Rileggere oggi Herbert Lieberman equivale a confrontarsi con una zona laterale ma decisiva della narrativa americana del secondo Novecento: uno spazio dentro il quale il romanzo di genere alza l’asticella, come si dice, per interrogare la morale pubblica, le strutture del potere, la natura stessa dell’identità. Lieberman (New Rochelle, 1933 – 2013), drammaturgo prima che romanziere, appartiene a quella famiglia di scrittori che hanno lavorato in sottrazione, lontano cioè dalle dinamiche promozionali e dall’idea dell’autore come brand, costruendo nel tempo un corpus compatto e coerente. La sua marginalità non è il risultato di un difetto di visione ma l’effetto di una radicalità silenziosa: mentre alcuni dei suoi epigoni, da Patricia Cornwell a Jeffery Deaver, hanno intercettato il grande pubblico standardizzando il thriller, Lieberman ne ha forzato dall’interno le convenzioni, pagando questa scelta con una ricezione intermittente e spesso distratta, negli Stati Uniti. Non è casuale che la sua consacrazione sia arrivata prima in Europa, e in particolare in Francia: Città di morti, pubblicato negli anni Settanta e accolto con freddezza in patria, vinse il Grand Prix de Littérature Policière, segnalando come lo sguardo europeo fosse più pronto a riconoscere il valore letterario di un’opera che usava il crime come forma, non come fine. Il recupero italiano operato da minimum fax – casa editrice che ha costruito una vera e propria contro-narrazione del canone statunitense, riportando alla luce figure come Richard Yates, Bernard Malamud e John Barth – non si limita a colmare una lacuna, ma permette di cogliere la struttura profonda dell’opera di Lieberman. I romanzi tradotti finora, pur diversi per ambientazione e architettura, dialogano infatti come variazioni di un unico discorso: la solitudine dell’individuo all’interno di sistemi istituzionali opachi, l’ambiguità della giustizia quando si confronta con la violenza, il corpo (ferito, morto, abusato) come ultimo luogo di verità, sottratto alle menzogne del linguaggio e dell’ideologia.
Città di morti rappresenta il nucleo di questo universo. Ambientato in una New York dei primi anni Settanta segnata dalla crisi fiscale, dal degrado urbano e dalla diffusione dell’eroina, il romanzo segue le giornate di Paul Konig, capo dei medici legali della città. Konig è un personaggio scomodo: brusco, autoritario, eticamente intransigente, incapace di qualsiasi mediazione emotiva. Ma è proprio questa rigidità a renderlo una figura tragica. Il suo lavoro consiste nel “leggere” i corpi, nel tradurre in linguaggio giuridico e scientifico ciò che i morti non possono più dire; l’obitorio diventa così uno spazio liminale, non tanto di orrore quanto di riconoscimento, l’unico luogo in cui Konig riesce a esercitare una forma di controllo sul caos del mondo. Lieberman descrive la pratica della medicina legale con un’accuratezza spoglia, mai esibizionistica: il dettaglio anatomico non serve a scioccare, ma a radicare il romanzo in una materialità ineludibile, opponendo la concretezza della carne alla retorica astratta delle istituzioni. Quando il rapimento della figlia di Konig irrompe nella trama, il romanzo compie uno scarto decisivo: il conflitto non è più soltanto tra ordine e disordine, ma tra ruolo pubblico e identità privata. Il sapere professionale, che fin lì aveva garantito una forma di distanza, si rivela impotente di fronte al dolore personale. In questo cortocircuito tra pubblico e privato si gioca la vera posta in palio del libro.
Il fiore della notte sposta il baricentro dalla medicina legale alla polizia, ma approfondisce ulteriormente l’indagine sull’identità maschile e sulla marginalità. Il detective Francis Mooney, corpulento, asociale, segnato da una carriera irregolare e da una persistente infelicità, è uno dei ritratti più complessi di Lieberman: un uomo che non riesce a integrarsi né nell’istituzione che rappresenta né nel tessuto sociale che dovrebbe proteggere. Accanto a lui si muove Charles Watford, figura disturbante e memorabile, bugiardo compulsivo, tossicodipendente, costantemente in fuga da se stesso. La scelta di far procedere i due personaggi su linee narrative parallele per gran parte del romanzo rivela la raffinatezza strutturale di Lieberman: la tensione nasce meno dall’azione che dall’attesa, dalla lenta preparazione di un incontro che ha il valore di un riconoscimento reciproco tra due solitudini. La serie di omicidi – blocchi di cemento lasciati cadere dai tetti su vittime casuali – assume una dimensione simbolica: la violenza appare priva di motivazione leggibile, verticale, impersonale, come una forza che cala dall’alto senza possibilità di negoziazione. Anche qui, la soluzione dell’enigma è secondaria rispetto all’esplorazione dei traumi e delle ossessioni dei personaggi; il thriller diventa una forma di romanzo psicologico, capace di interrogare le fratture dell’esperienza americana con un’ambizione che, per profondità, può richiamare certi esiti di Philip Roth, pur muovendosi in un registro completamente diverso.
Caccia alle ombre, che può essere letto come il terzo movimento di una trilogia newyorkese, riunisce Konig e Mooney ormai sessantenni, prossimi alla pensione, chiamati a confrontarsi con un serial killer stupratore soprannominato Ombra Danzante. Lieberman rinuncia consapevolmente all’opacità tipica del giallo classico, rivelando presto alcuni snodi cruciali, e sposta la tensione dal “chi” al “come” e al “perché”. L’indagine ufficiale si intreccia con le traiettorie di personaggi come Warren Mars e Ferris Koops, che funzionano come controfigure deformate dei protagonisti, amplificando i temi della colpa, della ripetizione e dell’irredimibilità. La scrittura, asciutta ma densissima, sostiene una costruzione di precisione quasi musicale, in cui ogni elemento (gesto, dialogo, dettaglio ambientale) contribuisce a un disegno complessivo. Parlare di “thriller letterari” rischia qui di essere fuorviante: Lieberman non eleva il genere, ma ne dimostra l’insufficienza come categoria, mostrando come la grande narrativa possa attraversare qualsiasi forma senza esaurirsi in essa.
L’ospite perfetto, il romanzo più antico tra quelli tradotti, rappresenta forse la deviazione più sorprendente. Ambientato in una provincia americana isolata e apparentemente pacificata, racconta la relazione tra i coniugi Graves e il giovane Richard Atlee, che si insinua nella loro vita fino a diventarne il fulcro perturbante. La struttura è quella di una parabola morale: pochi personaggi, uno spazio ristretto, un crescendo di ambiguità. Richard è insieme vittima e minaccia, oggetto di accoglienza e corpo estraneo, catalizzatore dei desideri inespressi di Alice e delle paure di una comunità pronta a ristabilire l’ordine espellendo ciò che non comprende. Qui Lieberman lavora per minimi slittamenti percettivi, mostrando come il giudizio morale sia sempre instabile, condizionato dal bisogno, dalla solitudine, dal timore della contaminazione. Il risultato è un romanzo di grande tensione etica, che interroga il lettore sul significato dell’ospitalità, della responsabilità e della giustizia senza offrire scorciatoie consolatorie.
Nel loro insieme, i libri di Herbert Lieberman restituiscono il ritratto di uno scrittore che ha usato il thriller come strumento analitico per osservare l’America nelle sue contraddizioni strutturali: la violenza incorporata nello spazio urbano, l’ipocrisia delle istituzioni, la fragilità dei legami familiari, il peso ineliminabile del passato. La sua formazione teatrale affiora nella costruzione dei dialoghi, essenziali e taglienti, e nella capacità di mettere i personaggi “in scena” come corpi esposti, vulnerabili, costretti a recitare ruoli che spesso li tradiscono. Che oggi Lieberman sia finalmente disponibile in italiano non è soltanto un atto di riparazione editoriale, ma un invito a riconsiderare i confini del canone e del genere. Va letto per intero, non per completismo, ma perché ogni romanzo aggiunge una tessera a un mosaico narrativo che, osservato nel suo insieme, rivela una delle voci più rigorose, coerenti e sottovalutate della letteratura americana.
Angelo Cennamo