CALVINO IN AMERICA

«In America nessuno ha scelto un luogo piuttosto d’un altro: ci si capita per caso e subito lo si fa proprio». In questa frase, che ha la limpidezza di un aforisma e la densità di una teoria antropologica, Italo Calvino coglie una delle verità fondative del mito americano: l’idea di un’appartenenza non ereditata, ma improvvisata; non radicata nella storia, bensì nel movimento. Venticinque anni prima delle Lezioni americane – il libro-testamento preparato per il ciclo di sei conferenze che avrebbe dovuto tenere a Harvard nel 1985-86, e che la morte gli impedì di pronunciare – Calvino compì il suo primo e unico lungo viaggio negli Stati Uniti. Era il 1959, l’America era nel pieno della sua espansione economica e simbolica, e l’Europa guardava ancora agli States con una miscela di fascinazione, sospetto e invidia. «Partendo per gli Stati Uniti, e anche durante il viaggio, spergiuravo che non avrei scritto un libro sull’America (ce n’è già tanti!). Invece ora ho cambiato idea. I libri di viaggio sono un modo utile, modesto eppure completo di fare letteratura.» È una dichiarazione di poetica, oltre che di modestia. Calvino sa che il viaggio non è mai innocente: è sempre uno specchio, un confronto, un esercizio di stile e di pensiero. Quel libro, in realtà, non vide la luce mentre l’autore era in vita. Rileggendo le bozze, Calvino giudicò il materiale raccolto «troppo modesto» per diventare vera letteratura e «non abbastanza originale» per essere un reportage giornalistico. Un giudizio severissimo, quasi crudele, che oggi suona paradossale: ciò che Calvino scartò per eccesso di scrupolo è infinitamente più lucido, onesto e profondo di molta produzione che oggi viene celebrata come “letteratura di viaggio”. La sua era un’etica dello sguardo, prima ancora che della scrittura. Per sei mesi, tra il 1959 e il 1960, Calvino attraversò gli Stati Uniti in lungo e in largo: New York, Chicago, la California, il Sud, il Midwest, il deserto del New Mexico. Incontrò uomini d’affari, politici, scrittori, accademici, ma soprattutto osservò la gente comune: chi lavorava, chi viaggiava, chi sopravviveva. Non cercava l’eccezionale, ma il significativo. New York, su tutte. «Perché io New York la amo.» E non la ama come si ama un monumento o un’idea, ma come si ama un organismo vivente. Per Calvino New York è prima di tutto un ritmo: «una città elettrica, impregnata di elettricità». Non è solo una metafora: è un’esperienza fisica, nervosa, quasi biologica. Gli spazi smisurati, i grattacieli – inevitabili – ma anche le automobili «tutte lunghe, lunghissime, talora assurdamente lunghe e larghe», diventano segni di una civiltà che ha fatto dell’eccesso una forma di linguaggio. Eppure Calvino non è spaesato. Non è il marziano a Roma di Flaiano, né l’intellettuale europeo che guarda dall’alto in basso. È un uomo giovane, curioso, disciplinato nello sguardo. Osserva senza giudicare, registra senza caricaturizzare. Vede il sogno americano e ne percepisce subito anche il rovescio: il pragmatismo feroce, l’ossessione per il successo, la ricchezza ostentata e le diseguaglianze sociali, spesso brutali. Quando descrive coloro che vivono nei camper, spostandosi di stagione in stagione alla ricerca di lavori temporanei, sembra anticipare di decenni Nomadland: un’America mobile, precaria, invisibile. Chicago segna un passaggio ulteriore: «Comincio a capirla, Chicago. Forse comincia a farmi paura. Insomma, comincia a piacermi.» È una città che non seduce, ma convince. «La vera città americana: produttiva, materiale, brutale, tough». Qui l’America si mostra senza maschere: fabbriche, acciaio, lavoro, tensioni razziali. Calvino registra tutto con precisione, usando il linguaggio del suo tempo (oggi oggetto di imbarazzi e revisioni) ma senza mai indulgere nel pregiudizio. Nota, quasi en passant, che lì sarebbe nato il primo presidente nero degli Stati Uniti: una frase che oggi verrebbe letta attraverso il filtro della cancel culture, ma che allora era semplice cronaca, e soprattutto testimonianza di un’America in trasformazione. La West Coast è un altro mondo. Il Pacifico non ha la familiarità del Mediterraneo: è un mare inquieto, estraneo. Los Angeles appare più come una somma disordinata di quartieri che come una vera città. «Capisco che dovrei scrivere qualcosa su Hollywood, ma non ho nulla da raccontare.» È una rinuncia significativa: Calvino rifiuta il mito prefabbricato, ciò che si scrive perché “si deve” scrivere. Molto più lo attraggono l’altra America: quella povera, marginale, quasi coloniale. Il New Mexico, i deserti, le riserve indiane; il profondo Sud, dalla Georgia all’Alabama, dove «le case dei negri sono tuguri di legno» e la speranza di riscatto ha un solo nome: Martin Luther King. È un’America in stato di vigilia, sospesa sull’orlo della storia: Kennedy, i diritti civili, la corsa alla luna. Tutto deve ancora accadere, ma tutto è già nell’aria.

Il reportage di Calvino – pubblicato solo molti anni dopo, postumo, con il titolo Un ottimista in America – è preciso, colto, affettuoso. Non c’è l’enfasi allucinata di On the Road, né l’autocompiacimento dell’intellettuale in trasferta. È un viaggio lucido e generoso, in cui l’America diventa un laboratorio del futuro e, insieme, uno specchio deformante dell’Europa. Calvino ha amato l’America senza idealizzarla. Noi amiamo Calvino per questo: per la sua intelligenza senza arroganza, per la sua curiosità disciplinata, per la capacità di vedere il mondo come un sistema di segni da decifrare, non da giudicare. Romanziere, intellettuale, viaggiatore: uno scrittore che sapeva che anche la modestia, quando è autentica, può essere una forma altissima di grandezza.

Angelo Cennamo

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HERBERT LIEBERMAN: ANATOMIA DEL MALE

Rileggere oggi Herbert Lieberman equivale a confrontarsi con una zona laterale ma decisiva della narrativa americana del secondo Novecento: uno spazio dentro il quale il romanzo di genere alza l’asticella, come si dice, per interrogare la morale pubblica, le strutture del potere, la natura stessa dell’identità. Lieberman (New Rochelle, 1933 – 2013), drammaturgo prima che romanziere, appartiene a quella famiglia di scrittori che hanno lavorato in sottrazione, lontano cioè dalle dinamiche promozionali e dall’idea dell’autore come brand, costruendo nel tempo un corpus compatto e coerente. La sua marginalità non è il risultato di un difetto di visione ma l’effetto di una radicalità silenziosa: mentre alcuni dei suoi epigoni, da Patricia Cornwell a Jeffery Deaver, hanno intercettato il grande pubblico standardizzando il thriller, Lieberman ne ha forzato dall’interno le convenzioni, pagando questa scelta con una ricezione intermittente e spesso distratta, negli Stati Uniti. Non è casuale che la sua consacrazione sia arrivata prima in Europa, e in particolare in Francia: Città di morti, pubblicato negli anni Settanta e accolto con freddezza in patria, vinse il Grand Prix de Littérature Policière, segnalando come lo sguardo europeo fosse più pronto a riconoscere il valore letterario di un’opera che usava il crime come forma, non come fine. Il recupero italiano operato da minimum fax – casa editrice che ha costruito una vera e propria contro-narrazione del canone statunitense, riportando alla luce figure come Richard Yates, Bernard Malamud e John Barth – non si limita a colmare una lacuna, ma permette di cogliere la struttura profonda dell’opera di Lieberman. I romanzi tradotti finora, pur diversi per ambientazione e architettura, dialogano infatti come variazioni di un unico discorso: la solitudine dell’individuo all’interno di sistemi istituzionali opachi, l’ambiguità della giustizia quando si confronta con la violenza, il corpo (ferito, morto, abusato) come ultimo luogo di verità, sottratto alle menzogne del linguaggio e dell’ideologia.

Città di morti rappresenta il nucleo di questo universo. Ambientato in una New York dei primi anni Settanta segnata dalla crisi fiscale, dal degrado urbano e dalla diffusione dell’eroina, il romanzo segue le giornate di Paul Konig, capo dei medici legali della città. Konig è un personaggio scomodo: brusco, autoritario, eticamente intransigente, incapace di qualsiasi mediazione emotiva. Ma è proprio questa rigidità a renderlo una figura tragica. Il suo lavoro consiste nel “leggere” i corpi, nel tradurre in linguaggio giuridico e scientifico ciò che i morti non possono più dire; l’obitorio diventa così uno spazio liminale, non tanto di orrore quanto di riconoscimento, l’unico luogo in cui Konig riesce a esercitare una forma di controllo sul caos del mondo. Lieberman descrive la pratica della medicina legale con un’accuratezza spoglia, mai esibizionistica: il dettaglio anatomico non serve a scioccare, ma a radicare il romanzo in una materialità ineludibile, opponendo la concretezza della carne alla retorica astratta delle istituzioni. Quando il rapimento della figlia di Konig irrompe nella trama, il romanzo compie uno scarto decisivo: il conflitto non è più soltanto tra ordine e disordine, ma tra ruolo pubblico e identità privata. Il sapere professionale, che fin lì aveva garantito una forma di distanza, si rivela impotente di fronte al dolore personale. In questo cortocircuito tra pubblico e privato si gioca la vera posta in palio del libro.

Il fiore della notte sposta il baricentro dalla medicina legale alla polizia, ma approfondisce ulteriormente l’indagine sull’identità maschile e sulla marginalità. Il detective Francis Mooney, corpulento, asociale, segnato da una carriera irregolare e da una persistente infelicità, è uno dei ritratti più complessi di Lieberman: un uomo che non riesce a integrarsi né nell’istituzione che rappresenta né nel tessuto sociale che dovrebbe proteggere. Accanto a lui si muove Charles Watford, figura disturbante e memorabile, bugiardo compulsivo, tossicodipendente, costantemente in fuga da se stesso. La scelta di far procedere i due personaggi su linee narrative parallele per gran parte del romanzo rivela la raffinatezza strutturale di Lieberman: la tensione nasce meno dall’azione che dall’attesa, dalla lenta preparazione di un incontro che ha il valore di un riconoscimento reciproco tra due solitudini. La serie di omicidi – blocchi di cemento lasciati cadere dai tetti su vittime casuali – assume una dimensione simbolica: la violenza appare priva di motivazione leggibile, verticale, impersonale, come una forza che cala dall’alto senza possibilità di negoziazione. Anche qui, la soluzione dell’enigma è secondaria rispetto all’esplorazione dei traumi e delle ossessioni dei personaggi; il thriller diventa una forma di romanzo psicologico, capace di interrogare le fratture dell’esperienza americana con un’ambizione che, per profondità, può richiamare certi esiti di Philip Roth, pur muovendosi in un registro completamente diverso.

Caccia alle ombre, che può essere letto come il terzo movimento di una trilogia newyorkese, riunisce Konig e Mooney ormai sessantenni, prossimi alla pensione, chiamati a confrontarsi con un serial killer stupratore soprannominato Ombra Danzante. Lieberman rinuncia consapevolmente all’opacità tipica del giallo classico, rivelando presto alcuni snodi cruciali, e sposta la tensione dal “chi” al “come” e al “perché”. L’indagine ufficiale si intreccia con le traiettorie di personaggi come Warren Mars e Ferris Koops, che funzionano come controfigure deformate dei protagonisti, amplificando i temi della colpa, della ripetizione e dell’irredimibilità. La scrittura, asciutta ma densissima, sostiene una costruzione di precisione quasi musicale, in cui ogni elemento (gesto, dialogo, dettaglio ambientale) contribuisce a un disegno complessivo. Parlare di “thriller letterari” rischia qui di essere fuorviante: Lieberman non eleva il genere, ma ne dimostra l’insufficienza come categoria, mostrando come la grande narrativa possa attraversare qualsiasi forma senza esaurirsi in essa.

L’ospite perfetto, il romanzo più antico tra quelli tradotti, rappresenta forse la deviazione più sorprendente. Ambientato in una provincia americana isolata e apparentemente pacificata, racconta la relazione tra i coniugi Graves e il giovane Richard Atlee, che si insinua nella loro vita fino a diventarne il fulcro perturbante. La struttura è quella di una parabola morale: pochi personaggi, uno spazio ristretto, un crescendo di ambiguità. Richard è insieme vittima e minaccia, oggetto di accoglienza e corpo estraneo, catalizzatore dei desideri inespressi di Alice e delle paure di una comunità pronta a ristabilire l’ordine espellendo ciò che non comprende. Qui Lieberman lavora per minimi slittamenti percettivi, mostrando come il giudizio morale sia sempre instabile, condizionato dal bisogno, dalla solitudine, dal timore della contaminazione. Il risultato è un romanzo di grande tensione etica, che interroga il lettore sul significato dell’ospitalità, della responsabilità e della giustizia senza offrire scorciatoie consolatorie.

Nel loro insieme, i libri di Herbert Lieberman restituiscono il ritratto di uno scrittore che ha usato il thriller come strumento analitico per osservare l’America nelle sue contraddizioni strutturali: la violenza incorporata nello spazio urbano, l’ipocrisia delle istituzioni, la fragilità dei legami familiari, il peso ineliminabile del passato. La sua formazione teatrale affiora nella costruzione dei dialoghi, essenziali e taglienti, e nella capacità di mettere i personaggi “in scena” come corpi esposti, vulnerabili, costretti a recitare ruoli che spesso li tradiscono. Che oggi Lieberman sia finalmente disponibile in italiano non è soltanto un atto di riparazione editoriale, ma un invito a riconsiderare i confini del canone e del genere. Va letto per intero, non per completismo, ma perché ogni romanzo aggiunge una tessera a un mosaico narrativo che, osservato nel suo insieme, rivela una delle voci più rigorose, coerenti e sottovalutate della letteratura americana.

Angelo Cennamo

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OMAR DI MONOPOLI, IL GOTICO DEL SUD RISCRITTO IN PUGLIA

C’è una linea netta che attraversa tutta l’opera di Omar Di Monopoli: una linea di polvere, sole e sangue che parte dall’entroterra pugliese e arriva dritta nel cuore della narrativa americana del Novecento. Non è una semplice influenza, né un gioco di rimandi colti: è una parentela strutturale, una comunanza di sguardo sul mondo. Di Monopoli scrive come se la Puglia fosse una contea inventata, un territorio chiuso, coerente, autosufficiente, in cui le storie tornano, i cognomi pesano come sentenze irrevocabili e il paesaggio non fa da sfondo ma decide il destino degli uomini. Come accade nella Yoknapatawpha di Faulkner o nel Texas Orientale di Lansdale, la geografia non è neutra: è una forza attiva, una presenza che plasma caratteri, morale e violenza. Le campagne bruciate, le strade sterrate, i paesi senza cinema né futuro sono dispositivi narrativi che stringono i personaggi in una morsa lenta e inesorabile. Qui la possibilità di scelta è sempre limitata, e ogni tentativo di deviazione finisce per rientrare nel solco già tracciato. Fin dall’esordio con Uomini e cani è chiaro che non c’è spazio per l’indulgenza o per l’illusione sociologica: la violenza non è un incidente, è una regola non scritta; la comunità non protegge, divora; la famiglia non educa, ma trasmette il male come un’eredità naturale, biologica quasi, più che culturale. Quel primo romanzo, rielaborato molti anni dopo senza tradirne l’urgenza originaria, resta un libro sporco e vitale, istintivo e fisico, nato da una lingua che allora esplodeva in metafore, dialetto, iperboli, e che oggi, ripulita e rimodulata, conserva la stessa energia irregolare, la stessa sensazione di essere stata scritta con il corpo prima che con la testa. Uomini e cani è un testo fondativo perché contiene già l’intero arsenale tematico e simbolico di Di Monopoli: l’uomo ridotto a bestia, il cane come doppio morale e specchio degradato dell’umano, il Sud come campo di battaglia primitivo in cui nessuno, davvero, può dirsi innocente. È un romanzo che rifiuta ogni pedagogia e ogni spiegazione esterna: mostra, espone, lascia che il lettore respiri la polvere e il sangue senza filtri.

Con Nella perfida terra di Dio quell’universo si espande e si organizza in una forma più complessa e ambiziosa. Rocca Bardata diventa il centro magnetico di una geografia immaginaria che assomiglia alla contea faulkneriana molto più di quanto assomigli a qualsiasi cartolina pugliese. È uno spazio narrativo autosufficiente, dotato di una propria mitologia, di genealogie, di peccati che si accumulano nel tempo. Qui arriva ’mbà Nuzzo, pescatore, ladro e puttaniere che si scopre improvvisamente predicatore, e la sua conversione grottesca e inquietante innesca una catena di eventi in cui sacro e criminale si confondono fino a diventare indistinguibili. La religione, in Di Monopoli, non è mai un rifugio né una via di salvezza: è uno strumento di potere, una lente che ingrandisce le storture invece di correggerle. La fede non redime, semmai legittima. Nel convento di suor Narcissa la santità diventa merce di scambio, e la devozione una maschera funzionale quanto una pistola. È un cattolicesimo carnale, superstizioso, violento, profondamente terreno, che dialoga più con il gotico del Sud americano che con la tradizione del realismo italiano. La struttura del romanzo, fatta di ritorni, anticipazioni, scarti temporali, rafforza questa visione: il tempo non è una linea progressiva ma una palude, un pantano in cui il passato riaffiora continuamente, contaminando il presente. Il finale, annunciato e inevitabile, non ha bisogno di colpi di scena: è devastante proprio perché era scritto fin dall’inizio, inscritto nella terra e nei corpi. È qui che il dialogo con la letteratura americana si fa evidente senza mai risultare mimetico o derivativo. Di Monopoli prende il gotico del Sud, il western sporco, il romanzo di frontiera, e li trapianta in Puglia con una naturalezza disarmante, dimostrando che il Mississippi e l’Arneo, il Texas orientale e l’entroterra ionico condividono la stessa durezza, lo stesso rapporto patologico con la terra, la memoria e il potere. Come in Faulkner, come in McCarthy, il paesaggio non consola e non assolve ma schiaccia, deforma, condanna.

In Brucia l’aria questa pressione si fa più intima. Il fuoco che attraversa la storia dei Caraglia è una maledizione ereditaria, un marchio che si trasmette di generazione in generazione. Rocco tenta una forma di espiazione, una moralità imperfetta e dolorosa; Gaetano, al contrario, sprofonda in una deriva autodistruttiva che sembra già decisa prima ancora di compiersi. Intorno a loro il mondo resta identico a se stesso, impermeabile a ogni possibilità di cambiamento strutturale. Anche qui Di Monopoli rifiuta la retorica della redenzione: gli basta mostrare come certi posti rendano ogni scelta parziale, ogni fuga incompleta, ogni salvezza individuale irrilevante sul piano collettivo. Tutto questo universo non reggerebbe senza una lingua capace di sostenere insieme brutalità e musica, ed è forse qui che Di Monopoli gioca la sua partita più personale e riconoscibile. Il suo italiano è un impasto di dialetto tarantino, ritmo biblico, invenzione continua, una lingua che non cerca di piacere ma di colpire, che suona antica e insieme viva, capace di essere lirica e oscena nella stessa frase. Il dialetto non è un ornamento folklorico ma uno strumento cognitivo: serve a pensare il mondo da dentro, a non prendere distanza, a evitare ogni tentazione di superiorità morale o stilistica. In questo senso Di Monopoli è uno scrittore profondamente visivo e narrativo, cresciuto tra fumetti, cinema di genere e western, che usa i generi come utensili, non come gabbie. Crime, gotico, western non sono etichette di mercato ma forme di precisione, dispositivi per dire il vero senza addolcirlo. Nei suoi libri il Sud non è un problema da spiegare né un territorio da salvare: è soprattutto una condizione esistenziale, una forma mentis, una trappola storica. Questa stessa linea nera, primitiva e implacabile, arretra ancora nel tempo in In principio era la Bestia, dove Di Monopoli spinge il suo universo narrativo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in una Languore nei pressi di Taranto che sembra già contenere in embrione tutto il suo Sud futuro. L’indagine su una creatura che sbrana uomini e animali, condotta da un capitano borbonico affiancato da uno scienziato e da un soldato, si rivela presto un falso centro narrativo: la Bestia è solo una delle possibili incarnazioni del male, forse nemmeno la più rilevante. A dominare la scena sono i notabili, don Carmelo Dirlampa e Mastro De Santis, incarnazioni di un potere assoluto, osceno e impunito, che crocifigge i contadini ribelli, accumula cadaveri per riti satanici e si protegge dietro il prestigio, la ricchezza, le logge. È una rappresentazione del potere come violenza strutturale, che anticipa e spiega tutte le degenerazioni successive. In mezzo a questa ferocia istituzionalizzata si muove la figura ambigua e luminosa del prete brigante, unico argine possibile alla crudeltà dei potenti non perché giusto ma perché esterno all’ordine costituito. Non c’è eroismo, solo una diversa collocazione nel sistema della violenza. Come spesso accade nei libri di Di Monopoli, sono le donne a spezzare l’inerzia del destino: Pasanedda, sacrificata a un matrimonio mostruoso; Maria Addolorata e la folle Mela, figlie di Dirlampa, che trasformano il dolore in gesto, il trauma in azione, imprimendo alla storia una svolta irreversibile. In un universo dominato dalla sopraffazione maschile, sono loro a introdurre una frattura, un cambiamento reale. Anche qui la lingua è materia viva, contaminata dal dialetto e da una sacralità rovesciata, e la denuncia è esplicita, quasi programmatica, come nella voce di chi sceglie la macchia perché escluso per nascita da ogni idea di giustizia: «Io mi so dato alla macchia perché quando ho chiesto giustizia i colleghi tuoi mi hanno accusato delle peggio cose. Da ste parti come na maledizione è: se nasci potente puoi fare il cazzo che vuoi, ma se nasci ultimo destinato a pigghjàrla ntra lu culo tutta la vita rimani, persino se sei un baciapile». La Bestia, alla fine, non smette mai davvero di camminare tra gli uomini: cambia nome, epoca, forma, ma resta sempre lì, incarnata nella terra, nel potere e nella memoria. Ed è proprio questa fedeltà radicale a un mondo che non chiede scuse, che non cerca consolazione, a rendere l’opera di Omar Di Monopoli una delle più riconoscibili e coerenti della letteratura italiana contemporanea.

Angelo Cennamo

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IL ROMANZO PERFETTO DI JOHN UPDIKE

Harry Angstrom è un uomo di mezza età, e lo si vede ora andare in giro per le strade di Brewer, Pennsylvania, a bordo di una Toyota Corona color zuppa di pomodoro riscaldata: un colore imbarazzante, eppure perfettamente coerente con il suo presente. Harry è sicuro di sé. È finalmente dentro le cose, non più ai margini. Ha ereditato la concessionaria del suocero – “il re degli imbroglioni”, stecchito da un infarto – e gli affari vanno a gonfie vele. I soldi girano, il denaro passa di mano, luccica, si accumula. Harry può dirsi, senza ironia, un americano realizzato. È l’uomo in vetrina. Il direttore. Il padrone di un piccolo regno fatto di lamiera, cromature, rate e firme su contratti. Gli piace sguazzare nei soldi delle auto vendute, toccarli quasi con mano, sentirne il peso simbolico più ancora che quello reale. E gli piace, forse ancor di più, il rispetto degli abitanti di Brewer: i cenni di saluto, gli sguardi di riconoscimento, quella deferenza appena accennata che gli viene riservata da chi, ai tempi del liceo, lo considerava poco più che spazzatura. Harry ricorda tutto, ma non serba rancore. O meglio, il rancore si è trasformato in una soddisfazione quieta, in una rivincita che non ha bisogno di essere dichiarata. Con lui, quasi al timone di questa barca che ora sembra procedere a vele spiegate, c’è il vecchio e malaticcio Charlie Stavros, presenza secondaria e insieme perturbante: dieci anni prima aveva avuto una relazione con Janice, la moglie di Harry. Ma Harry non porta rancore neppure a lui. Harry è un uomo di ampie vedute in fatto di sesso, e quello che accadrà nelle ultime pagine di questo terzo capitolo della saga lo confermerà ancora una volta: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E Harry, sotto la giacca del dirigente e il sorriso del cittadino rispettabile, resta sempre Coniglio.

Siamo nel 1979. È passata molta acqua sotto i ponti, ma Coniglio non sembra cambiato più di tanto, neppure fisicamente. Il corpo tiene. Le articolazioni rispondono. Dopo il lavoro può sgranchirsi le gambe stando all’aria aperta, giocare a golf, sfogliare la sua rivista preferita, e soprattutto può ricominciare a considerare Janice come una donna desiderabile: una donna con cui fare sesso, e non soltanto mentre lei dorme, come accadeva nei momenti più opachi e colpevoli del loro matrimonio. Il desiderio torna, in forme magari meno furiose ma più insistenti, più adulte. Cosa o chi potrebbe turbare questo clima di benessere a tutto tondo? A parte la presenza sempre minacciosa della matriarca Bessie, la suocera, che come un puparo muove i fili della famiglia Angstrom e non rinuncia mai del tutto al controllo, l’uragano che si profila all’orizzonte ha le sembianze di un picchiatello a un passo dalla laurea. È la giovane testa di cazzo della famiglia, degno discepolo di Coniglio, il suo doppio deformato e anticipato. Dal Midwest arriva quel “piccolo punk tristanzuolo” di Nelson, il figlio di Harry e Janice, con un obiettivo preciso e irritante nella sua semplicità: lavorare con papà, entrare in concessionaria, e chissenefrega degli ultimi tre esami da dare all’università. La pace è finita. Harry è nel panico, un panico che non si manifesta in urla ma in frasi secche, difensive, quasi imploranti. “Tu mi prometti solo di girare al largo dalla mia concessionaria e di riportare il culo nell’Ohio”, dice a quel nanerottolo di poco più di un metro e settanta – e il pensiero, inevitabile e meschino, gli attraversa la mente: ma sarà davvero figlio suo?

Sei ricco, Coniglio, romanzo del 1981 e premio Pulitzer meritatissimo, è insieme a Riposa, Coniglio (l’ultimo capitolo della serie), Il centauro e Coppie una delle vette più alte della prolifica carriera letteraria di John Updike. Una carriera che oggi, inspiegabilmente, sembra essere scivolata nello scaffale dei dimenticati, subendo una sorte simile a quella di Philip Roth: entrambi passati nel tritacarne di filologi bigotti e catechisti invasati del romanzo, più preoccupati di epurare che di capire. “Updike sa tutto delle Toyota, mentre io che vivo in campagna non conosco neppure i nomi degli alberi”. La celebre riflessione di Roth sulla capacità dell’amico-rivale di documentarsi su tutto prima di scrivere contiene un dato rivelatore. Mette in luce una prerogativa di Updike che salta immediatamente agli occhi del lettore e che fa davvero la differenza in qualsiasi confronto, possibile o impossibile, tra questi due scrittori. Roth si è concentrato sugli aspetti immateriali dell’esperienza umana: la vita e la morte, l’amore in tutte le sue forme, l’odio, la famiglia, la religione, la malattia, la verità e la finzione, la scrittura soprattutto. Updike, invece, ha esplorato la materia. È entrato nei dettagli concreti della quotidianità: oggetti, marchi, gesti, abitudini, ma della quotidianità dell’uomo qualunque, più che degli intellettuali o degli uomini d’affari che popolano l’universo borghese dello scrittore di Newark. Il realismo pragmatico, il precisionismo quasi maniacale di Updike colmano un vuoto che Roth non ha mai ritenuto necessario riempire. Eppure, è sul sesso che John e Philip sembrano sovrapporsi con minime differenze, come se entrambi avessero individuato lì il punto in cui la rispettabilità americana mostra le sue crepe più profonde. Sei ricco, Coniglio precede Il teatro di Sabbath di quattordici anni, ma la cronologia suggerisce una possibile influenza, o quantomeno una consonanza, nella descrizione dei momenti di intimità. Coniglio Angstrom che trova in un cassetto gli scatti porno della moglie del vecchio Webb è a un passo dall’onanismo di Mickey Sabbath, il personaggio di Roth sorpreso dall’amico Norman nella vasca da bagno con in mano una foto di sua figlia. Scene speculari, disturbanti, che parlano di desiderio, colpa, potere e decadenza. Scene da un matrimonio – quello di Harry e Janice – passato attraverso adulteri, fughe, ripicche, e tuttavia più solido di quanto si creda. Un matrimonio che resiste non per virtù, ma per inerzia, per abitudine, per una specie di fede laica nel continuare. E la storia, naturalmente, continua.

Angelo Cennamo

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LA BELLEZZA FERITA: IL MONDO SEGRETO DI JOHN CHEEVER

“Nella mezza età c’è mistero, c’è mistificazione. Il massimo che riesca a cogliere di questo periodo è una specie di solitudine”. Da questa soglia di inquietudine, che apre Una specie di solitudine, emerge un John Cheever complicato: un uomo attraversato da contraddizioni profonde, sospeso fra l’ideale tutto americano della vita familiare e il tormento delle pulsioni più private; fra l’aspirazione alla bellezza formale e la brutalità della dipendenza dall’alcol. Nei diari (pubblicati in Italia da Feltrinelli con la traduzione di Adelaide Cioni) non si compone una biografia lineare ma un tessuto minuto di impressioni, confessioni, osservazioni quotidiane: un flusso di coscienza che supera per intensità e precisione persino la compattezza dei suoi romanzi e la raffinatezza dei racconti che lo hanno reso celebre sulle pagine del New Yorker. L’immagine pubblica dello scrittore rispettabile si dissolve rivelando un uomo fragile, inquieto, segnato da una sessualità oscillante, attratto dal femminile e insieme paralizzato dal timore di riconoscere la propria omosessualità. Nel rapporto con la moglie Mary e con i figli convivono affetto autentico, gelosie sotterranee e tensioni acuite dalla sua bisessualità e dalla consuetudine all’infedeltà: un nodo emotivo che Cheever analizza con un’onestà che non risparmia nulla, nemmeno il proprio ridicolo o la propria crudeltà involontaria. Il tema della solitudine attraversa ogni stagione della sua vita: l’adolescente malinconico che osserva la vita altrui dalle finestre illuminate diventa il simbolo della sua stessa esistenza, sempre un passo indietro rispetto alla felicità, sempre a metà strada tra la luce e una forma insondabile di estraneità. La scrittura, in questo contesto, è al tempo stesso rifugio e strumento di indagine: Cheever riflette ossessivamente sulla musicalità della frase, sul rischio della banalità, sulla necessità di una precisione che a volte sfiora la poesia. Registra con disciplina quasi crudele i propri progressi, come l’impegno di scrivere un racconto alla settimana, e le inevitabili ricadute nella disperazione creativa. L’autoritratto è arricchito dal dialogo implicito con i suoi contemporanei. Se verso Saul Bellow prova una fastidiosa rivalità, l’ammirazione per Nabokov è punteggiata da una sorta di timore reverenziale, mentre in Updike riconosce un erede e un rivale, capace di tradurre in racconto la vita dei sobborghi con una lucidità che lui sente vicina alla propria. Al centro dei diari rimane tuttavia la lotta contro l’alcol, narrata senza compiacimenti ma con una sincerità che non concede scappatoie: la bottiglia come analgesico quotidiano, la lenta disintegrazione psicologica, le ricadute, i tentativi di salvezza negli Alcolisti Anonimi e nelle cliniche di disintossicazione. In queste pagine si percepisce la misura del tempo che sfugge, l’urgenza di recuperare una vita possibile, la paura di distruggere ciò che ama. Natura, religione, casa, desiderio: sono i grandi poli tematici della sua scrittura. La luce, i cieli invernali, la fisicità del corpo immerso nei paesaggi diventano immagini di purificazione ma anche specchi del senso di colpa. La spiritualità di Cheever non cerca dogmi né assoluzioni; è piuttosto un’adesione alla bellezza del mondo, alla liturgia come gesto di appartenenza, una forma di consolazione terrena che contrasta con la tormentata ricerca di coerenza interiore. Così la casa, il giardino, le luci serali, assumono una funzione di rituale: emblemi della stabilità cui aspira e che, paradossalmente, la sua stessa natura gli impedisce di raggiungere pienamente.

Con il passare degli anni, Cheever accetta la propria bisessualità, smette di bere, ritrova una parziale serenità, ma la solitudine non lo abbandona. La sua visione del mondo resta tenera e dolorosa: Cheever sente la fragilità dei legami, la preziosità di ogni gesto quotidiano, anche il più semplice, come accarezzare un figlio o osservare un animale domestico mentre dorme. Questa duplicità (l’uomo e lo scrittore, il desiderio e il rimorso, la disciplina formale e lo smarrimento esistenziale) costituisce la forza stessa del libro. Più che il racconto di una vita tormentata, Una specie di solitudine è un’opera letteraria di ampio respiro che conferma una verità tipica di  molti grandi artisti, quella secondo cui il successo della forma supera spesso la conquista della felicità. Ma nel caso di Cheever questo sorpasso avviene con una grazia e una lucidità tali da rendere la lettura dei suoi diari un’esperienza di rara intensità e bellezza da illuminare non solo la sua vita ma anche la nostra.

Angelo Cennamo

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COSMOLOGIA DEL LIMITE: L’ULTIMO PARADIGMA MCCARTHIANO

Tutti vogliono possedere la fine del mondo, scrive DeLillo nell’incipit di Zero K. È un concetto che forse non appartiene al progetto estetico di Cormac McCarthy; eppure, come un’eco distante che rimbalza da un’estremità all’altra del panorama letterario americano contemporaneo, questo pensiero può funzionare come varco d’accesso alla sua ultima impresa narrativa. Non perché McCarthy condivida la prospettiva di DeLillo sulla tecnicizzazione dell’apocalisse, ma perché entrambe le poetiche sono attraversate dalla medesima ossessione: la soglia finale, la linea che separa ciò che è conoscibile da ciò che non lo è. Ma proviamo ora a oltrepassarla, questa soglia introduttiva, per entrare nello spazio più scabro, enigmatico e insondabile, del dittico Il passeggero – Stella Maris. Per comprendere appieno la funzione e l’ambizione di questi due romanzi gemelli, in America usciti in contemporanea, è necessario collocarli all’interno di un percorso di oltre quarant’anni, che ha progressivamente spostato il centro di gravità della narrativa mccarthiana dall’epica della violenza alla metafisica della conoscenza. Gli esordi dello scrittore, segnati dall’influenza di Faulkner, dall’ossessione per il peccato originale e dalla costruzione di paesaggi rurali popolati da creature abbandonate alla propria ferinità, definiscono una prima stagione in cui il male appare come fatto ontologico, inscritto nell’ordine stesso dell’esistenza. In romanzi come Suttree, il confine tra eros e distruzione, tra rivelazione e degrado, si fa labile: il protagonista, eremita urbano sospeso tra povertà e intuizioni improvvise, esplora una città e un mondo in cui la bellezza e la violenza coesistono senza soluzione di continuità, e dove il linguaggio alterna lirismo e brutalità con una maestria che trasforma la scrittura in esperienza fisica. Con la trilogia della frontiera, McCarthy porta questa visione oltre il perimetro geografico e psicologico del Sud gotico. La frontiera, più che essere un altrove da conquistare, diventa un confine in continua retrocessione, uno spazio in cui l’individuo scopre la sproporzione tra il proprio desiderio di senso e un mondo che gli oppone solo indifferenza. In questa tensione si annida il nucleo filosofico del narratore: l’uomo è sempre chiamato a misurarsi con forze che eccedono infinitamente la sua comprensione, e la frontiera stessa diventa metafora del limite conoscitivo dell’umano. Questa intonazione raggiunge la sua formulazione più radicale in Meridiano di sangue, opera che Harold Bloom colloca accanto ai massimi monumenti della letteratura americana. Il Giudice Holden, incarnazione lucida e terrificante del male, rappresenta l’ipotesi estrema della visione mccarthiana: la violenza come grammatica cosmica, il male come principio ordinatore della realtà. Nel paesaggio post-apocalittico ridotto a cenere de La strada, la lingua viene distillata fino all’essenziale: la narrazione ridotta all’osso diventa riflesso della devastazione ambientale, e il legame fragile tra padre e figlio si erge come ultimo residuo di senso. Se in Meridiano di sangue la verità ultima era il male cosmico, ne La strada la verità è il resto che resiste al nulla, la scintilla di umanità in un universo disumanizzato. Dopo La strada, il silenzio sedicennale non rappresenta un vuoto creativo ma un laboratorio invisibile in cui McCarthy riorienta il proprio sguardo. Con Il passeggero e Stella Maris, pubblicati ormai novantenne, non assistiamo a una sintesi dell’opera mccarthiana, ma a un mutamento di scala radicale: la violenza lascia il posto alla conoscenza, la frontiera fisica si trasforma in frontiera epistemica, e il conflitto non si svolge più nei paesaggi della prateria o del deserto, ma negli spazi intricati della mente. Tra i due romanzi, Stella Maris costituisce il nucleo teorico e il motore concettuale. Composto quasi interamente da dialoghi tra Alicia Western, ventenne genio matematico affetta da schizofrenia paranoide, e lo psichiatra Cohen, il libro esplora la tensione tra potenza cognitiva e fragilità mentale. Alicia non è la figura stereotipata del genio maledetto: rappresenta piuttosto una mente che percepisce strutture del reale incompatibili con la salute mentale. La sua relazione con la matematica, disciplina che McCarthy sceglie come strumento privilegiato per sondare l’ordine primordiale del mondo, è ontologica: la matematica non è mera tecnica né estetica, ma forma stessa del pensiero. Il linguaggio, in confronto, appare inadeguato e talvolta ridicolo di fronte alla vastità della percezione che la mente di Alicia intercetta. I riferimenti a Wittgenstein non sono semplici ornamenti colti: per Alicia, la filosofia del linguaggio rappresenta l’epicentro della crisi cognitiva. Se “i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo”, il suo mondo si rivela troppo vasto per essere contenuto. Gli episodi allucinatori, trasposti in corsivo ne Il passeggero, non segnano un cedimento psicologico ma l’espressione estrema di un’intelligenza che ha oltrepassato il punto di saturazione. La presenza del padre, scienziato coinvolto nel Progetto Manhattan, conferisce a questa crisi una dimensione etica: la conoscenza avanzata produce colpa, e il peso della responsabilità morale diventa insopportabile. Il passeggero fa da contrappunto a questa riflessione teorica, assumendo sulla propria trama la colpa della conoscenza. La vicenda, il ritrovamento di un aereo affondato, intatto ma privo della scatola nera e di un passeggero, funziona solo apparentemente come mistero investigativo. In realtà, il vuoto, ciò che manca, diventa la materia del racconto. Bobby Western, fratello di Alicia, attraversa un’America sospesa, in cui la storia sembra aver perso ogni tensione verso il futuro. Le sequenze liriche della sua deriva, che richiamano i momenti migliori di Suttree, mostrano un uomo che non fugge da un potere, ma da un vuoto cognitivo, affettivo e ontologico. L’amore incestuoso e non consumato tra i due fratelli non è un espediente scandalistico, ma la rappresentazione simbolica del divario tra ciò che l’umano vorrebbe comprendere e ciò che inevitabilmente gli sfugge: Alicia implode nel pensiero, Bobby nel mondo.

Nel loro insieme, il dittico non è un romanzo filosofico in senso accademico, semmai un’opera che utilizza la filosofia e la matematica per tracciare i limiti della mente umana. In questo gesto, sorprendente per un autore che ha sempre privilegiato la corporeità e l’azione, McCarthy compie uno spostamento radicale: dalla fisicità della frontiera e della violenza, alla speculazione pura, alla frontiera dell’intelletto. Tuttavia, anche in questa nuova prospettiva, permane la costante ossessione della sua letteratura: l’uomo è gettato in un universo che non può comprendere, ma al quale non può smettere di porre domande. Il passeggero e Stella Maris non sono un testamento consolatorio di un grande vecchio della letteratura americana, ma un’ultima sfida posta al lettore: accettare che la conoscenza non redime, che il linguaggio non salva, che la mente può naufragare quanto nel deserto di Meridiano di sangue o nelle strade bruciate de La strada. Il loro contributo all’opera di McCarthy non consiste nella conclusione del percorso narrativo ma nella rivelazione della sua geometria nascosta: fin dagli esordi, dall’epica della violenza alle frontiere del West, la vera domanda dell’opera mccarthiana non era come l’uomo sopravvive al mondo, ma come sopravvive a ciò che sa o crede di sapere. In questo senso, il dittico finale non chiude un cerchio, ma apre uno spazio di riflessione ancora più radicale: la frontiera ultima è la mente umana stessa, e il mistero più grande non è il mondo, ma ciò che esso ci consente di comprendere di noi stessi.

Angelo Cennamo

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IL ROMANZO COME LABORATORIO DELLA PAROLA: BEN LERNER E LA CRISI DEL DISCORSO CONTEMPORANEO

Topeka School di Ben Lerner è uno dei tentativi più riusciti nella narrativa americana contemporanea di sondare il mondo della comunicazione, di rivelarne rischi e potenzialità, possibili distorsioni. Lerner comprende che la metamorfosi del romanzo coincide con la metamorfosi del linguaggio stesso: non costruisce solo personaggi o trame complesse, ma fa della lingua il vero oggetto di un’indagine, un campo di forze nel quale emergono tutte le fratture del presente. Il romanzo è un laboratorio critico attraverso cui Lerner mostra come il mondo, prima ancora di essere vissuto, venga articolato, deformato, dai discorsi che lo nominano. La Topeka degli anni Novanta, luogo di formazione di Adam Gordon, ci appare come un microcosmo pre-digitale in cui si agitano le stesse tensioni discorsive che definiranno il nuovo millennio: retoriche tossiche, rituali competitivi della parola, forme di comunicazione agonistica che trasformano il linguaggio in un dispositivo di potere. La tecnica dello spread usata nel debate agonistico, quel flusso ininterrotto di parole pronunciate a velocità innaturale, pensato per sommergere l’avversario più che per persuaderlo, diventa la metafora decisiva del testo. È l’immagine di un mondo in cui parlare significa occupare militarmente lo spazio, impedire, ostacolare la complessità invece di lasciarla emergere. Lerner spiega che la degenerazione del discorso, prima ancora che sociale o politica, è una degenerazione del ritmo: troppe parole, troppo veloci, troppo aggressive perché possano ancora produrre ascolto. In questo senso, Topeka School riflette il caos agonistico dei talk politici, delle arene televisive dove il linguaggio non serve più a chiarire ma a polarizzare lo scontro. I format che dominano il dibattito pubblico (la rissa verbale, l’interruzione continua, l’oratoria dell’indignazione) portano alle estreme conseguenze quella stessa logica dello spread: chi parla non cerca di farsi capire, ma di prendere tempo, occupare lo schermo, sopraffare l’altro attraverso un eccesso di voce. È qui che il romanzo anticipa la retorica politica contemporanea: dai comizi di Donald Trump, costruiti su un flusso discorsivo apparentemente spontaneo ma in realtà calibrato per generare shock, risate, nemici immediati, fino alle strategie comunicative adottate da certi predicatori mediatici o da attivisti alla Charlie Kirk, figure che lavorano o che hanno lavorato sulla performatività della parola per veicolare idee e contenuti spesso controcorrente. In questi contesti il linguaggio più che strumento di ragionamento, è un atto di mobilitazione emotiva. La frase breve, il ritmo martellante, la costruzione di un “noi” assediato da un “loro” sono tecniche che trasformano la comunicazione in appartenenza tribale. Non importa tanto ciò che viene detto ma l’effetto che produce; non la validità o non solo la validità, ma la vibrazione emotiva; non la verità o non solo la verità, ma l’energia del gesto verbale. Questo genere di retorica non nasce dal nulla. Le sue radici si trovano nelle forme educative, nei modelli di mascolinità agonistica, nelle dinamiche familiari, nelle tecniche competitive del parlare che trasformano la lingua in un ring. La cultura dello shock verbale e dell’invettiva non è una prerogativa dei social, questi semmai l’amplificano, la rendono virale, ma il ceppo patogeno è più antico e profondo. L’America degli anni Novanta, con i suoi talk, i suoi dibattiti scolastici trasformati in competizioni, si presenta nel romanzo come il sottosuolo in cui si prepara la futura esplosione della comunicazione iper-politicizzata del XXI secolo. Lerner articola la sua diagnosi attraverso una polifonia controllata. Le voci dei personaggi non si limitano a succedersi: migrano l’una nell’altra, si risuonano, si distorcono. Jane, psicologa che pensa la parola come cura, sperimenta invece la violenza simbolica della parola politica che cerca di delegittimarla tramite l’insulto. Jonathan studia il disagio delle nuove generazioni e come l’incomunicabilità acceleri certi processi disgregativi. Adam, divenuto adulto, tenta di insegnare alle figlie un linguaggio morale, ma si accorge che nessuna parola è completamente controllabile: ogni enunciato produce un’eco imprevista, si propaga nel mondo con effetti che sfuggono a chi l’ha pronunciato. E poi c’è Darren, personaggio emblematico e doloroso: qualcuno che non possiede le chiavi del linguaggio dominante, che vive la parola come un ostacolo più che come un mezzo di partecipazione. Escluso dal discorso, verrà escluso dalla comunità; la sua solitudine linguistica anticipa la sua solitudine esistenziale. Lerner suggerisce così che la crisi del linguaggio è sempre anche una crisi politica: chi non sa parlare (o non può farsi ascoltare) diventa invisibile, marginale, potenzialmente pericoloso. La collera nasce dove la parola fallisce.

Da questo punto di vista, Lerner si inserisce in una costellazione di scrittori che hanno fatto del linguaggio la vera materia del romanzo. Rachel Cusk esplora un io che esiste solo nella parola degli altri; David Foster Wallace analizza un’America dove la dipendenza dall’intrattenimento facile ha saturato tutto, fino a impedire l’empatia; Sheila Heti lavora sulla frantumazione del pensiero parlato; Joshua Cohen, con Il libro dei numeri, mette in scena la grammatica dell’era digitale; Valeria Luiselli usa la lingua come archivio del trauma. Tutti questi autori riconoscono che il linguaggio non è neutrale ma un campo di battaglia dentro il quale si formano le possibilità stesse del reale. Lerner si distingue per la capacità di tenere insieme riflessione linguistica e critica culturale, vicende private e storia nazionale. La letteratura non deve restaurare una purezza perduta ma aprire un varco nel rumore: rallentare il flusso, restituire densità alla parola, pensare contro la saturazione. Topeka School diagnostica la crisi del discorso contemporaneo ma, nello stesso gesto, propone un’alternativa: la lentezza, l’ascolto, la cura dei nessi, il recupero di un ritmo che permetta alla complessità di imporsi. In un mondo in cui la parola rischia di ridursi a merce, slogan o arma politica, Lerner ricorda che la letteratura può ancora rappresentare un laboratorio di coscienza, una resistenza contro l’erosione del senso, un metodo per abitare il linguaggio quando tutto sembra congiurare contro la possibilità stessa di comprendersi.

Angelo Cennamo

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LA VITA IMMAGINATA DI ANDREW PORTER È IL LIBRO DELL’ANNO

Steven Mills è un uomo alla deriva. Professore universitario in piena crisi personale, ha visto sgretolarsi ogni certezza: la moglie lo ha lasciato, il rapporto con il figlio si è dissolto, e il lavoro al Writing Center dell’Università di San Francisco è ormai solo un ricordo. Ma la frattura più profonda nella vita di Steven risale a molto prima ed è legata alla scomparsa improvvisa di suo padre, avvenuta nel 1984, quando Steven era ancora un ragazzino. È questa assenza antica e incancellabile a spingerlo oggi lungo la costa della California, in un viaggio che è al tempo stesso ricerca e resa dei conti. Steven vuole scoprire chi fosse davvero quell’uomo che un giorno è sparito misteriosamente, senza lasciare traccia, lasciandosi alle spalle una famiglia disorientata e un figlio colmo di domande. L’indagine personale si intreccia così con i fili sfilacciati della propria identità, con l’infanzia assolata a Fullerton, gli amici, i dischi, i film in tv. Ne nasce un romanzo di formazione al contrario, dove il passato non guida, ma confonde, e dove ogni ricordo è una porta che si apre su un altro enigma.

Il racconto prende avvio da un’estate del 1983, nella cornice dorata e malinconica di una festa borghese. Una piscina, i genitori che ridono, fumano erba con gli amici, e un vecchio proiettore che trasmette film in bianco e nero sotto le stelle. La California di quegli anni si rivela in tutta la sua sensualità sfavillante, ma anche in controluce: dietro l’euforia sale la tensione. La festa degenera, l’alcol scorre, accade qualcosa che il giovane Steven non riesce del tutto a comprendere. Quella sera segna una cesura, un punto di rottura. Da lì, suo padre, brillante docente di Letteratura Inglese al St. Agnes College, comincia a perdere lentamente tutto: prestigio, lucidità, credibilità. Gli anni seguenti sono un lento smottamento. Emergono voci su comportamenti inappropriati, su scandali mai chiariti, su una vita forse doppia. La figura paterna, un tempo solare e carismatica, si trasforma: diventa silenziosa, diffidente, ossessionata dalla sicurezza e dal sospetto. Il padre di Steven passa ore rinchiuso nel capanno in fondo al giardino, spesso in compagnia dell’enigmatico collega Deryck Evanson, figura centrale e ambigua nei ricordi di Steven. Annotazioni segrete, nomi scritti su taccuini nascosti: il padre si chiude in un mondo parallelo, dove paranoia e disgregazione mentale si confondono. Molti anni dopo, Steven cerca di ricomporre questo mosaico frantumato. Intervista amici di famiglia, ex studenti, colleghi: ognuno restituisce un frammento, un’impressione, una verità parziale. C’è chi lo ricorda come un mentore generoso, chi come un uomo instabile, chi come un idealista sopraffatto. Nessuna versione coincide con l’altra, e la figura del padre si rivela sfuggente, piena di contraddizioni, irrisolta. Questa indagine però non riguarda solo il padre ma anche sé stesso. Steven non cerca una verità assoluta, ma un modo per fare pace con ciò che è stato. Nel processo riemergono memorie sopite, come l’amicizia intensa con Chau, compagno di adolescenza, di esplorazioni sessuali, di notti irrequiete e confusione identitaria. 

Con La vita immaginata, pubblicato in Italia da Feltrinelli con la traduzione di Ada Arduini, Andrew Porter, autore della Pennsylvania con dei trascorsi all’Iowa Writers’s Workshop, costruisce un romanzo intimo e struggente, che indaga le pieghe della memoria e il bisogno di comprendere chi siamo attraverso chi ci ha generati. Non è solo una storia familiare, ma una riflessione profonda sull’identità, sul peso delle aspettative, e su quella distanza incolmabile tra ciò che è stato e ciò che avremmo voluto fosse. La California degli anni ’80: libera, briosa, eppure macchiata dalla disillusione, è uno scenario quasi ellisiano, lo specchio di una generazione smarrita. Porter si muove nel solco della grande narrativa americana del disincanto, evocando atmosfere suburbane e tensioni domestiche alla maniera di John Cheever e Richard Yates, e interrogandosi sul significato di certe assenze, sul tempo che non rimargina le ferite, sul fragile confine tra ammettere e accettare. La vita immaginata è il libro del 2025 per Telegraph Avenue. 

Angelo Cennamo

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CILENTO SELVAGGIO

Antonio Lanzetta è uno scrittore di frontiera in un’accezione rara nel panorama italiano: non si limita cioè a collocare le sue storie in un luogo, ma fa di quel luogo, che è il Cilento, le sue strade di mare e di campagna (io e Lanzetta siamo cresciuti nello stesso quartiere: la Zona Orientale di Salerno), una lente deformante e rivelatrice che proietta l’immaginario territoriale oltre i suoi stessi confini. In Lanzetta convivono l’urgenza del narratore che conosce la ferita e la necessità dell’artigiano che scolpisce personaggi e paesaggi come se fossero materia viva. È in questo cortocircuito fra intimità e universalità che si riconosce la sua poetica: raccontare il mondo partendo dal proprio villaggio, trasformando ogni tratto di territorio in un frammento di Appalachia, di Midwest, di Sud degli Stati Uniti, senza però smarrire la verità umana che appartiene soltanto a quella terra. Il filo più robusto che tiene insieme la sua matrice crime è l’infanzia violata, topos di quasi tutte le storie e specchio delle ossessioni maturate da lettore. I bambini e gli adolescenti dei suoi romanzi, da Bruno de L’uomo senza sonno ai fratelli Casale di Luna Rosso Sangue, fino al giovane Michele de Il tempo dell’odio, non sono delle semplici vittime: sono esseri in formazione, ragazzi costretti a riti di passaggio brutali, spesso irrevocabili. Ma a renderli memorabili non è soltanto il trauma: è il modo in cui questo trauma diventa motore etico, sguardo attraverso cui scoprono il mondo. Lanzetta non usa l’infanzia come artificio letterario, ne fa un luogo sacro e oscuro, una frontiera che separa l’innocenza dal suo inevitabile naufragio. Pur mescolando il poliziesco, il gotico, l’horror, non esibisce generi: li attraversa superando ogni etichetta e marchiando a fuoco personaggi che restano nella memoria. Il vicequestore De Santis de L’Educatore indaga un presente macchiato di colpa che ritorna come un rifiuto impossibile da sotterrare; Pietro e Toni Casale si muovono in un Hard boiled che vira lentamente verso l’incubo; Lidia Basso e Massimo Trotta seguono le tracce di una ragazza uccisa in un giallo che sfuma nel delirio; Michele vive un horror neorealista che trasfigura il fascismo in una forza predatoria. Lanzetta muta registro con naturalezza perché il suo baricentro non è mai il genere in sé ma l’umano: il dolore, l’abbandono, la violenza sistemica, la superstizione, la colpa che si trasferisce come un’eredità genetica, la memoria come luogo di condanna ma anche di possibile redenzione. Le sue storie sono sempre doppie: investigative e iniziatiche, sociali e intime, territoriali e cosmiche. La scrittura, nutrita di letture nordamericane, rifiuta le gabbie della narrativa italiana più addomesticata per dialogare semmai con autori come Joe Lansdale, Chris Offutt, Stephen King, Kent Haruf. Di questi riferimenti Lanzetta non imita gli stilemi: li riporta a casa, li traduce in dialetti emotivi che appartengono alla Campania più ruvida, a comunità periferiche che vivono tra la smania di fuggire e l’impossibilità di farlo davvero. Là dove altri autori italiani declinano il noir verso il realismo civile, Lanzetta lo piega a una dimensione più inquieta, a una spiritualità laica fatta di boschi, silenzi, strade provinciali, ombre che non appartengono solo al passato ma all’immaginazione stessa di chi le abita. Il confine, nei suoi libri, è morale, psicologico, culturale. È il punto in cui le persone decidono chi essere, o chi non riescono più a diventare. Anche quando affronta temi storici, come nel caso de Il tempo dell’odio, Lanzetta non costruisce un romanzo storico tradizionale: usa la storia come detonatore. Il fascismo non è contesto ma incarnazione del male, un buco nero che risucchia individui e comunità, e che fa da specchio alla violenza strutturale presente in molte sue opere contemporanee. Non è un passato da ricostruire, ma un archetipo del dominio e dell’abuso. In questa scelta si rivela la sua cifra più politica, pur nell’apparente rifiuto della narrativa civile: raccontare l’orrore senza estetizzarlo ma restituendogli quella brutalità primordiale che lo rende universale. C’è poi un altro tratto importante: Lanzetta rifugge l’appartenenza a scuole, circoli, gruppi di autori. Non cerca assimilazioni né calchi; rivendica un’identità che cresce libro dopo libro e che si riconosce per coerenza più che per formula. Nella sua idea di letteratura non conta la trama in sé ma chi la vive: i personaggi, tridimensionali e vulnerabili, restano impressi più delle storie che li coinvolgono. Per questo i suoi libri non aspirano a essere best seller, ma long seller: opere che resistono perché radicate in una aspettativa autentica e non in mode passeggere.

Lanzetta è oggi uno degli autori italiani più singolari: porta l’Italia nel mondo e il mondo in Italia, trasforma la provincia in una mappa mitica e disturbante, usa il male come specchio dell’umano ma senza compiacersene. In un panorama spesso omologato, la sua voce: riconoscibile, impastata di sangue e terra, ci ricorda che ogni storia straordinaria nasce da un luogo preciso e da un dolore preciso, e che solo attraversando entrambi possiamo davvero capire chi siamo.

Angelo Cennamo

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LA MISURA DEL NON DETTO: RILEGGERE CATTEDRALE

Raymond Carver diceva di non amare le descrizioni fisiche, e non per insofferenza verso la tradizione realista: semplicemente intuiva che un volto racconta meno di un movimento interrotto, di una frase trattenuta, di un oggetto posato con una cura sbagliata. Nei suoi racconti, le traiettorie emotive non scorrono in superficie ma si insinuano nelle discontinuità, negli scarti minimi, in quelle zone mute dove sembra non accadere nulla e in realtà tutto si definisce. La prosa, spesso etichettata come “minimalista”, è il risultato di un’intelligenza selettiva più che di un disciplinamento formale: Carver non sottrae per ascesi ma per ottenere un chiarore paradossalmente denso. Nella raccolta Cattedrale, pubblicata nel 1983, questo metodo trova la forma più compiuta: il dettaglio non descrive ma filtra ciò che i personaggi non sanno o non vogliono nominare. Il non-detto diventa una così una seconda lingua, la metrica segreta del libro. I momenti cruciali, quasi sempre collocati fuori campo, confermano che la forza di Carver non risiede tanto negli eventi quanto nelle loro propagazioni emotive. In Attenti percepiamo l’erosione di una crisi di cui non sappiamo nulla: la telefonata interrotta, la tensione disseminata negli spazi domestici, la voce che trema su frasi di circostanza. Il racconto, che ruota intorno alla scena simbolo della donna che stappa l’orecchio all’ex partner, suggerisce che il conflitto è ormai sedimentato nella routine, come una crepa che non si ripara più perché ci si è abituati a conviverci. Carver non mostra la rottura, ma ciò che ne rimane nell’aria, come una polvere fine. È il modo in cui gli oggetti vengono maneggiati: troppo piano, troppo in fretta, a costruire il campo emotivo che sovrasta la trama. In Febbre, la separazione è una corrente che attraversa la pagina senza mai mostrarsi direttamente. Il protagonista vive in un’afasia emotiva che riflette la sua incapacità di rielaborare la perdita. L’aiuto della baby-sitter, la gestione pratica della quotidianità, l’attenzione ai figli: sono tutti gesti che circolano intorno a un vuoto che non viene spiegato. Carver non racconta la storia della fine di un matrimonio: racconta lo spazio che rimane dopo, lo smarrimento quasi fisiologico della vita che tenta di riassestarsi. C’è in queste storie una parentela naturale con Edward Hopper. Hopper immobilizza il tempo, Carver lo lascia circolare sotto una quiete che amplifica il sottotraccia. Per entrambi la verità non occupa mai il centro dell’immagine: si colloca ai margini, nella postura dei corpi, negli interni spogli, negli sguardi dispersi in un punto imprecisato della stanza. Con Penne, che apre la raccolta, questo equilibrio si definisce subito: figure appena deformate: il pavone che avanza come un dio distratto, i denti smisurati di Olla, abitano un realismo sempre verosimile, mai fantastico, toccato da un’ironia compressa. Il pavone diventa il segno di un’alterità impacciata che irrompe nel quotidiano e lo sposta di un grado: le dinamiche familiari, le invidie e le piccole rivalità emergono proprio in quell’inclinazione lieve, come se un dettaglio incongruo potesse svelare l’intera struttura affettiva. Ne La casa di Chef, l’ex coppia che tenta un fragile riavvicinamento vive in una condizione che assomiglia più a una tregua che a un ritorno. Lo spazio domestico preso in prestito sembra funzionare come un laboratorio di possibilità: la casa non è loro, e proprio per questo permette un temporaneo alleggerimento delle responsabilità, un luogo neutro in cui sperimentare una nuova ma improbabile grammatica dei sentimenti. Tutto è sospeso, come se la tenerezza potesse manifestarsi solo in gesti prudenti, in notti che chiedono poco e promettono ancora meno. Carver non indaga colpe; osserva, con una calma che sfiora la compassione, due persone che per qualche giorno cercano un modo provvisorio di credere ancora l’una nell’altra, pur sapendo che la vita reale è già pronta a smontare quella tregua fragile. In Conservazione, questa sospensione si riduce fino all’immobilità: l’uomo disteso sul divano è un organismo in stallo, disallineato rispetto al proprio mondo, come se il guasto familiare gli restituisse un ritratto fedele del suo tormento interiore. La moglie tenta di scuoterlo attraverso il ritmo della casa, del lavoro, della cucina; ma ogni tentativo rimbalza contro un torpore che non è inerzia ma rinuncia. Il frigorifero rotto, ostinatamente ignorato, diventa l’immagine di un congelamento emotivo che non può più essere mascherato. Quando si arriva al racconto che dà titolo alla raccolta, le premesse si ricompongono in una luce diversa. Il marito, irrigidito e diffidente di fronte al cieco Robert, lo vediamo in una sequenza di momenti imbarazzanti, tra stereotipi, piccoli rancori e tentativi maldestri di controllo della situazione. Ma quel disegno condiviso: un foglio, una matita, una mano che guida un’altra, apre un nuovo passaggio. La trasformazione non ha un sostrato morale né psicologico: è una diversa postura nei confronti del mondo, un cedimento. Carver lascia affiorare questo approdo senza cornici di solennità: persino il miracolo, se così si può chiamare, appare come un atto casuale. Questo approdo “essenzialista” non lo si può separare dalla storia editoriale dell’autore. I tagli di Gordon Lish: drastici, talvolta chirurgici oltre misura, avevano modellato una versione sottovuoto di Carver: più cupa, più tagliente, più minimalista di quanto lui desiderasse. Le versioni integrali apparse anni dopo, di Principianti soprattutto, mostrano invece che la sua voce originaria era meno severa, più permeabile alla tenerezza e alla fallibilità.  Cattedrale segna il momento in cui Carver recupera il controllo della propria tonalità: si concede un respiro più ampio, una temporalità distesa, un’emotività meno sorvegliata. Un cambiamento che dialoga con il clima narrativo americano dei primi anni Ottanta, quando la stagione postmoderna inizia a mostrare stanchezza e una generazione di scrittori, da David Leavitt a Jay McInerney, da Richard Ford a Jonathan Franzen, torna a esplorare il quotidiano con una nuova attenzione per il fragile, il domestico, l’inappariscente. 

Angelo Cennamo






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