È una delle figure più inquietanti e al tempo stesso tragicamente grottesche dell’universo creato da David Foster Wallace in Infinite Jest. La sua presenza nel romanzo, pur limitata a poche scene e ad aneddoti raccontati di seconda mano, assume un peso sproporzionato: una sorta di risonanza cupa che attraversa le dinamiche dell’Enfield Tennis Academy e riflette, in modo distorto, molte delle ossessioni centrali del libro: la performance, la pressione dell’eccellenza, il bisogno di riconoscimento e la fragilità dell’identità. Eric Clipperton – curiosa l’assonanza con Eric Clepton – è un giovane tennista dal talento incerto, mai descritto come realmente promettente, ma animato da una determinazione assoluta, che Wallace tratteggia sin da subito come una forma di dedizione patologica. La sua strategia è ormai parte della mitologia dell’ETA prima ancora che egli vi metta piede: a ogni torneo Eric si presenta armato di una Glock 17 semiautomatica, ben pulita e sempre visibile, che di tanto in tanto punta alla tempia con gesto plateale dichiarando, senza esitazione, che si ucciderà qualora dovesse perdere. Il risultato è un sistema paralizzato: nessun avversario osa competere davvero, gli incontri terminano prima ancora di cominciare e Clipperton accumula vittorie automatiche che proprio per questo non generano alcun punteggio ufficiale. Successi vuoti, privi di valore tecnico, che non producono ranking né alcun reale prestigio. Wallace mostra come dietro questa assurdità si nasconda un bisogno disperato di validazione. Clipperton non cerca la vittoria in sé ma ciò che essa dovrebbe rappresentare: essere finalmente visto, riconosciuto, legittimato in un ambiente in cui l’identità sembra coincidere con il rendimento agonistico (all’ETA essere visti è la forma suprema di esistenza). Il desiderio di Eric però nasce già fallito, perché ogni suo trionfo si rivela un inganno evidente: gli altri tennisti lo evitano, gli adulti non sanno come relazionarsi, e lui stesso percepisce la natura fraudolenta della sua ascesa. Wallace ne fa una figura che vive in uno stato di drammatica autocoscienza: Eric sa di essere al centro dell’attenzione, ma per ragioni aberranti; sa di aver conquistato un posto, ma solo attraverso una minaccia che lo condanna all’emarginazione. Il suo ingresso-non-ingresso all’Enfield Tennis Academy, accolto con una combinazione di perplessità e imbarazzata deferenza, segna il punto di massimo paradosso della sua vicenda. All’ETA Clipperton ottiene ciò che aveva sempre inseguito: il riconoscimento ufficiale come giovane promessa, l’inclusione in un’istituzione prestigiosa, la possibilità di far parte di una comunità che elegge il rendimento a unità di misura universale. Ma proprio lì, nel luogo simbolo della meritocrazia ferrea di Infinite Jest, la finzione del suo talento non può più reggere. Privo della minaccia che lo rende imbattibile, Clipperton si trova improvvisamente esposto alla verifica della realtà: non ha basi tecniche solide, non ha una personalità capace di sostenere le pressioni dell’ETA, non ha strumenti psicologici per esistere al di fuori della sua stessa strategia estrema. Il confronto con gli altri tennisti dell’ETA rende ancora più evidente la natura aberrante del suo percorso. Hal Incandenza, ad esempio, è l’opposto speculare di Clipperton: un talento autentico che soffre però di un’invisibilità diversa, quella emotiva e linguistica, una dissociazione che lo rende incapace di essere compreso nonostante eccella in senso puro. Mentre Hal teme che gli altri non vedano la sua interiorità, Clipperton teme di non essere visto affatto, e per questo costruisce un’identità tanto ingombrante quanto insostenibile. Anche personaggi come Ortho Stice o Michael Pemulis contribuiscono a illuminare la posizione di Clipperton: Stice, con la sua ascesa silenziosa e il suo talento lavorato, rappresenta la forma tradizionale e accettabile dell’ambizione, una dedizione quasi ascetica; Pemulis, con la sua intelligenza dirompente e manipolatoria, mostra come la pressione dell’ETA possa essere deviata in modi creativi e autodistruttivi, ma ancora all’interno di un codice condiviso. Clipperton invece si colloca totalmente fuori dalla grammatica del luogo: non infrange una regola, distrugge l’intero gioco. È una presenza che espone brutalmente l’assurdità dell’istituzione, proprio perché ne porta all’estremo la logica: se la competizione ti definisce, allora lui sceglie di definire la competizione stessa con un ricatto letale. Il contesto paranoico dell’ETA amplifica la sua figura fino a farne un simbolo. I ragazzi vivono in una tensione costante, tra allenamenti massacranti, aspettative familiari smisurate e un sistema che misura il valore umano in termini di ranking, classifiche, punti. Ogni gesto è osservato, valutato, interiorizzato fino alla nevrosi. La paranoia è quasi ontologica: si ha la sensazione che ogni tennista viva con un pubblico immaginario costante, un coro silenzioso che giudica, confronta, registra. Clipperton non introduce la paranoia all’ETA: la rende semplicemente visibile, concreta, armata. È la materializzazione di un impulso già presente in tutto il romanzo, la pulsione a performare non per migliorarsi, ma per evitare la catastrofe dell’insignificanza. In questo scarto devastante tra ciò che aveva desiderato e ciò che effettivamente trova, emerge il tratto più tragico del personaggio. Clipperton non riesce a sostenere il peso della sua leggenda, perché quella leggenda è sempre stata un’arma puntata contro se stesso. Il suo suicidio, raccontato da Wallace con una miscela di terribile inevitabilità e ironia nera, chiude una parabola che ha il tono di una farsa diventata tragedia. La sua morte avviene poco dopo essere stato finalmente “classificato” dall’USTA, come se l’ottenimento tardivo e burocratico del riconoscimento tanto agognato rendesse improvvisamente inutile la sua esistenza: la promessa è compiuta, e proprio per questo non serve più. In poche pagine, Wallace costruisce un personaggio che distilla molte delle contraddizioni del romanzo: la ricerca ossessiva dell’eccellenza che si trasforma in autodistruzione; il desiderio di essere visti che si capovolge in un isolamento moralmente asfissiante; la logica della competizione come dispositivo che annulla la persona. Eric Clipperton è il punto in cui la macchina del rendimento implode, il luogo dove l’ossessione si rivela per quello che è: un culto che, portato alle sue estreme conseguenze, non produce campioni, ma fantasmi.
Angelo Cennamo