UN NUOVO CORSO

Cari lettori,

dal 2026 Telegraph Avenue cambierà pelle. Continuerà a raccontare la narrativa americana contemporanea, seguendo le nuove uscite e osservando le tendenze che animano un panorama letterario sempre in movimento, ma lo farà con un passo diverso, più meditato, sottraendosi alla frenesia delle liste, delle classifiche e delle corse all’ultimo libro. Il tempo del blog si dilaterà in più direzioni. Senza rinunciare allo sguardo sul presente, Telegraph Avenue rivolgerà un’attenzione maggiore ai classici, del Novecento come del nuovo secolo, nella convinzione che la letteratura non conosca scadenze, che ogni opera meriti di essere riletta e reinterpretata, e che il dialogo con il passato sia parte essenziale per la comprensione dell’oggi. In questo spirito, il blog rinuncerà a forme di selezione rapida, preferendo offrire uno sguardo più ampio e consapevole, capace di restituire la complessità della letteratura americana senza cedere all’ansia dell’immediato. Le pagine di Telegraph Avenue ospiteranno percorsi, genealogie, accostamenti inattesi, esplorazioni tematiche: un modo per illuminare fili nascosti e dare ulteriore profondità agli autori e ai testi che hanno contribuito o contribuiscono tuttora a plasmare l’immaginario della nazione.

Angelo Cennamo

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SERENA – Ron Rash

Serena aveva già fatto una breve apparizione in Italia nel 2014, sei anni dopo la sua prima pubblicazione, col titolo Una folle passione e la traduzione di Valentina Daniele. In questi giorni il romanzo ritorna disponibile con La Nuova Frontiera, che Rash ha saputo valorizzarlo e imporlo all’attenzione dei lettori così come un altro piccolo editore (NNEditore) era riuscito a fare con Kent Haruf. Con Serena, a mio avviso il migliore dei libri “italiani” di Rash,  lo scrittore di Chester costruisce uno dei più potenti affreschi della letteratura americana contemporanea, un romanzo che intreccia l’epopea del capitalismo nascente alla tragedia di una coppia destinata all’autodistruzione.  Ambientato negli Appalachi della Carolina del Nord nel 1929, Serena è insieme romanzo storico, parabola morale e tragedia shakespeariana, in cui la natura e l’uomo si fronteggiano come forze in lotta per la sopravvivenza.

Al centro della storia si erge la figura magnetica di Serena Pemberton, donna di straordinaria determinazione e gelida intelligenza, che accompagna il marito George nel sogno di edificare un impero del legname in un’America ferita dalla Grande Depressione. Dove la miseria spinge alla rinuncia, i Pemberton scelgono l’espansione cieca, trasformando le foreste in territorio di conquista, in pura materia da sfruttare. In questo gesto di dominio, Rash fa affiorare la metafora di un’intera nazione che, nell’illusione del progresso, confonde la ricchezza con la distruzione. Serena è un personaggio che trascende la storia per farsi simbolo. In lei convivono la forza arcaica della pioniera e l’ambiguità della dark lady elisabettiana: una Lady Macbeth trapiantata nel cuore dell’America rurale. La sua volontà assoluta la pone oltre le convenzioni del genere e della moralità, fino a trasformarla in un archetipo della modernità: una donna che vuole dominare il mondo naturale e umano con la stessa ferocia con cui la sua aquila addestrata ghermisce i serpenti delle montagne.

Ron Rash, poeta prima che narratore, scrive con una prosa che unisce precisione realistica e densità lirica. Ogni immagine naturalistica diventa una partitura di contrasti: la bellezza austera dei monti appalachiani si accompagna all’eco delle seghe e delle scuri, la vita dei boscaioli si misura con l’implacabile ritmo del profitto. Come in altre opere, con Rash il paesaggio si fa organismo vivo, resistente e ferito, teatro di un conflitto che è insieme economico, morale e metafisico. In questo Rash si colloca nella tradizione di Cormac McCarthy e Charles Frazier, autori capaci di trasformare la natura in una dimensione tragica e sacra, non solo sfondo ma protagonista.

La vicenda dei Pemberton si apre sotto il segno della violenza: una scena iniziale in cui la morte e la sopraffazione si annunciano come presagio di tutto ciò che seguirà. Da quel momento, il romanzo procede con la tensione di un thriller e la potenza del mito. L’ascesa economica dei protagonisti si accompagna a una progressiva discesa morale, mentre la comunità montana osserva (e subisce) la loro implacabile ambizione. Rash orchestra questa coralità con sapienza quasi cinematografica: attorno alla coppia centrale si muove un mondo di lavoratori, cacciatori, donne e predicatori che incarnano il volto concreto di un’America ferita ma non ancora domata. Il punto di non ritorno arriva quando Serena percepisce come minaccia l’esistenza del figlio illegittimo del marito. In quel bambino innocente si concentra l’ossessione per il controllo totale, il bisogno di cancellare ogni traccia di vulnerabilità. Da qui in poi la protagonista si trasforma in una figura mitologica, divorata dalla propria ambizione. È in questo arco che Rash rivela la sua prospettiva tragica: come in Shakespeare, la rovina non è imposta dal fato, ma generata dall’eccesso stesso di potere e volontà.

La scrittura di Rash si distingue per una doppia tensione: da un lato la crudezza della cronaca, dall’altro un lirismo che sfiora il mistico. Rash alterna i tecnicismi del lavoro forestale a pagine di pura contemplazione. Il risultato è un perfetto equilibrio tra durezza e poesia. In Serena, la storia privata si dilata fino a diventare allegoria nazionale. La corsa al taglio delle foreste diventa immagine della modernità americana: un’epoca che confonde la grandezza con la devastazione. Quando George Pemberton afferma che lui e la moglie abbatterebbero ogni albero del mondo, Rash non racconta solo la follia di un personaggio, ma la logica stessa di un sistema economico fondato sull’avidità e sulla rimozione del limite. Per questo Serena è più di un romanzo storico: è una riflessione sulla violenza insita nel sogno americano, un racconto in cui la grandezza si converte inevitabilmente in colpa. Nel furore dei Pemberton si specchia il destino di una civiltà che, nel tentativo di dominare la natura, finisce per distruggere sé stessa. Rash ci consegna così una tragedia senza catarsi, dove la bellezza del mondo sopravvive solo come eco, come memoria della vita che l’uomo ha deciso di sacrificare sull’altare del potere.

Angelo Cennamo

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JR – William Gaddis

Romanzi che raccontano una storia, romanzi che costruiscono un mondo; JR di William Gaddis appartiene a questa seconda categoria, ma con una radicalità tale da rendere difficile distinguere dove finisca la rappresentazione e inizi la satira. “Se siete fortunati vi stancherete di questo libro… lo definirete inutilmente complicato, ostinatamente ottuso, prolisso, assurdamente concepito” scrive Mark Danielwski nell’incipit del suo Casa di foglie. Potreste pensare la stessa cosa leggendo JR: approcciare questo mattone di circa mille pagine è come scalare l’Everest con una t-shirt e le scarpe da tennis. Ma sorvoliamo per un attimo sulla provocazione di Daniewski e proviamo piuttosto a comprendere le ragioni per le quali romanzi ostici come JR – tornato disponibile con l’editore Il Saggiatore, la traduzione di Vincenzo Mantovani e una impeccabile postfazione di Tommaso Pincio – continuino ad avere un forte appeal su un certo lettorato: nerd, nostalgici, malati o rabdomanti di buonissima letteratura. Vent’anni dopo il monumentale The Recognitions (1975), Gaddis costruisce qui un laboratorio linguistico dove la falsificazione non è più tema ma condizione strutturale: un universo narrativo in cui linguaggio ed economia coincidono, e dove il valore è prodotto dal rumore stesso delle transazioni. Ambientato tra scuole, uffici e sale riunioni, JR si sviluppa quasi interamente in forma dialogica, senza cornici descrittive o punti di vista ordinatori; la pagina diventa una superficie acustica attraversata da un flusso continuo di voci che si interrompono, si sovrappongono, si confondono, restituendo la vertigine di un mondo che parla troppo per dire davvero qualcosa. In questo paesaggio sonoro (da attraversare come quando si origlia da dietro una porta, suggerisce Pincio) il protagonista JR Vansant, un undicenne che mette in piedi un impero finanziario dal telefono pubblico della scuola, emerge come la incarnazione infantile del capitalismo contemporaneo: un genio inconsapevole che, giocando, riproduce perfettamente la logica impersonale dei mercati. La sua innocenza è solo un’altra forma di irresponsabilità sistemica; la sua astuzia, un riflesso automatico del linguaggio economico che lo circonda. Attraverso la sua figura Gaddis mostra la deriva di una cultura in cui l’atto di parlare è già un atto di scambio e dove la parola – talvolta balbettata, confusa – diventa moneta svalutata. In JR, il linguaggio non media più la realtà ma la sostituisce. La lettura diventa quindi un’esperienza di disorientamento produttivo, l’immersione totale in un mondo che ha perso ogni distanza critica da se stesso. Se Joyce o Faulkner usavano la densità linguistica per esplorare la coscienza individuale, Mr. Difficult mostra una realtà in cui la coscienza è interamente colonizzata dal linguaggio collettivo, dal gergo aziendale, dai cliché amministrativi e dai dispositivi comunicativi che scandiscono la vita sociale. È in questa prospettiva che JR si inserisce nel contesto del postmodernismo americano, ma con un rigore e una severità che lo distinguono dai suoi contemporanei. Rispetto al cosmico barocchismo di Pynchon o alla malinconica eleganza di DeLillo, Gaddis si muove in un territorio più asciutto, meno visionario ma più concreto, dove il caos non è una vertigine metafisica ma una condizione amministrativa. Se in Gravity’s Rainbow, uscito l’anno prima, l’universo implode sotto il peso delle informazioni, in JR si dissolve sotto il peso delle parole e di un affarismo impalpabile. Là dove Pynchon costruisce sistemi paranoici che alludono al trascendente, Gaddis insiste sulla sordità del quotidiano, sull’incapacità di qualsiasi discorso di generare significato e valore che non sia il valore del denaro. Perché è di questo che stiamo parlando: JR è un meraviglioso romanzo sul denaro (vincitore del National Book Award lo stesso anno in cui Saul Bellow si aggiudica il Nobel e il Pulitzer per Il dono di Humboldt); il piu bello, forse, alla pari con Money di Martin Amis. Accanto al bambino-tycoon, figura del capitalismo ludico e autistico, Gaddis colloca Edward Bast, musicista fallito e alter ego dell’artista moderno, incapace di comporre un’opera coerente in un mondo dove la coerenza è diventata impraticabile. Di personaggi come Bast ne troverete tanti: il libro è pieno di artisti falliti, con opere incompiute nei cassetti. Gaddis è tra questi. Se The Recognitions lamentava la perdita dell’autenticità nell’arte, JR rappresenta la fase successiva: l’impossibilità stessa dell’autenticità, la dissoluzione dell’artista in un linguaggio ormai privato di silenzio. In questo senso il romanzo, che alla sua uscita apparve eccessivo e inaccessibile, si rivela oggi di una lucidità profetica: il sistema di voci che Gaddis mette in scena anticipa la frammentazione digitale, l’infosfera delle notifiche e dei flussi ininterrotti di comunicazione. La sua struttura non è solo sperimentale, ma diagnostica: JR è il primo grande romanzo dell’automazione linguistica, un mondo che funziona da sé, privo di intenzione eppure perfettamente operativo, in cui l’unico ordine possibile è quello del rumore stesso, e la verità, se c’è, nasce dal suo accumulo. Rileggere oggi JR significa riconoscere nella sua cacofonia la genealogia della nostra: un capitalismo linguistico in cui parlare equivale a produrre valore e in cui la comunicazione è diventata la più pervasiva delle merci. Con una lucidità che non indulge al compiacimento intellettuale, Gaddis trasforma il disordine del linguaggio in una forma di conoscenza, consegnando alla letteratura americana uno dei suoi esperimenti più radicali e tuttavia più fedeli alla realtà.

Angelo Cennamo

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