Harry Angstrom è un uomo di mezza età, e lo si vede ora andare in giro per le strade di Brewer, Pennsylvania, a bordo di una Toyota Corona color zuppa di pomodoro riscaldata: un colore imbarazzante, eppure perfettamente coerente con il suo presente. Harry è sicuro di sé. È finalmente dentro le cose, non più ai margini. Ha ereditato la concessionaria del suocero – “il re degli imbroglioni”, stecchito da un infarto – e gli affari vanno a gonfie vele. I soldi girano, il denaro passa di mano, luccica, si accumula. Harry può dirsi, senza ironia, un americano realizzato. È l’uomo in vetrina. Il direttore. Il padrone di un piccolo regno fatto di lamiera, cromature, rate e firme su contratti. Gli piace sguazzare nei soldi delle auto vendute, toccarli quasi con mano, sentirne il peso simbolico più ancora che quello reale. E gli piace, forse ancor di più, il rispetto degli abitanti di Brewer: i cenni di saluto, gli sguardi di riconoscimento, quella deferenza appena accennata che gli viene riservata da chi, ai tempi del liceo, lo considerava poco più che spazzatura. Harry ricorda tutto, ma non serba rancore. O meglio, il rancore si è trasformato in una soddisfazione quieta, in una rivincita che non ha bisogno di essere dichiarata. Con lui, quasi al timone di questa barca che ora sembra procedere a vele spiegate, c’è il vecchio e malaticcio Charlie Stavros, presenza secondaria e insieme perturbante: dieci anni prima aveva avuto una relazione con Janice, la moglie di Harry. Ma Harry non porta rancore neppure a lui. Harry è un uomo di ampie vedute in fatto di sesso, e quello che accadrà nelle ultime pagine di questo terzo capitolo della saga lo confermerà ancora una volta: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E Harry, sotto la giacca del dirigente e il sorriso del cittadino rispettabile, resta sempre Coniglio.
Siamo nel 1979. È passata molta acqua sotto i ponti, ma Coniglio non sembra cambiato più di tanto, neppure fisicamente. Il corpo tiene. Le articolazioni rispondono. Dopo il lavoro può sgranchirsi le gambe stando all’aria aperta, giocare a golf, sfogliare la sua rivista preferita, e soprattutto può ricominciare a considerare Janice come una donna desiderabile: una donna con cui fare sesso, e non soltanto mentre lei dorme, come accadeva nei momenti più opachi e colpevoli del loro matrimonio. Il desiderio torna, in forme magari meno furiose ma più insistenti, più adulte. Cosa o chi potrebbe turbare questo clima di benessere a tutto tondo? A parte la presenza sempre minacciosa della matriarca Bessie, la suocera, che come un puparo muove i fili della famiglia Angstrom e non rinuncia mai del tutto al controllo, l’uragano che si profila all’orizzonte ha le sembianze di un picchiatello a un passo dalla laurea. È la giovane testa di cazzo della famiglia, degno discepolo di Coniglio, il suo doppio deformato e anticipato. Dal Midwest arriva quel “piccolo punk tristanzuolo” di Nelson, il figlio di Harry e Janice, con un obiettivo preciso e irritante nella sua semplicità: lavorare con papà, entrare in concessionaria, e chissenefrega degli ultimi tre esami da dare all’università. La pace è finita. Harry è nel panico, un panico che non si manifesta in urla ma in frasi secche, difensive, quasi imploranti. “Tu mi prometti solo di girare al largo dalla mia concessionaria e di riportare il culo nell’Ohio”, dice a quel nanerottolo di poco più di un metro e settanta – e il pensiero, inevitabile e meschino, gli attraversa la mente: ma sarà davvero figlio suo?
Sei ricco, Coniglio, romanzo del 1981 e premio Pulitzer meritatissimo, è insieme a Riposa, Coniglio (l’ultimo capitolo della serie), Il centauro e Coppie una delle vette più alte della prolifica carriera letteraria di John Updike. Una carriera che oggi, inspiegabilmente, sembra essere scivolata nello scaffale dei dimenticati, subendo una sorte simile a quella di Philip Roth: entrambi passati nel tritacarne di filologi bigotti e catechisti invasati del romanzo, più preoccupati di epurare che di capire. “Updike sa tutto delle Toyota, mentre io che vivo in campagna non conosco neppure i nomi degli alberi”. La celebre riflessione di Roth sulla capacità dell’amico-rivale di documentarsi su tutto prima di scrivere contiene un dato rivelatore. Mette in luce una prerogativa di Updike che salta immediatamente agli occhi del lettore e che fa davvero la differenza in qualsiasi confronto, possibile o impossibile, tra questi due scrittori. Roth si è concentrato sugli aspetti immateriali dell’esperienza umana: la vita e la morte, l’amore in tutte le sue forme, l’odio, la famiglia, la religione, la malattia, la verità e la finzione, la scrittura soprattutto. Updike, invece, ha esplorato la materia. È entrato nei dettagli concreti della quotidianità: oggetti, marchi, gesti, abitudini, ma della quotidianità dell’uomo qualunque, più che degli intellettuali o degli uomini d’affari che popolano l’universo borghese dello scrittore di Newark. Il realismo pragmatico, il precisionismo quasi maniacale di Updike colmano un vuoto che Roth non ha mai ritenuto necessario riempire. Eppure, è sul sesso che John e Philip sembrano sovrapporsi con minime differenze, come se entrambi avessero individuato lì il punto in cui la rispettabilità americana mostra le sue crepe più profonde. Sei ricco, Coniglio precede Il teatro di Sabbath di quattordici anni, ma la cronologia suggerisce una possibile influenza, o quantomeno una consonanza, nella descrizione dei momenti di intimità. Coniglio Angstrom che trova in un cassetto gli scatti porno della moglie del vecchio Webb è a un passo dall’onanismo di Mickey Sabbath, il personaggio di Roth sorpreso dall’amico Norman nella vasca da bagno con in mano una foto di sua figlia. Scene speculari, disturbanti, che parlano di desiderio, colpa, potere e decadenza. Scene da un matrimonio – quello di Harry e Janice – passato attraverso adulteri, fughe, ripicche, e tuttavia più solido di quanto si creda. Un matrimonio che resiste non per virtù, ma per inerzia, per abitudine, per una specie di fede laica nel continuare. E la storia, naturalmente, continua.
Angelo Cennamo