Più che un romanzo di genere, La casa delle anime è un racconto di formazione amplificato, che esplora il tema della ricerca del proprio posto nel mondo. È una storia che parla di guarigione, di accettazione e di equilibrio, senza però cadere nel melodrammatico. Ci sono momenti teneri, altri esilaranti, altri ancora profondamente inquietanti, ma tutti si fondono con armonia. L’unico vero limite  risiede forse nella sua stessa ambizione. Alcuni lettori potrebbero trovare dispersiva la molteplicità di voci interne, mentre la costruzione metaforica della “casa mentale” rischia, in certi passaggi, di sovraccaricare il racconto con una simbologia troppo insistita. Eppure, anche nei suoi momenti meno riusciti, il romanzo mantiene un’intelligenza narrativa che raramente si incontra in opere simili. Questo perché Ruff evita tanto il didascalismo quanto la spettacolarizzazione del disturbo mentale, offrendo della dissociazione un ritratto dolente ma molto umano.

Angelo Cennamo


Standard

UN GIOCO SENZA FINE – Richard Powers

Con Playground – in Italia Un gioco senza fine, con La Nave di Teseo e la traduzione di Licia Vighi – Richard Powers si conferma ancora una volta uno degli autori più audaci e lucidi del nostro tempo. Dopo aver celebrato le reti silenziose degli alberi ne Il sussurro del mondo (premio Pulitzer nel 2019) e sondato il dolore personale sullo sfondo dell’apocalisse climatica in Smarrimento, qui Powers allarga il campo visivo fino a includere gli abissi dell’oceano, l’intelligenza artificiale e le cicatrici del colonialismo. Il romanzo si muove tra continenti, epoche e prospettive, intessendo scienza, spiritualità e critica sociale in una narrazione corale e stratificata. Al centro della storia c’è l’amicizia tra Todd Keane, brillante programmatore con il cuore nelle profondità marine, e Rafi Young, lettore insaziabile e stratega nato. Cresciuti in famiglie problematiche ma in mondi culturali opposti, i due si incontrano da adolescenti e si legano attraverso il gioco degli scacchi. La loro traiettoria comune si complica con l’arrivo di Ina Aroita, artista sensibile e radicata nelle sue origini hawaiane e tahitiane. Todd racconta retrospettivamente la storia, in una narrazione frammentata e intima, resa ancora più toccante dalla sua condizione neurologica degenerativa. Parallelamente, nel presente – o in un futuro che somiglia sinistramente al nostro – Rafi e Ina vivono su Makatea, isola polinesiana che un tempo fu devastata dalle miniere di fosfato e che ora diventa terreno di scontro tra ambientalismo e capitalismo. Un consorzio americano propone di costruire città galleggianti fuori dalle acque territoriali: utopia tecnologica o ennesima forma di colonizzazione?

A vegliare sulle profondità marine e sul senso profondo del romanzo è Evelyne, anziana subacquea che cerca di raccogliere in un libro l’essenza del mare. La sua visione è insieme contemplativa e rivoluzionaria: vuole che il lettore provi tale stupore da fermarsi, da rimettere in discussione l’idea stessa di progresso. In lei, Powers incarna una critica all’antropocentrismo che ha finito per giustificare ogni forma di sfruttamento.

Come ne Il sussurro del mondo, la bellezza naturalistica qui non è mai solo descrittiva: è un atto politico e filosofico. Powers scrive del mare con un senso di meraviglia quasi mistica. Pesci, coralli, mante, gamberetti: ogni creatura ha una voce, un ruolo, una sua dignità. L’antropomorfismo diventa così non un errore, ma uno strumento per ricucire lo strappo tra umano e non-umano. Un gioco senza fine è anche un romanzo profondamente inquieto. L’intelligenza artificiale, presenza silenziosa e seducente, è al centro delle domande più destabilizzanti del libro: può sostituirci? ingannarci? consolarci? manipolarci? In un episodio emblematico, un assistente virtuale interagisce con gli isolani, ma dietro le sue risposte precise e rassicuranti si cela un intento manipolatorio: portare a termine un progetto già deciso. E poi c’è la sorpresa finale, un colpo di scena magistrale che ribalta le carte e ridefinisce tutto ciò che credevamo di aver compreso nella prima parte. Powers, con l’eleganza di un illusionista, porta il lettore su un altro piano, dove realtà e finzione, memoria e codice, individuo e specie si intrecciano.

Un gioco senza fine è un’opera vastissima che abbraccia l’oceano e l’informatica, la memoria e il futuro, la politica e la poesia. Un affresco vertiginoso capace di sfidare la mente e commuoverci. Un romanzo che ci interroga, ci scombussola, lasciandoci con una domanda urgente e bellissima: che cosa significa davvero essere umani in un mondo che cambia così in fretta?

Angelo Cennamo

Standard

E SE IL NOBEL LO VINCESSE STEPHEN KING?

E se il Nobel per la letteratura lo vincesse Stephen King? Vi pare possibile? Nessun romanzo di King ha vinto il Pulitzer o il National Book Award, i due premi americani più prestigiosi. Figurarsi l’ipotesi del Nobel. Come mai? L’esclusione di King da questi circuiti nasce da un antico riflesso condizionato dell’establishment culturale: l’idea che esista una gerarchia tra i generi narrativi, e che la cosiddetta “letteratura alta” debba restare immune dall’immaginario popolare. Il caso King è emblematico. King ha costruito un corpus narrativo di dimensioni impressionanti, coerente nella sua visione e stratificato nella sua lettura del mondo. Eppure, non sono pochi coloro che continuano a collocarlo ai margini del canone contemporaneo, come se la sua popolarità, la sua falsa identità Horror, perché è falsa, invalidasse in partenza qualsiasi valutazione estetica. È un cortocircuito critico che si regge su una dicotomia ormai esausta: quella tra letteratura “di intrattenimento” e letteratura “seria”. Ma l’opera di King non si lascia contenere in questi recinti. Sotto la superficie di mostri, possessioni e universi paralleli, pulsa un’indagine lucida e spietata della cultura americana. King ha raccontato forse meglio di chiunque altro l’infanzia come luogo di trauma, la famiglia come teatro di violenza sotterranea, la provincia come scenario di rimozioni collettive. Ha dato forma narrativa a ciò che l’America preferisce non vedere: la persistenza del male nel quotidiano, la fragilità delle istituzioni, la paura come strumento di controllo. It, Shining, Pet Sematary, 11/22/63, The Stand: sono titoli che hanno segnato l’immaginario popolare, certo, ma sono anche romanzi che parlano di colpa, tempo, fallimento, morte, potere. King non è uno scrittore Horror, semmai piega l’horror a una funzione simbolica, mettendolo al servizio della memoria collettiva. L’elemento disturbante non è mai fine a sé stesso, ma veicolo di una riflessione che attraversa l’intera sua opera. Ed è anche questa la sua forza, quella cioè di lavorare dentro il genere, non nonostante il genere. King non si limita a sfruttarne le convenzioni, ma le sovverte, le espande, le carica di una densità emotiva e tematica che ne trasfigura i confini. L’orrore, in King, è sempre un sintomo: di un disagio sociale, di un passato non elaborato, di un’identità fratturata. Dal punto di vista stilistico, la scrittura di King sfugge alle lusinghe della prosa letteraria cosiddetta alta per essere concreta, ritmica, sorvegliata, costruita non per esibire la propria intelligenza ma per entrare in risonanza con l’esperienza del lettore. Questa apparente semplicità è stata a lungo fraintesa come mancanza di ambizione. Ma King è un autore profondamente ambizioso. Non solo nella vastità della sua produzione, ma nella tensione etica che la percorre. Dalle distopie come The Stand o The Dome alle narrazioni più sottilmente politiche, la sua opera ha sempre intercettato i punti ciechi della società americana: le derive autoritarie, la precarietà della memoria storica, la trasformazione della paura in linguaggio pubblico. Lo ha fatto senza proclami, senza ideologia, ma con una chiarezza morale che oggi appare sempre più rara. Che King non sia stato finora legittimato dalle grandi istituzioni letterarie è dunque sintomo di un problema più ampio. Non riguarda solo lui, ma il modo in cui continuiamo a definire, o a restringere, il concetto stesso di letteratura. La sua esclusione non è un semplice errore di valutazione: è l’effetto di un dispositivo culturale che associa la popolarità alla banalità, la leggibilità alla superficialità, il genere al consumo. Un dispositivo che continua a difendere la torre d’avorio mentre il mondo letterario si muove altrove. Se gli accademici di Svezia ambiscono ancora a riconoscere non solo l’innovazione formale o l’impegno politico, ma anche la capacità di raccontare l’umano nella sua interezza, allora l’opera di King merita di essere riconsiderata.

Angelo Cennamo

Standard