ORDINE, SOPRAVVIVENZA, CONFLITTO: LA MAPPA DI INFINITE JEST

I luoghi di Infinite Jest sono tre assi narrativi distinti ma intrecciati che delineano una geografia mentale, prima ancora che fisica, ciascuna con una propria logica interna e un codice comportamentale riconoscibile. L’Enfield Tennis Academy rappresenta l’ordine assoluto e la disciplina maniacale, un microcosmo in cui ogni respiro è codificato in termini di performance e rendimento. Le superfici perfettamente lisce, i protocolli meticolosi e il linguaggio tecnico filtrano qualunque impulso spontaneo, rendendo la vita dei giovani atleti un esercizio costante di controllo e perfezione. All’ETA, le giornate sono scandite da allenamenti rigorosi, esercizi di precisione e tornei interni. L’aria che si respira è pesante: ogni gesto, anche il più banale, è osservato e valutato, e le dinamiche tra i ragazzi oscillano tra competizione e cooperazione sotto l’occhio vigile degli allenatori. La scuola costruisce un mondo claustrofobico, dove la disciplina e la tecnica diventano criteri di valore e appartenenza, e i sentimenti, se non soppressi del tutto, devono adattarsi ai ritmi ossessivi del rendimento. Mario, il fratello vulnerabile e compassionevole di alcuni allievi, introduce un contrappunto emotivo nelle scene in cui emerge, ricordando al lettore che al di là della perfezione tecnica esiste una dimensione umana della cura e della compassione, che l’ETA tende a comprimere o ignorare.

La Ennet House, al contrario, è il regno della fragilità e della continuità. Qui il tempo non è scandito dalla prestazione, ma dalla sobrietà: il fine non è eccellere, ma restare sobri oggi e domani, e imparare a convivere con le proprie debolezze. Don Gately incarna questa filosofia: ex violento, ora custode e pilastro della comunità, la sua presenza dimostra come la responsabilità reciproca e l’attenzione al prossimo siano il cuore della sopravvivenza. Le scene che lo vedono impegnato nei compiti di sorveglianza, nella cura dei nuovi arrivati e nelle difficili sedute di riabilitazione rivelano l’importanza delle parole e dei silenzi condivisi nel tessere una rete di sostegno che permette a individui fragili di reggersi l’uno sull’altro. Gli spazi stessi, ordinari e permeabili, costringono alla prossimità e all’interazione: il salone comune, le cucine, le stanze da letto diventano luoghi di confronto e confronto interiore, dove la vulnerabilità non è un limite da superare, ma la materia stessa della socialità. Le routine dei gruppi di supporto, le confessioni ripetute e le procedure di riabilitazione diventano rituali che scandiscono l’equilibrio quotidiano; scene come le serate di AA o le crisi improvvise di alcuni ospiti mostrano come la resilienza possa assumere forme lente, silenziose eppure potentissime, lontane dall’ostentazione del successo.

L’Arizona separatista introduce invece una dimensione geopolitica che espande la portata del romanzo al di là della biografia individuale. Qui, nei dialoghi tra M. Hugh Steeply e il triplogiochista Marathe, emerge un mondo di scontri ideologici e strategici, di resistenze e sabotaggi, che riflette su scala macro ciò che ETA e Ennet House mostrano su scala micro. Le operazioni clandestine, le scelte tattiche e le conversazioni cariche di ambiguità morale rendono concreto un territorio che è sicuramente più confine ideologico che geografico, uno spazio in cui le identità regionali, le lealtà e le strategie di opposizione sono costantemente messe alla prova. L’Arizona, nelle sequenze dedicate a questi complotti, diventa uno spazio di conflitto e disfunzione: i separatisti sfidano l’ordine percepito come oppressivo, mettendo in luce il lato più oscuro e violento della politica e della ribellione, in contrasto con la disciplina maniacale di ETA e la fragile solidarietà di Ennet House.

Considerati insieme, questi posti delineano una mappa coerente in cui ogni polo rappresenta un approccio diverso al limite: dominarlo, sopravvivergli o opporvisi. Le tensioni tra questi assi strutturano l’intera architettura del romanzo, la cui geografia riflette con precisione le dinamiche interiori di ciascuno dei personaggi e le contraddizioni del mondo che li circonda. Ogni luogo è un punto di osservazione privilegiato sul rapporto tra libertà e costrizione, tra desiderio e dipendenza, tra autodisciplina e autodistruzione; una lente attraverso cui leggere e comprendere le strategie più stravaganti legate alla trama.

Angelo Cennamo

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DISTURBO DELLA QUIETE PUBBLICA: RITRATTO DI UN ANTIEROE AMERICANO

“Era cresciuto fuggendo dalla realtà e sarebbe stato così per tutta la vita”, così Richard Yates apre Disturbo della quiete pubblica, imprimendo fin dalle prime righe il tono di una narrazione che esplora con spietata lucidità i limiti dell’uomo comune nella società americana del dopoguerra. La frase sintetizza non solo la condizione esistenziale del protagonista, John Wilder, ma diventa una sorta di mantra per l’intera opera di Yates: l’inevitabile fuga dalla realtà come cifra della vita borghese americana, un tentativo vano di sottrarsi alle pressioni sociali e alle proprie incapacità. Wilder, in tal senso, si configura come un perfetto antieroe yatesiano: un uomo ordinario, logorato dall’alcol, da un matrimonio fallito e da una carriera mediocre, oppresso da un costante senso di inadeguatezza che permea ogni scelta e gesto della sua vita quotidiana. La sua mediocrità non è solo individuale: è il sintomo di un’intera classe sociale, quella media americana, osservata da Yates con uno sguardo chirurgico e implacabile, capace di mettere a nudo le contraddizioni e le fratture interiori del sogno americano, svelandone l’illusorietà. Il lavoro di Wilder come venditore di spazi pubblicitari per la rivista American Scientist diventa subito metafora di una vita priva di scopo: ogni giornata si ripete nella monotonia di una routine in cui l’uomo sembra ridotto a una funzione meccanica. Questa riduzione dell’esistenza a mero automatismo richiama da vicino le riflessioni sulla condizione borghese presenti anche in altri autori, penso soprattutto a John Cheever e Philip Roth, che, pur con stili diversi, indagano come Yates la solitudine, l’alienazione e l’illusione di controllo nella vita americana di quegli anni. Ma in Yates il tono è molto più aspro e senza via di fuga. Il conflitto tra l’ideale sociale e la realtà personale si manifesta con estrema crudezza nella scena in cui Wilder chiama la moglie Janice da un bar per confessare le proprie infedeltà e la sua assenza. L’episodio è drammatico e grottescamente comico al tempo stesso, incarnando quel tono di tragicommedia che Yates padroneggia con straordinaria abilità: la vita dei suoi personaggi è una continua oscillazione tra desiderio di riscatto e fallimento inevitabile, tra momenti di grande sincerità e cadute imbarazzanti o autodistruttive. In questo senso, Wilder richiama le figure dei coniugi Wheeler di Revolutionary Road: individui intrappolati in realtà che non li accolgono né li comprendono, costretti a confrontarsi con le proprie incapacità emotive e con un sogno di realizzazione personale che si rivela sempre più sfuggente. La somiglianza non si limita alla dinamica familiare, ma si estende al tema centrale dell’illusione della middle class: entrambi i romanzi delineano la tragicità di vite apparentemente normali, in cui il peso delle convenzioni sociali diventa insostenibile. L’alcol, per Wilder, è contemporaneamente rifugio e condanna: lo stordisce, lo protegge dall’angoscia di una vita sempre in salita, ma allo stesso tempo consuma le sue possibilità di cambiamento. Il suo ricovero al reparto psichiatrico del Bellevue Hospital si configura come microcosmo di caos e sofferenza, un luogo in cui i codici di comportamento si dissolvono e dove l’uomo si confronta con il proprio fallimento in forma cruda e ineludibile. È in questi frangenti che Yates dimostra la sua capacità di modulare registri diversi: la scena è a tratti assurda, a tratti dolorosamente reale, un equilibrio tra comicità nera e psicologia rigorosa. La permanenza in ospedale, più lunga del previsto, diventa metafora di un’esistenza sospesa, in equilibrio instabile tra desiderio di normalità e incapacità di abbracciarla. Le figure femminili nel romanzo riproducono un dualismo ricorrente nell’opera di Yates. Janice incarna ordine, stabilità e quotidianità borghese, mentre Pamela rappresenta seduzione, desiderio di fuga e promessa di evasione, ma anche illusione destinata a infrangersi. La tensione tra queste polarità ricorda le aspirazioni frustrate di April Wheeler e permette a Yates di esplorare il peso delle convenzioni sociali sulla vita singola. In questo senso, il romanzo dialoga implicitamente con altre opere contemporanee che indagano la condizione femminile e le tensioni familiari, dalle vicende di Sylvia Plath a quelle di Joan Didion, storie che evidenziano come le aspettative sociali spesso comprimano l’individuo in ruoli predefiniti e soffocanti. Determinante è anche il contesto storico: la New York e l’America dei primi anni Sessanta, immerse nel boom economico e nella retorica del progresso, sono lo sfondo perfetto per esaltare la facciata borghese e nel contempo nascondere fallimenti, rimpianti e solitudini. L’apparente prosperità diventa così specchio di un’illusione collettiva: l’American Dream è accessibile solo in superficie, mentre nella vita quotidiana si annidano disillusioni silenziose e insoddisfazioni profonde. In questo scenario, la felicità appare come un privilegio fin troppo raro a chi, come Wilder, è incapace di confrontarsi anche con sé stesso.

Angelo Cennamo

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LA LEGGENDA DI ERIC CLIPPERTON

È una delle figure più inquietanti e al tempo stesso tragicamente grottesche dell’universo creato da David Foster Wallace in Infinite Jest. La sua presenza nel romanzo, pur limitata a poche scene e ad aneddoti raccontati di seconda mano, assume un peso sproporzionato: una sorta di risonanza cupa che attraversa le dinamiche dell’Enfield Tennis Academy e riflette, in modo distorto, molte delle ossessioni centrali del libro: la performance, la pressione dell’eccellenza, il bisogno di riconoscimento e la fragilità dell’identità. Eric Clipperton – curiosa l’assonanza con Eric Clepton – è un giovane tennista dal talento incerto, mai descritto come realmente promettente, ma animato da una determinazione assoluta, che Wallace tratteggia sin da subito come una forma di dedizione patologica. La sua strategia è ormai parte della mitologia dell’ETA prima ancora che egli vi metta piede: a ogni torneo Eric si presenta armato di una Glock 17 semiautomatica, ben pulita e sempre visibile, che di tanto in tanto punta alla tempia con gesto plateale dichiarando, senza esitazione, che si ucciderà qualora dovesse perdere. Il risultato è un sistema paralizzato: nessun avversario osa competere davvero, gli incontri terminano prima ancora di cominciare e Clipperton accumula vittorie automatiche che proprio per questo non generano alcun punteggio ufficiale. Successi vuoti, privi di valore tecnico, che non producono ranking né alcun reale prestigio. Wallace mostra come dietro questa assurdità si nasconda un bisogno disperato di validazione. Clipperton non cerca la vittoria in sé ma ciò che essa dovrebbe rappresentare: essere finalmente visto, riconosciuto, legittimato in un ambiente in cui l’identità sembra coincidere con il rendimento agonistico (all’ETA essere visti è la forma suprema di esistenza). Il desiderio di Eric però nasce già fallito, perché ogni suo trionfo si rivela un inganno evidente: gli altri tennisti lo evitano, gli adulti non sanno come relazionarsi, e lui stesso percepisce la natura fraudolenta della sua ascesa. Wallace ne fa una figura che vive in uno stato di drammatica autocoscienza: Eric sa di essere al centro dell’attenzione, ma per ragioni aberranti; sa di aver conquistato un posto, ma solo attraverso una minaccia che lo condanna all’emarginazione. Il suo ingresso-non-ingresso all’Enfield Tennis Academy, accolto con una combinazione di perplessità e imbarazzata deferenza, segna il punto di massimo paradosso della sua vicenda. All’ETA Clipperton ottiene ciò che aveva sempre inseguito: il riconoscimento ufficiale come giovane promessa, l’inclusione in un’istituzione prestigiosa, la possibilità di far parte di una comunità che elegge il rendimento a unità di misura universale. Ma proprio lì, nel luogo simbolo della meritocrazia ferrea di Infinite Jest, la finzione del suo talento non può più reggere. Privo della minaccia che lo rende imbattibile, Clipperton si trova improvvisamente esposto alla verifica della realtà: non ha basi tecniche solide, non ha una personalità capace di sostenere le pressioni dell’ETA, non ha strumenti psicologici per esistere al di fuori della sua stessa strategia estrema. Il confronto con gli altri tennisti dell’ETA rende ancora più evidente la natura aberrante del suo percorso. Hal Incandenza, ad esempio, è l’opposto speculare di Clipperton: un talento autentico che soffre però di un’invisibilità diversa, quella emotiva e linguistica, una dissociazione che lo rende incapace di essere compreso nonostante eccella in senso puro. Mentre Hal teme che gli altri non vedano la sua interiorità, Clipperton teme di non essere visto affatto, e per questo costruisce un’identità tanto ingombrante quanto insostenibile. Anche personaggi come Ortho Stice o Michael Pemulis contribuiscono a illuminare la posizione di Clipperton: Stice, con la sua ascesa silenziosa e il suo talento lavorato, rappresenta la forma tradizionale e accettabile dell’ambizione, una dedizione quasi ascetica; Pemulis, con la sua intelligenza dirompente e manipolatoria, mostra come la pressione dell’ETA possa essere deviata in modi creativi e autodistruttivi, ma ancora all’interno di un codice condiviso. Clipperton invece si colloca totalmente fuori dalla grammatica del luogo: non infrange una regola, distrugge l’intero gioco. È una presenza che espone brutalmente l’assurdità dell’istituzione, proprio perché ne porta all’estremo la logica: se la competizione ti definisce, allora lui sceglie di definire la competizione stessa con un ricatto letale. Il contesto paranoico dell’ETA amplifica la sua figura fino a farne un simbolo. I ragazzi vivono in una tensione costante, tra allenamenti massacranti, aspettative familiari smisurate e un sistema che misura il valore umano in termini di ranking, classifiche, punti. Ogni gesto è osservato, valutato, interiorizzato fino alla nevrosi. La paranoia è quasi ontologica: si ha la sensazione che ogni tennista viva con un pubblico immaginario costante, un coro silenzioso che giudica, confronta, registra. Clipperton non introduce la paranoia all’ETA: la rende semplicemente visibile, concreta, armata. È la materializzazione di un impulso già presente in tutto il romanzo, la pulsione a performare non per migliorarsi, ma per evitare la catastrofe dell’insignificanza. In questo scarto devastante tra ciò che aveva desiderato e ciò che effettivamente trova, emerge il tratto più tragico del personaggio. Clipperton non riesce a sostenere il peso della sua leggenda, perché quella leggenda è sempre stata un’arma puntata contro se stesso. Il suo suicidio, raccontato da Wallace con una miscela di terribile inevitabilità e ironia nera, chiude una parabola che ha il tono di una farsa diventata tragedia. La sua morte avviene poco dopo essere stato finalmente “classificato” dall’USTA, come se l’ottenimento tardivo e burocratico del riconoscimento tanto agognato rendesse improvvisamente inutile la sua esistenza: la promessa è compiuta, e proprio per questo non serve più. In poche pagine, Wallace costruisce un personaggio che distilla molte delle contraddizioni del romanzo: la ricerca ossessiva dell’eccellenza che si trasforma in autodistruzione; il desiderio di essere visti che si capovolge in un isolamento moralmente asfissiante; la logica della competizione come dispositivo che annulla la persona. Eric Clipperton è il punto in cui la macchina del rendimento implode, il luogo dove l’ossessione si rivela per quello che è: un culto che, portato alle sue estreme conseguenze, non produce campioni, ma fantasmi.

Angelo Cennamo


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HUCK, HOLDEN, PORTNOY: ARCHETIPI DI RIBELLIONE E DI NUOVA MORALITÀ NELLA LETTERATURA AMERICANA

Nella storia letteraria degli Stati Uniti si riconosce una continuità sotterranea che accomuna alcune delle sue figure più persistenti: giovani protagonisti capaci di leggere la società ed esporne tensioni morali, ambivalenze simboliche e fratture culturali spesso rimosse dal discorso ufficiale. Non si tratta della generica figura del “giovane” ma di un soggetto liminale, sospeso tra integrazione e rifiuto, che disturba le superfici ordinate dell’immaginario. Ogni volta che rischia di compiacersi della propria maturità, la letteratura finisce per reintrodurre il disordine attraverso una voce non ancora pienamente assoggettata alle logiche adulte, una voce che vede ciò che gli adulti non vogliono o non sanno osservare. Guardando a questo archetipo in prospettiva genealogica o evolutiva, distinguiamo tre fasi principali, ciascuna modellata nel e dal proprio contesto storico, sociale e culturale: dall’innocenza esposta alla violenza della frontiera, alla malinconia inquieta della modernità, fino alla complessità iperanalitica dell’età ipermoderna. Nella fase della frontiera, l’America ancora in formazione offre al giovane ribelle uno spazio reale prima che simbolico: il giovane è un corpo immerso nel paesaggio, un organismo sensoriale che registra la concretezza dell’esperienza e riconosce l’ipocrisia di istituzioni appena nate. Il suo pensiero critico è implicito e spontaneo: la ribellione si manifesta in fughe, deviazioni, rifiuti immediati. Questa radicalità ingenua lo rende una sorta di rivelatore morale. La fuga verso la natura è fuga dall’ordine sociale, una pretesa di nuova civilizzazione spesso accompagnata dall’uso della violenza o da una serie di contraddizioni. La frontiera diventa così un laboratorio in cui si testano i limiti della legge e della convivenza civile. Huckleberry Finn non è contro la società per principio, lo è perché ne registra le distorsioni con una sensibilità diretta e senza filtri. Nella fase della modernità novecentesca, la frontiera fisica scompare, le città si impongono con i loro codici rigidi e la ribellione deve spostarsi nella coscienza. Il giovane ribelle diventa un soggetto che percepisce la falsità dell’ambiente con un’intensità quasi patologica: la fuga si trasforma in riflessione e il linguaggio diventa la sua arma principale. Holden Caulfield non può scappare verso la natura come Huck; la sua opposizione è psicologica e verbale. Il suo disagio interiore rivela le ipocrisie della società borghese e diventa una lente per leggere la nuova America, denunciando la distanza tra promessa di prosperità e malessere reale, tra l’illusione di felicità e l’angoscia esistenziale. Con la fase ipermoderna, l’archetipo cambia ancora: non più giovani che resistono all’integrazione, ma adulti che portano dentro di sé un’adolescenza irrisolta, segnata dal peso dell’identità culturale, dal desiderio e dalla sovraesposizione mediatica. La ribellione si palesa con un flusso discorsivo sovraccarico, un monologo autoanalitico e spesso parodico attraverso cui il soggetto tenta di liberarsi da aspettative familiari e pressioni sociali. Alexander Portnoy incarna questa condizione: la sua lotta non è più contro una società esterna percepita come ipocrita, ma contro le proprie contraddizioni interne, le frustrazioni psichiche e la complessità dei codici ipermoderni. La sua ribellione non cerca la libertà fisica di Huck né la verità morale di Holden, ma una forma di sopravvivenza psichica in un mondo eccessivamente complesso e competitivo. In questo modo Huck, Holden e Portnoy rappresentano tre momenti di una stessa ricerca di verità: sociale, emotiva, identitaria. Il primo smaschera la brutalità sotto l’innocenza nazionale, il secondo la falsità levigata della modernità borghese, il terzo l’instabilità dell’individuo alle soglie della rivoluzione sessuale, diviso tra emancipazione e nevrosi. La loro triade non racconta soltanto tre storie, ma la storia morale di un paese che non smette di interrogare la propria adolescenza culturale. 

Angelo Cennamo






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L’INVERNO DI FRANKIE MACHINE – DON WINSLOW

La qualità della vita, suggerisce l’incipit culinario del romanzo, si misura nei gesti minimi ma essenziali, quelli che Frankie Machianno compie con una calma che è disciplina, rituale e autodifesa: una padellina, un uovo, un bagel alle cipolle tagliato con precisione. In questo rituale quotidiano si annida la chiave del personaggio: un uomo che ha bisogno di ordine per tenere a bada ciò che è stato, un ex “strumento” perfetto della famiglia mafiosa californiana che ora vive come un pensionato operativo del molo di San Diego. Ma Winslow non costruisce mai questa doppia identità come una contraddizione melodrammatica: è piuttosto un processo organico, quasi naturale, come se Frankie fosse sempre stato entrambe le cose. Il romanzo restituisce questa compresenza attraverso la routine diurna: l’apertura del negozio di esche, le chiacchiere con i pescatori, le consegne ai ristoranti, l’occhio sempre un po’ vigile sugli immobili che amministra. Frankie lo vediamo organizzare ogni segmento della giornata con la stessa perizia che un tempo dedicava ai suoi incarichi criminali. Il surf è un elemento centrale non perché romantico, ma perché fisico. Nell’Ora dei Gentiluomini, quando i ragazzi sono al lavoro e la costa appartiene ai veterani della tavola e della vita, Frankie non cerca adrenalina; cerca un ritmo che gli permetta di misurare lo spazio, la distanza, la possibilità. È un capitolo non esplicitato ma costante della sua autobiografia emotiva. Winslow descrive l’oceano con una precisione che ricorda la sua attenzione maniacale per i dettagli del mondo del crimine, come se il mare fosse una vecchia mappa da interpretare. Quando il romanzo lascia entrare l’altro tempo della vita di Frankie, quello degli anni neri, lo fa tramite persone, rapporti, nomi che hanno un peso e un odore. I boss californiani, i gruppi che orbitavano tra Las Vegas, Tijuana, Hollywood e Pacific Beach, formano un reticolo che Winslow sa delineare con concretezza: non si percepiscono come fantasmi lontani ma come presenze che continuano a muoversi nelle pieghe della costa. E sono proprio le dinamiche interne a quel mondo, in particolare i residui conflitti fra vecchi clan e nuove famiglie che cercano di impossessarsi di settori borderline come il porno professionale, a costituire uno sfondo credibile, storico, quasi documentale. Non c’è la grandeur geopolitica de Il potere del cane né l’impalcatura internazionale de Il cartello: qui tutto è locale, radicato, fatto di facce, parcheggi, bar, magazzini, telefoni che suonano ancora nei luoghi dove gli affari sporchi erano condotti a voce. Questa aderenza topografica dà al romanzo un realismo urbano tangibile. Un altro elemento forte è l’intreccio dei rapporti affettivi. Frankie non è un duro solitario à la Chandler, e Winslow lo ribadisce attraverso figure come Donna, compagna più giovane, complessa, sensuale ma mai ridotta a cliché. La loro relazione è costruita con una cura che tiene insieme ironia, attrazione, consapevolezza dell’età e una dolcezza che stride volutamente con l’immagine di un uomo che in passato “lavorava” con una freddezza chirurgica. La figlia Jill, pur apparendo meno, è il vero punto di contatto fra ciò che Frankie vorrebbe diventare e ciò che teme di essere ancora. Winslow non fa leva sul sentimentalismo, ma su un ambivalente senso di responsabilità vissuto con pudore, quasi come se Frankie si sentisse un intruso nella propria stessa paternità. Dal punto di vista stilistico, il romanzo lavora molto sulla qualità del movimento: ogni scena sembra costruita per mostrare come Frankie occupi lo spazio. Non è semplice descrizione ma caratterizzazione. Il modo in cui parcheggia, entra in un locale, valuta una stanza, riconosce un volto che non vede da vent’anni: tutti piccoli elementi che Winslow usa come strumenti di rivelazione psicologica. La prosa è più controllata e precisa rispetto ai romanzi successivi più ampi e corali; il ritmo alterna dolcezze intime a tensioni secche, gli scambi di dialogo hanno un’ironia pacata. Rispetto ai romanzi epici sul narcotraffico, qui il campo è ristretto ma più profondo: Winslow non osserva un sistema, osserva un uomo che porta quel sistema sulla pelle, nei muscoli, nella memoria. Ed è proprio questa aderenza alla carne del personaggio: ai suoi ritmi, alle sue abitudini, ai suoi timori, che permette al testo di avere una densità tutta sua. Così, nell’arco di un romanzo che non rivela mai i suoi colpi di scena ma costruisce un crescendo di pressione sotterranea, il lettore finisce per conoscere Frankie come si conoscono poche figure della fiction criminale contemporanea: non come un archetipo, ma come una persona piena di contraddizioni e una sorprendente forma di grazia quotidiana. È questo che rende L’inverno di Frankie Machine un’opera tanto connessa al suo protagonista: tutto ciò che accade, tutto ciò che accadrà, viene filtrato attraverso la sensibilità di Frankie, la sua esperienza e il suo modo unico di tenere insieme, ogni mattina, un uovo, un surf e un passato che non vuole più governarlo ma che non smette di cercarlo.

Angelo Cennamo

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L’ECO DELL’EROS: ITINERARIO NELLE FERITE DI RABBIT E SABBATH

John Updike e Philip Roth, spesso percepiti come poli complementari di una stessa costellazione letteraria, appartengono a una generazione che ha indagato senza pudori le contraddizioni della mascolinità americana del secondo Novecento, esponendone insieme splendori e miserie, desideri e collassi, ambizioni spirituali e voracità carnali, fino al punto che David Foster Wallace – in un commento spesso attribuitogli, benché circolante più come formula critica che come citazione verificata – avrebbe definito Updike “un pene con un grosso vocabolario intorno”, cogliendo al volo la centralità del corpo maschile e dei suoi impulsi nella narrativa di entrambi gli autori. Ma al di là della caricatura brillante, ciò che davvero accomuna Updike e Roth non è la semplice prurigine tematica, bensì la capacità di trasformare il desiderio in una lente che attraversa decenni di storia americana, illuminando i legami tra sessualità, potere, nevrosi e identità individuale. Nei romanzi di Updike, e in particolare nella monumentale tetralogia di Rabbit, in cui la figura di Harry “Rabbit” Angstrom diventa una sorta di sismografo umano della cultura statunitense, assistiamo alla costruzione di un’epopea domestica di rara ampiezza. In Corri, Coniglio, Updike mette subito in scena una fuga che è metafora permanente: l’abbandono improvviso della moglie Janice, una fuga che esplode nella celebre scena dell’incidente in cui Janice, ubriaca, lascia annegare sua figlia nella vasca. Questo episodio non è solo un momento di shock narrativo, ma la rappresentazione simbolica della frattura irreparabile tra l’anelito vitalistico di Rabbit e le responsabilità che non riesce a sostenere. Ne Il ritorno di Coniglio, Updike scava nelle tensioni politiche e razziali degli anni Settanta attraverso la convivenza di Harry con Skeeter, il giovane afroamericano radicalizzato, mostrando come il corpo e la casa di Rabbit diventino il teatro di un’America che implode dall’interno. In Sei ricco, Coniglio e Riposa, Coniglio, la parabola si chiude nel trionfo del benessere e nel disfacimento fisico: la famosa scena del negozio di Toyota, in cui Rabbit assapora il potere effimero del successo economico, trova il suo contraltare nella sequenza finale in cui, obeso e affaticato, cede all’ultimo desiderio – una partita di basket – che gli costa la vita. L’intera serie mostra come Updike utilizzi il corpo maschile come diario vivente della nazione: le pulsioni di Rabbit sono quelle dell’America suburbana, la sua vitalità è la vitalità del boom, la sua dissoluzione è la dissoluzione di un’idea di felicità borghese. Se Updike è cronista lirico della normalità inquieta, Roth è il grande sabotatore della rispettabilità, e Il teatro di Sabbath ne è il manifesto. Mickey Sabbath non è solo un uomo che vive di provocazioni: è un performer della propria degradazione. Una delle scene più potenti del romanzo è quella in cui Sabbath, seduto al cimitero davanti alla tomba dell’amante Drenka, inscena una sorta di dialogo estatico e blasfemo con il corpo assente della donna, fondendo eros, lutto e autocommiserazione in un’unica performance indecente. Questa scena non è gratuita: è la dimostrazione di come Roth utilizzi l’oltraggio come strumento conoscitivo, come mezzo per far emergere ciò che resta se si strappano tutte le maschere sociali. Altro momento chiave è il ritorno di Sabbath nella casa d’infanzia, dove la memoria del fratello morto in guerra si intreccia con una regressione quasi infantile: qui Roth mostra che il nichilismo del protagonista non nasce da pura volgarità, ma da una ferita originaria che ha corroso la possibilità di un ordine morale stabile. Sabbath è il contrario speculare di Rabbit: dove Rabbit fugge dalla responsabilità, Sabbath vi sputa sopra; dove Rabbit cerca un altrove, Sabbath abita ostinatamente nel caos; dove Rabbit subisce la trasformazione del mondo, Sabbath la sfida a duello. Eppure, entrambi sono imprigionati da un desiderio che non dà loro libertà, ma che li vincola a un’idea ormai obsoleta di mascolinità, una mascolinità che la rivoluzione sessuale ha liberato e allo stesso tempo svuotato, lasciando i loro protagonisti sospesi tra onnipotenza immaginata e fragilità reale. Se si osserva con attenzione, molte delle scene più iconiche dei due autori ruotano attorno a momenti di imbarazzo corporeo, di collasso morale o di consapevolezza improvvisa del proprio ridicolo: in Updike la partita di golf in Sei ricco, Coniglio, in cui Harry percepisce l’abisso tra il suo benessere materiale e la sua miseria interiore; in Roth la telefonata oscena intercettata nel romanzo di Sabbath, in cui la volgarità diventa detonatore di una riflessione sulla sorveglianza, sul controllo sociale e sul fallimento del privato. Entrambi gli autori usano queste scene come punti di torsione drammaturgica: momenti in cui la maschera virile si incrina e rivela un uomo stanco, terrorizzato dall’insignificanza, incapace di accettare la fine della giovinezza e l’intrusione del mondo reale nei sogni di potenza erotica. L’accusa di machismo che spesso è stata rivolta a Updike e Roth appare allora riduttiva: la loro scrittura non celebra la virilità, la smaschera. Nei loro romanzi il corpo maschile non è tanto un trofeo, quanto un bersaglio; non è un modello eroico, ma un dispositivo narrativo che permette di far collassare dall’interno le certezze di un’intera cultura. Rabbit e Sabbath, pur così diversi, condividono la natura di personaggi liminali, figure di passaggio tra un’America ancora convinta della propria centralità morale e un’America che scopre di essere attraversata da colpe, contraddizioni e desideri impossibili da controllare. Updike, con la sua prosa sontuosa e luminosa, tenta di catturare ogni vibrazione dell’esistenza; Roth, con la sua lingua abrasiva, prova a distruggere ogni illusione di ordine. Ma entrambi, da lati opposti della stessa frontiera stilistica, mostrano come la mascolinità sia una narrazione fragile, un racconto che gli uomini si impongono per sopravvivere e che la letteratura, soprattutto quando è grande, deve smontare pezzo dopo pezzo, scena dopo scena, desiderio dopo desiderio, fino a rivelare ciò che resta quando l’epica del maschio americano implode sotto il peso della propria stessa leggenda.

Angelo Cennamo


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LA POETICA DEL DISAGIO, FRANZEN E GLI ALTRI

In Zona disagio, Jonathan Franzen racconta la propria formazione nella cittadina di Western Springs (Illinois), un contesto suburbano americano degli anni ’60 e ’70, con una trasparenza che sfiora l’imbarazzo della memoria. Franzen evita consapevolmente ogni abbellimento romanzesco, affidandosi alla concretezza dei luoghi e delle persone con le quali è cresciuto. La precisione dei dettagli, la naturalezza dei gesti quotidiani e l’ordine domestico formano un quadro etico implicito, quasi una grammatica della vita, in cui la conformità è una norma fondamentale. In un contesto del genere non ci sorprende che i genitori di Franzen emergano come figure emblematiche della società americana del dopoguerra. Il padre, ingegnere silenzioso e impenetrabile, incarna la disciplina e la rigidità emotiva tipica di una cultura patriarcale e tecnocratica; la madre, energica e ipercompetente, trasforma la gestione domestica in una strategia di sopravvivenza, dove il controllo degli spazi e delle regole diventa mezzo di autodifesa e affermazione. La narrazione di Franzen si concentra sugli effetti psicologici di questo ambiente: le ore trascorse in solitudine nei musei di Chicago, la goffaggine negli sport scolastici, l’incapacità di decifrare le complesse dinamiche sociali dei coetanei. Il disagio che traspare è discreto e radicato nella ritualità di giornate tutte uguali, una struttura mentale più che un semplice ricordo: la forma iniziale di ciò che diventerà la poetica dell’autore, fondata proprio sull’osservazione minuta delle tensioni sottili tra individuo e società. Questa matrice formativa trova una fedele continuità nei romanzi successivi. I Lambert di Le correzioni non sono mere trasposizioni dei genitori di Franzen, ma incarnano l’ambiente etico e affettivo delineato proprio in Zona disagio. Alfred, che tenta piccole riparazioni nonostante la malattia e si perde nelle allucinazioni depressive, rappresenta la rigidità trasformata in identità. Enid, ossessionata dal Natale perfetto e dal ritorno dei figli alla casa di St. Jude, traduce in gesto narrativo le stesse aspettative implicite dell’infanzia dell’autore. Nelle scene in cui la famiglia si raduna intorno al tavolo, incapace di comunicare senza ferirsi, riecheggiano i silenzi ordinati che avevano scandito l’infanzia di Jon. Chip Lambert, a sua volta, manifesta il senso di inadeguatezza intellettuale e sociale già presente nel memoir: le disastrose esperienze universitarie, la fuga in Lituania e la difficoltà a gestire desideri e aspettative sono sviluppi logici di una timidezza originaria, che nel giovane Franzen si manifesta come nervosismo, autocritica e iperconsapevolezza del giudizio altrui. La lettura di Franzen diventa particolarmente interessante se collocata in dialogo con i suoi coetanei.

David Foster Wallace, cresciuto in un Midwest simile, reagisce al medesimo contesto familiare e sociale in maniera diametralmente opposta. In Infinite Jest, la sofferenza psicologica si traduce in sovraccarico cognitivo e verbale: Hal Incandenza incarna una coscienza ossessiva che implode sotto il peso di sé stessa. Franzen, invece, racconta il disagio come attrito tra ciò che si sente e ciò che si riesce a dire: implosione contro esplosione. Se Wallace mostra l’ansia americana come patologia del troppo – una mente iper-analitica, costantemente in tensione – Franzen espone la ferita del troppo poco, la frustrazione dell’ordinario, la difficoltà di essere all’altezza delle aspettative sociali e familiari. Questa differenza si inscrive anche in un approccio stilistico: Franzen privilegia la linearità narrativa e la costruzione di un realismo dettagliato, mentre Wallace gioca con la frammentazione, il collage linguistico e la saturazione di informazioni come specchio della mente contemporanea.

Jeffrey Eugenides, anche lui originario del Midwest, propone un’altra variazione generazionale significativa. In Middlesex, l’identità diventa dramma di metamorfosi: il punto di rottura della protagonista è la consapevolezza biologica di sé, un evento straordinario al centro della narrazione. Franzen non avrebbe mai posto un episodio di tale portata al centro dei suoi romanzi, poiché il suo interesse risiede nelle deformazioni quotidiane della vita domestica e nei piccoli traumi dell’esistenza ordinaria. Tuttavia, Eugenides condivide con Franzen la stessa attenzione alla pressione familiare e al peso del passato: in entrambe le opere, la storia privata esercita un’influenza costante sulla formazione degli individui, modellandone scelte, ansie e aspirazioni.

In linea affine, il newyorkese Jonathan Lethem. Il suo romanzo più noto, La fortezza della solitudine, esplora un senso di estraneità urbana e razziale. Dylan Ebdus che vaga confuso per Brooklyn richiama il giovane Franzen che cerca di ritagliarsi un posto nel mondo scolastico e sociale della sua infanzia: entrambi mostrano la difficoltà di integrarsi in contesti che oscillano tra desiderio di appartenenza e consapevolezza delle proprie differenze. Queste consonanze evidenziano una linea generazionale chiara: un gruppo di scrittori americani cresciuto tra gli anni ’60 e ’70, immerso in contesti suburbani e urbani simili, che traduce quel misto di noia e timidezza in letteratura. Pur con differenze di tono, strategia narrativa e soggetti, Franzen, Wallace, Eugenides e Lethem condividono un interesse per il peso delle strutture familiari, l’alienazione dalla società e la fragilità individuale che caratterizza la coscienza post-boomer. Franzen, tuttavia, si distingue per il rigore con cui osserva il quotidiano: il disagio, nel suo caso, è misurato nelle piccole asperità, negli errori invisibili, nei tentativi falliti di comunicare e comprendere. Questa sensibilità si mantiene coerente anche nei romanzi più recenti. In Libertà, Patty Berglund rivive rivalità sportive, amicizie tradite e l’imbarazzo per la sua doppia vita con Richard, il migliore amico del marito. In Purity, Pip si confronta con la complessità opaca del mondo digitale e con il carisma enigmatico di Andreas Wolf, in una versione contemporanea dell’incapacità di orientarsi nel mondo già sperimentata dal giovane Franzen negli anni ’70. Crossroads, primo capitolo della trilogia A Key to All Mythologies, amplia e approfondisce la geografia emotiva del disagio franzeniano. Ambientato nei primi anni Settanta, il romanzo segue la famiglia Hildebrandt, un altro nucleo familiare disfunzionale. Qui Franzen radicalizza il proprio interesse per le microfratture quotidiane, dispiegandole attraverso cinque punti di vista che rivelano un caleidoscopio di vulnerabilità. Russ Hildebrandt, pastore protestante in crisi spirituale, esprime un disagio adulto, specchio di quello che gravava sulla figura paterna nel memoir: un malessere fatto di ambizioni frustrate, di desiderio di autenticità mai pienamente raggiunto. Marion, sua moglie, è il personaggio più sorprendente: la sua depressione giovanile, la terapia, la complicata ricostruzione identitaria portano nel mondo franzeniano una voce femminile superba nella sua complessità, che approfondisce quanto in Zona disagio era solo accennato nel ritratto materno. I figli – Clem, Becky, Perry – ripropongono, ciascuno a modo suo, il dilemma centrale della formazione franzeniana: come dare forma a un’identità in un mondo dove ogni aspettativa familiare pesa come una promessa e una minaccia. Perry, in particolare, con il suo acume precoce e la sua inclinazione all’autodistruzione, ricorda le figure maschili ipersensibili e disallineate che popolano l’intera opera dello scrittore: è la versione più lucida e allo stesso tempo più tormentata del giovane Franzen che osserva da fuori i codici sociali senza riuscire ad abitarli davvero. Crossroads introduce anche un elemento nuovo nella poetica dell’autore: la dimensione religiosa. Il gruppo giovanile Crossroads, anziché essere luogo di solidarietà spirituale, diventa arena di gerarchie, desideri repressi e auto-inganni. In questo senso, Franzen mostra come questo “sentirsi fuori posto” non sia solo struttura domestica, ma anche comunitaria, un riflesso delle ambivalenze morali americane alla vigilia della disillusione post-Vietnam. In entrambi i casi – che si tratti degli anni Settanta di Crossroads o della contemporaneità di Purity – non assistiamo a un incidente biografico isolato, ma a una questione generazionale: un filtro attraverso cui osservare il passaggio all’età adulta di una fascia di americani cresciuti in un contesto di promesse di libertà e di norme domestiche restrittive. La forza di Franzen consiste nella misura con cui osserva il mondo: senza teatralità, senza eccessi, con una precisione che illumina le piccole tensioni dell’esistenza ordinaria. La sua scrittura mette in scena il conflitto costante tra aspettativa e realtà, desiderio di appartenenza e incapacità di integrarsi pienamente. In questo senso, Zona disagio non è un testo a sé stante ma il canovaccio di un’intera poetica, il laboratorio emotivo in cui prendono forma i personaggi più noti: da Chip Lambert a Patty Berglund, da Pip Tyler ai giovani Hildebrandt di Crossroads. L’intera produzione di Franzen può essere letta come un’unica lunga indagine sulle forme quotidiane dell’inadeguatezza, sulla confronto scontro tra l’individuo e l’ambiente morale che lo ha generato. E la sua grandezza narrativa consiste nel dare dignità letteraria a questo malessere silenzioso, nella convinzione che nei gesti minimi – una conversazione interrotta, un fraintendimento, un momento di vergogna – si giochi il destino emotivo dei suoi personaggi e, in fondo, della stessa esperienza americana.

Angelo Cennamo

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TATTOO – Earl Thompson

Tattoo si apre su una ferita: una fessura luminosa e dolorosa da cui filtra un’intera esistenza. È attraverso questa fenditura – più che attraverso l’intreccio o la psicologia dei personaggi – che il lettore viene attirato dentro il romanzo, il secondo di Earl Thompson, arrivato in Italia dopo cinquant’anni con Feltrinelli e la traduzione di Tommaso Pincio. A spingerci in avanti non è una semplice curiosità, né il desiderio di reincontrare Jack Anderson, l’indimenticabile protagonista di Garden of Sand, ma il bisogno di misurarci con quella tensione primordiale che regge l’intero testo: la lotta tra una vita vissuta senza rete, esposta a ogni brutalità, e il tentativo di trasformarla in forma d’arte senza attenuarne l’impatto. Thompson non si concede alcun riparo. Le sue scene più estreme: visite notturne che sfociano in ritrovamenti macabri, esplosioni di violenza collettiva nell’ambiente militare, sessualità esibita nella sua dimensione più sgradevole e ferina, non puntano allo scandalo ma a rendere percepibile una realtà che non dà tregua ai suoi personaggi. È la stessa vocazione alla verità spietata che anima gli outsider della narrativa americana del secondo Novecento, penso soprattutto a Hubert Selby Jr., ma anche ad autori distanti per stile e temperamento come Henry Miller, ciascuno impegnato a strappare il velo del comune senso del pudore che separa la letteratura dall’esperienza nuda. Accanto vivono gli echi della grande tradizione realista: Steinbeck, Faulkner, Dreiser, che hanno saputo raccontare la condizione umana senza addolcirla. Thompson ne condivide l’onestà radicale, ma la sua franchezza sessuale, che affronta anche tabù come incesto e stupro, lo relega ai margini della canonizzazione scolastica, giudicato troppo scabroso per entrare nei canoni giusti, troppo disturbante per chi cerca nell’arte un conforto. Eppure, secondo me, non è la materia cruda a costituire la vera forza del romanzo. È piuttosto il modo in cui Thompson la maneggia, cercando di dare ordine a un’esistenza che sfugge a ogni schema o regola. La sua prosa procede per scarti, ripetizioni, deviazioni improvvise: inciampa su dettagli biografici, sembra perdere il filo, poi lo ritrova con una naturalezza che tradisce un’urgenza autentica. In questo movimento irregolare emerge un’autenticità che romanzieri più disciplinati difficilmente raggiungono. I personaggi vivono nella loro pienezza fisiologica (mangiano, dormono, bevono, litigano, lavorano, fanno sesso) restituendo la quotidianità aspra delle classi lavoratrici americane durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Un universo lontanissimo dall’America patinata di certi musical, più vicino invece ai margini ruvidi di gente come Kerouac e Burroughs.

Al centro del romanzo si impone il tema del marchio, della traccia indelebile. Jack cresce convinto che le sue origini (una famiglia disfunzionale, la povertà del West rurale, la marginalità sociale) costituiscano un destino inscritto nella carne. Tattoo rende tangibile l’idea che la vita incida dei solchi così profondi da trasformarsi in identità. Questa visione colloca Thompson nella linea più oscura della narrativa di formazione americana. Il romanzo non è immune da difetti: la struttura appare disgregata, alcune pagine sembrano più il frutto di una fedeltà diaristica che di una necessità narrativa, e l’urgenza del vissuto sovrasta talvolta la costruzione del racconto. Ma è proprio in questo attrito tra caos e forma, tra l’energia scomposta della vita e l’ambizione ordinatrice della scrittura, che si sprigiona la forza unica di Tattoo. Thompson procede con una sincerità così radicale da risultare quasi pericolosa, come se ogni pagina potesse cedere sotto il peso della verità che tenta di affermare. Ed è forse qui che risiede la forza ipnotica del romanzo: non nel percorso di un personaggio, ma nel gesto di un uomo che cerca di dare senso alle proprie ferite. Un gesto imperfetto, a volte contraddittorio, ma sempre autentico. In questa vitalità irregolare, incisa come un tatuaggio sul corpo stesso del racconto, Tattoo trova la sua straordinaria dimensione letteraria e si impone in tutta la sua bellezza. Per quale ragione un romanzo così accecante e vigoroso sia rimasto lontano dall’Italia per mezzo secolo, resta un vero mistero. Ma questa è un’altra storia. 

Angelo Cennamo

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DENTRO IL MISSISSIPPI: TWAIN E LA NASCITA DELLA COSCIENZA LETTERARIA DEGLI STATI UNITI

La vita di Mark Twain sul Mississippi, così come affiora dagli scritti autobiografici, dalle lettere e dal respiro epico dei suoi romanzi, costituisce una matrice narrativa totalizzante: un luogo in cui memoria personale, osservazione sociale e invenzione artistica confluiscono in un flusso continuo, al punto che esperienza vissuta e costruzione letteraria diventano praticamente indistinguibili. In questa prospettiva il fiume assume la funzione di un dispositivo conoscitivo capace di modellare e dotare lo sguardo dello scrittore di una lucidità critica che pochi altri autori ottocenteschi hanno saputo raggiungere. E tuttavia il Mississippi è soltanto uno dei punti di partenza per una riflessione culturale più ampia, perché Twain cresce all’interno di un’America lacerata e in fermento: un Paese impegnato nell’espansione verso Ovest, percorso dalle tensioni prebelliche tra Stati liberi e schiavisti, segnato dalla violenza sistemica della schiavitù e dalla metamorfosi rapida e spesso caotica delle comunità di frontiera. A ciò si aggiunge una modernizzazione disordinata, a volte brutale, che corrode i miti agrari della giovane nazione e ne svela le contraddizioni più profonde.

L’esperienza giovanile di pilota di battelli a vapore, narrata con forza visionaria in Life on the Mississippi (Vita sul Mississippi), offre a Twain molto più che un repertorio di immagini sensoriali: i mulinelli scuri, le nebbie improvvise, le secche mobili, il linguaggio criptico dei capitani, le superstizioni dei marinai, le città-non-città che sorgono e scompaiono lungo le rive. Un vero e proprio laboratorio di formazione intellettuale. La figura del pilota, collocata ai vertici della gerarchia fluviale ma costretta a interpretare un paesaggio mobile e traditore, educa Twain a considerare la realtà come qualcosa di instabile, mai data una volta per tutte, da leggere con attenzione sospettosa, ironica, quasi scientifica. In molte pagine autobiografiche egli paragona esplicitamente il lavoro del pilota a quello dello scrittore: entrambi devono cogliere sotto la superficie un ordine nascosto, interpretare segnali minimi, prevedere variazioni improvvise.

Questo apprendistato epistemologico genera in Twain un metodo narrativo basato sulla coesistenza di osservazione documentaria e invenzione satirica, sulla convinzione che solo la combinazione di precisione e ironia possa rendere il mondo nella sua complessità. Tale metodo si vede già nelle prime cronache giornalistiche, nelle quali Twain alterna descrizioni quasi antropologiche a esplosioni comiche che rivelano la falsità dei miti dell’Ovest o le storture della vita cittadina. Forme diverse – travelogue, reportage, memoir, romanzo picaresco – confluiscono in un’unica sintassi narrativa.

La capacità di leggere tra le righe prepara la rivoluzione stilistica de Le avventure di Huckleberry Finn, che non è un semplice romanzo “del fiume”, ma un laboratorio linguistico e morale in cui Twain porta al centro della letteratura la pluralità dei dialetti, l’oralità popolare, una voce infantile insieme ingenua e straordinariamente lucida, la fusione tra comicità slapstick e improvvise aperture liriche, la critica feroce dell’ipocrisia sociale. La lingua stessa diventa una dichiarazione politica: prima di Twain il dialetto era un ornamento realistico, dopo di lui diventa verità, struttura, posizione ideologica. L’uso del vernacolo afroamericano nel personaggio di Jim, lungi dall’essere mera imitazione fonetica, afferma la dignità espressiva di una comunità marginalizzata, introducendo nel romanzo americano una coralità linguistica inedita. Da qui discende la celebre affermazione di Hemingway secondo cui tutta la narrativa americana moderna nasce da Huckleberry Finn: Twain dimostra che la lingua della nazione non deve imitare modelli europei, ma attingere alle sue fonti vive, irregolari, musicali, anche marginali. Il viaggio di Huck e Jim lungo il Mississippi mappa le contraddizioni morali degli Stati Uniti: la crudeltà quotidiana, la schiavitù normalizzata, la violenza ritualizzata, la fragilità delle istituzioni. Nel momento in cui Huck dichiara di voler “andare all’inferno” pur di non tradire Jim, Twain incrina definitivamente il sistema etico dominante e mostra la possibilità di un’alternativa fondata sul rifiuto dell’ingiustizia piuttosto che sull’obbedienza all’autorità. Molti hanno visto in questo gesto uno degli atti fondativi della modernità narrativa americana, perché segna il passaggio da un’etica letteraria prescrittiva a una fondata sul conflitto interiore e sulla responsabilità individuale. Nemmeno l’infanzia, tuttavia, è per Twain un territorio innocente. Le avventure di Tom Sawyer sovverte le convenzioni del romanzo di formazione, trasformandolo in uno spazio ambiguo, popolato di prove, inganni, atti performativi. Il celebre episodio della staccionata bianca, spesso relegato al ruolo di aneddoto comico, si rivela invece una parabola proto-sociologica sul potere della retorica, sulla costruzione simbolica del valore e sulla capacità dei miti infantili di riflettere le dinamiche manipolatorie del mondo adulto. Le imprese di Tom – la caverna, la banda di ragazzi, il tribunale – sono narrazioni sull’immaginazione come forza sociale, capace di creare e distorcere realtà. Se Tom Sawyer demistifica l’infanzia, Pudd’nhead Wilson (Wilson lo svitato) radicalizza la riflessione sull’identità e sulla razza attraverso uno dei più audaci esperimenti letterari dell’Ottocento: lo scambio dei neonati, l’uso dell’impronta digitale come metafora della ricerca della verità, la dimostrazione che la razza è un costrutto arbitrario e devastante. La satira qui si fa più cupa, alimentata dalla consapevolezza dell’autore di vivere in un’America incapace di liberarsi dai propri fantasmi. Il finale – una parodia tragica delle tragedie giudiziarie americane – rivela la distanza tra verità e giustizia nella società postbellica. È un’opera segnata da un profondo pessimismo, scritta da un autore che vede l’America fallire le promesse della sua democrazia e scivolare verso nuove forme di ingiustizia. Parallelamente Twain amplia lo sguardo oltre il Sud. In Roughing It (In cerca di guai) l’Ovest appare non come il luogo del mito epico, ma come uno spazio caotico, disordinato, che smonta la retorica eroica della frontiera: miniere fallimentari, città improvvisate, truffatori di ogni tipo, un paesaggio che alterna comicità e disperazione. In A Tramp Abroad (Un vagabondo all’estero) l’Europa diventa un laboratorio ironico attraverso cui mettere alla prova e spesso ridicolizzare le illusioni culturali americane; l’incontro con la Germania, la Svizzera, l’Italia serve a Twain per esplorare i malintesi della modernità e la fragilità del confronto interculturale. The Innocents Abroad (Gli innocenti all’estero) aggiunge un ulteriore tassello: il romanzo di viaggio come critica dell’esotismo, del consumo turistico della cultura, delle mitologie orientaliste della sua epoca. La sua attività di conferenziere e giornalista gli permette di osservare un’umanità varia – immigrati, ex schiavi, speculatori, missionari, avventurieri – che confluisce nella sua narrativa come un mosaico di conflitti sociali, segno del crollo dei miti nazionali dopo la Guerra Civile. Il suo disincanto politico si intensifica durante l’epoca di Grant, quando la corruzione istituzionale lo spinge, insieme a Charles Dudley Warner, a scrivere The Gilded Age (L’età dell’oro). Il romanzo inaugura la tradizione della satira politica novecentesca e anticipa la critica sistemica alle derive capitalistiche che segnerà molta narrativa americana successiva. L’analisi dell’arrivismo, della speculazione immobiliare, della manipolazione del potere legislativo mostra un Twain non solo comico, ma profondamente engagé, uno dei più lucidi osservatori dell’America industriale emergente.

Nella vecchiaia il Mississippi ritorna negli scritti autobiografici come simbolo metastorico del tempo e della perdita: non più corridoio di avventure, ma figura dell’irreversibilità storica, dell’America scomparsa. La prosa, più tesa e caustica, si trasforma in una riflessione sulla dissoluzione dei miti nazionali. Accanto a ciò, opere tarde come The Mysterious Stranger mostrano un Twain filosoficamente più inquieto, incline al nichilismo, alla domanda metafisica, alla critica radicale della religione e della natura umana. È il rovescio oscuro del suo umorismo, la testimonianza di una disillusione profonda che convive con la sua immaginazione comica. Twain è l’unico vero epico americano perché trasforma il quotidiano in mito e il mito in satira, reinventando una lingua nazionale capace di contenere simultaneamente comico, tragico e critico. La sua epopea non è quella degli eroi fondatori, ma dei marginali, dei vagabondi, dei ragazzi in fuga, dei falliti, dei truffatori, cioè dei protagonisti reali della vita americana.

L’eredità di Twain attraversa tutto il Novecento e oltre: Faulkner eredita da lui la rappresentazione dell’ambiguità morale del Sud; Flannery O’Connor la dimensione grottesca della violenza; Ralph Ellison e Toni Morrison la centralità della voce degli esclusi come chiave interpretativa della nazione; Vonnegut la fusione tra satira e metafisica; Salinger la voce adolescenziale come sismografo della disillusione; McCarthy la trasformazione del viaggio in un percorso morale dentro la violenza americana; David Foster Wallace la tensione tra critica sociale e sperimentazione linguistica. Più recentemente, autori come Colson Whitehead e Jesmyn Ward hanno riscritto la storia americana con una consapevolezza linguistica e morale che affonda le radici nella lezione twainiana. L’eredità di Twain, dunque, non è solo un repertorio di temi, ma un modo di vedere, leggere e raccontare il mondo: credere nella lingua viva come forza creativa, usare la satira come metodo di conoscenza, riconoscere il paesaggio come attore narrativo, dare voce ai marginali come forma di verità morale. In questo intreccio di memoria, invenzione e critica sociale, la sua opera rimane un riferimento imprescindibile per comprendere non solo la storia letteraria degli Stati Uniti, ma la stessa coscienza culturale dell’Occidente.

Angelo Cennamo

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FENOMENOLOGIA DI FRANK BASCOMBE

È uno dei personaggi più rigorosamente osservativi e moralmente consapevoli della letteratura americana, una figura che non si lascia definire da gesti epici, rivoluzioni interiori improvvise o drammi pubblici, ma dalla costanza con cui attraversa la vita quotidiana, cogliendone tensioni, silenzi, fragilità e contraddizioni. Ex aspirante scrittore “Solo gli scrittori veri – purtroppo – fanno parte di un club che ha soltanto un membro”, poi giornalista sportivo, infine agente immobiliare, Frank Bascombe non è un eroe né un simbolo, ma una lente attraverso cui osservare l’America contemporanea e più in generale la condizione umana: il suo mondo di strade suburbane, case in vendita, spiagge del New Jersey, motel anonimi, pranzi interrotti, conversazioni sospese, rivela molto più di quanto ci si aspetti. Fin dal primo romanzo, Sportswriter (1986), Ford costruisce il suo everyman come un uomo sospeso tra passato e presente, tra aspirazioni giovanili e consapevolezza dei propri limiti

“Ho smesso di cercare di conoscere chiunque altro da dentro, di essere dentro di lui perché tanto non può funzionare… sono anche diventato meno austero e meno scrittore serio; mi preoccupo molto meno della complessità delle cose, guardo alla vita in modo più semplice e letterale… A me piace considerarmi un letteralista. Qualsiasi cosa ci capiti, sarà, alla lettera, quel che ci capita, quando ci capiterà. Io cerco solo di sistemare tutto meglio che posso, secondo le mie abilità”

Se la morte del figlio, la fine del matrimonio e i fallimenti personali non lo definiscono in senso eroico, gli permettono tuttavia di sviluppare una capacità di osservazione e di analisi (diciamo pure saggezza) che attraversa tutte le stagioni della sua vita. Frank non la misura, la vita, in eventi straordinari, ma in dettagli apparentemente banali: il colore dei tappeti, la disposizione dei mobili, il modo in cui i clienti parlano o guardano le case che visitano. Ogni piccolo gesto o frase involontaria diventa per lui un indicatore di verità. Quando descrive un quartiere residenziale, Frank non si limita a elencarne le case o i vialetti: registra l’atmosfera, le possibili oscillazioni del mercato, i conflitti invisibili che si consumano dietro le porte chiuse delle abitazioni. In questo senso, Ford recupera e rinnova una tradizione americana di attenzione al quotidiano e all’individuo vicina per sensibilità ad altri due autori minimalisti che un po’ gli somigliano: Richard Yates e Raymond Carver.

Il rapporto con il figlio Paul attraversa la serie come un filo rosso, rendendo visibili le tensioni tra generazioni, la difficoltà di comunicare i sentimenti e il peso delle responsabilità familiari. Nei viaggi tra le coste e le periferie del New Jersey, Frank guarda il mondo e se stesso: un pranzo interrotto, una conversazione incerta con un cliente, il modo in cui Paul reagisce agli spazi o ai gesti del padre, diventano strumenti per calcolare distanza, affetto, incomprensione. Ne Il giorno dell’Indipendenza (premio Pulitzer), il Quattro Luglio e le pause tra un barbecue e un’escursione sulla spiaggia sono occasioni per riflettere sul senso della paternità, sul passaggio del tempo e sulla complessità delle relazioni umane. Frank non giudica apertamente, ma sa cogliere imperfezioni e fragilità, segnalandole con una precisione chirurgica. Persino la banalità delle conversazioni politiche o culturali diventa materia di indagine morale: ogni giudizio, esitazione o frase non detta rivelano in che modo le persone lottano con i propri desideri, i limiti e le paure.

Il paesaggio in cui Frank si muove diventa metafora della sua esperienza interiore: le spiagge deserte del New Jersey, le case di villeggiatura, le strade suburbane, i quartieri devastati dall’uragano Sandy in Tutto potrebbe andare molto peggio non sono soltanto dei luoghi fisici ma la dimensione astratta dove assistiamo a inciampi e mille imprevisti. Frank ci cammina come un archivista, cogliendo segnali emotivi che altrimenti passerebbero inosservati. La scrittura di Ford, in questi momenti, si fa quasi etnografica: le descrizioni dei mobili rotti, degli oggetti sparsi tra le macerie, delle discussioni spezzate, non sono mai gratuite ma precisi strumenti di lettura del quartiere, della contea, dello Stato. La serie raggiunge un nuovo tono meditativo e frammentario in Per sempre, quando Frank, quasi ottantenne, accompagna Paul gravemente malato attraverso un’America segnata dalla disillusione. Il rapporto padre-figlio di Ford ribalta quello di figlio-padre del Philip Roth di Patrimonio, romanzo molto vicino a questo, che tocca le stesse corde. Frank sostiene Paul ma non intende rinunciare al piacere. Come Sportswriter, Per sempre affronta il grande tema della letteratura americana: la ricerca della felicità. Si può essere felici nonostante le tragedie che ci capitano nella vita? Frank pensa di sì. Non è un caso che l’introduzione del romanzo Ford l’abbia intitolata Happiness. La scrittura, qui più pacata e concentrata sulle relazioni familiari, non insegue senzazionalismi né forme di riscatto, ma ancora una volta registra il quotidiano. A differenza di DeLillo o Pynchon, autori attenti alla società nel suo insieme, ai simboli collettivi e alla complessità strutturale della storia, Ford sceglie l’individuo e il ritmo lento delle loro vite normali, facendo di Frank non solo un fine osservatore ma un testimone consapevole del proprio tempo. 

Angelo Cennamo

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