Topeka School di Ben Lerner è uno dei tentativi più riusciti nella narrativa americana contemporanea di sondare il mondo della comunicazione, di rivelarne rischi e potenzialità, possibili distorsioni. Lerner comprende che la metamorfosi del romanzo coincide con la metamorfosi del linguaggio stesso: non costruisce solo personaggi o trame complesse, ma fa della lingua il vero oggetto di un’indagine, un campo di forze nel quale emergono tutte le fratture del presente. Il romanzo è un laboratorio critico attraverso cui Lerner mostra come il mondo, prima ancora di essere vissuto, venga articolato, deformato, dai discorsi che lo nominano. La Topeka degli anni Novanta, luogo di formazione di Adam Gordon, ci appare come un microcosmo pre-digitale in cui si agitano le stesse tensioni discorsive che definiranno il nuovo millennio: retoriche tossiche, rituali competitivi della parola, forme di comunicazione agonistica che trasformano il linguaggio in un dispositivo di potere. La tecnica dello spread usata nel debate agonistico, quel flusso ininterrotto di parole pronunciate a velocità innaturale, pensato per sommergere l’avversario più che per persuaderlo, diventa la metafora decisiva del testo. È l’immagine di un mondo in cui parlare significa occupare militarmente lo spazio, impedire, ostacolare la complessità invece di lasciarla emergere. Lerner spiega che la degenerazione del discorso, prima ancora che sociale o politica, è una degenerazione del ritmo: troppe parole, troppo veloci, troppo aggressive perché possano ancora produrre ascolto. In questo senso, Topeka School riflette il caos agonistico dei talk politici, delle arene televisive dove il linguaggio non serve più a chiarire ma a polarizzare lo scontro. I format che dominano il dibattito pubblico (la rissa verbale, l’interruzione continua, l’oratoria dell’indignazione) portano alle estreme conseguenze quella stessa logica dello spread: chi parla non cerca di farsi capire, ma di prendere tempo, occupare lo schermo, sopraffare l’altro attraverso un eccesso di voce. È qui che il romanzo anticipa la retorica politica contemporanea: dai comizi di Donald Trump, costruiti su un flusso discorsivo apparentemente spontaneo ma in realtà calibrato per generare shock, risate, nemici immediati, fino alle strategie comunicative adottate da certi predicatori mediatici o da attivisti alla Charlie Kirk, figure che lavorano o che hanno lavorato sulla performatività della parola per veicolare idee e contenuti spesso controcorrente. In questi contesti il linguaggio più che strumento di ragionamento, è un atto di mobilitazione emotiva. La frase breve, il ritmo martellante, la costruzione di un “noi” assediato da un “loro” sono tecniche che trasformano la comunicazione in appartenenza tribale. Non importa tanto ciò che viene detto ma l’effetto che produce; non la validità o non solo la validità, ma la vibrazione emotiva; non la verità o non solo la verità, ma l’energia del gesto verbale. Questo genere di retorica non nasce dal nulla. Le sue radici si trovano nelle forme educative, nei modelli di mascolinità agonistica, nelle dinamiche familiari, nelle tecniche competitive del parlare che trasformano la lingua in un ring. La cultura dello shock verbale e dell’invettiva non è una prerogativa dei social, questi semmai l’amplificano, la rendono virale, ma il ceppo patogeno è più antico e profondo. L’America degli anni Novanta, con i suoi talk, i suoi dibattiti scolastici trasformati in competizioni, si presenta nel romanzo come il sottosuolo in cui si prepara la futura esplosione della comunicazione iper-politicizzata del XXI secolo. Lerner articola la sua diagnosi attraverso una polifonia controllata. Le voci dei personaggi non si limitano a succedersi: migrano l’una nell’altra, si risuonano, si distorcono. Jane, psicologa che pensa la parola come cura, sperimenta invece la violenza simbolica della parola politica che cerca di delegittimarla tramite l’insulto. Jonathan studia il disagio delle nuove generazioni e come l’incomunicabilità acceleri certi processi disgregativi. Adam, divenuto adulto, tenta di insegnare alle figlie un linguaggio morale, ma si accorge che nessuna parola è completamente controllabile: ogni enunciato produce un’eco imprevista, si propaga nel mondo con effetti che sfuggono a chi l’ha pronunciato. E poi c’è Darren, personaggio emblematico e doloroso: qualcuno che non possiede le chiavi del linguaggio dominante, che vive la parola come un ostacolo più che come un mezzo di partecipazione. Escluso dal discorso, verrà escluso dalla comunità; la sua solitudine linguistica anticipa la sua solitudine esistenziale. Lerner suggerisce così che la crisi del linguaggio è sempre anche una crisi politica: chi non sa parlare (o non può farsi ascoltare) diventa invisibile, marginale, potenzialmente pericoloso. La collera nasce dove la parola fallisce.
Da questo punto di vista, Lerner si inserisce in una costellazione di scrittori che hanno fatto del linguaggio la vera materia del romanzo. Rachel Cusk esplora un io che esiste solo nella parola degli altri; David Foster Wallace analizza un’America dove la dipendenza dall’intrattenimento facile ha saturato tutto, fino a impedire l’empatia; Sheila Heti lavora sulla frantumazione del pensiero parlato; Joshua Cohen, con Il libro dei numeri, mette in scena la grammatica dell’era digitale; Valeria Luiselli usa la lingua come archivio del trauma. Tutti questi autori riconoscono che il linguaggio non è neutrale ma un campo di battaglia dentro il quale si formano le possibilità stesse del reale. Lerner si distingue per la capacità di tenere insieme riflessione linguistica e critica culturale, vicende private e storia nazionale. La letteratura non deve restaurare una purezza perduta ma aprire un varco nel rumore: rallentare il flusso, restituire densità alla parola, pensare contro la saturazione. Topeka School diagnostica la crisi del discorso contemporaneo ma, nello stesso gesto, propone un’alternativa: la lentezza, l’ascolto, la cura dei nessi, il recupero di un ritmo che permetta alla complessità di imporsi. In un mondo in cui la parola rischia di ridursi a merce, slogan o arma politica, Lerner ricorda che la letteratura può ancora rappresentare un laboratorio di coscienza, una resistenza contro l’erosione del senso, un metodo per abitare il linguaggio quando tutto sembra congiurare contro la possibilità stessa di comprendersi.
Angelo Cennamo