IL CASO COME DESTINO: IDENTITÀ E MOLTEPLICITÀ IN 4321 DI PAUL AUSTER

Il caso, inteso come forza cieca e imprevedibile che orienta le traiettorie individuali, rappresenta da sempre uno dei nuclei tematici centrali dell’opera di Paul Auster. Fin dagli esordi, e in particolare dalla Trilogia di New York, Auster ha indagato l’instabilità dell’identità, la fragilità del destino e la natura arbitraria dell’esistenza, costruendo narrazioni in cui l’accadere fortuito diventa principio strutturante del racconto. In 4 3 2 1, pubblicato a sette anni di distanza da Sunset Park, Auster porta questa riflessione alle estreme conseguenze, cimentandosi con il progetto più ambizioso della sua lunga carriera: la scrittura di quello che, per ampiezza, respiro storico e ambizione totalizzante, può essere legittimamente definito un Grande Romanzo Americano.

Il volume – imponente già nella sua materialità, con le sue 939 pagine – è il frutto di oltre tre anni di lavoro ininterrotto, un periodo durante il quale Auster si è deliberatamente sottratto alla vita pubblica e agli impegni mondani. Il risultato è un’opera-mondo che intreccia biografia individuale e storia collettiva, sperimentazione formale e tradizione realista, riflessione metaletteraria e romanzo di formazione.

4 3 2 1 racconta le quattro vite possibili di Archie Ferguson, nato il 3 marzo 1947 a Newark, New Jersey, città che non è soltanto il luogo d’origine del protagonista ma anche dell’autore stesso e di un’altra figura cardine della letteratura americana del secondo Novecento, Philip Roth. L’identità ebraica, elemento ricorrente nella grande narrativa statunitense del secolo scorso, funge da sottofondo culturale e simbolico: Archie è discendente di immigrati russi, figlio di Stanley, modesto commerciante di elettrodomestici, e di Rose, fotografa dotata di sensibilità artistica. Da questo punto di partenza comune, il romanzo si biforca – anzi, si quadruplica – in una serie di possibilità narrative che mostrano come minime variazioni iniziali possano produrre esiti esistenziali radicalmente diversi. Il dispositivo delle sliding doors, già ampiamente esplorato da Auster in opere precedenti, trova qui la sua forma più compiuta e sistematica. Le condizioni economiche della famiglia Ferguson oscillano dalla povertà più dura a una solida agiatezza; i percorsi educativi e sentimentali di Archie divergono; persino la sopravvivenza non è garantita: uno dei quattro Ferguson muore prematuramente, spezzando bruscamente una delle linee narrative. Eppure, al di là delle differenze, esistono alcune costanti che attraversano tutte le versioni del personaggio, come se Auster volesse suggerire l’esistenza di un nucleo identitario irriducibile. Tra questi punti fermi spicca la figura di zia Mildred, intellettuale raffinata e docente universitaria, che introduce Archie alla letteratura e alla scrittura, svolgendo una funzione iniziatica decisiva. Altro elemento invariabile è Amy, il grande amore del protagonista, che nelle diverse incarnazioni del romanzo assume ruoli molteplici e talvolta perturbanti: amica, amante, fidanzata, perfino sorellastra. Attraverso Amy, Auster esplora le metamorfosi del desiderio, la complessità dei legami affettivi e l’intreccio tra eros e identità. La sessualità di Archie è trattata con notevole franchezza e senza intenti moralistici. Il protagonista appare spesso precoce, curioso, capace di attraversare confini anagrafici e di genere: in una delle sue vite sperimenta relazioni omosessuali e accetta l’attenzione di un uomo più anziano in cambio di denaro. Questi episodi, più che essere meri elementi provocatori, si inseriscono coerentemente nella più ampia riflessione austeriana sulla costruzione del sé e sull’influenza delle circostanze esterne sulle scelte individuali. Il romanzo è anche un vasto affresco storico. Le vicende private di Archie si intrecciano costantemente con gli eventi cruciali dell’America degli anni Sessanta: gli assassinii di John F. Kennedy e Martin Luther King, la guerra del Vietnam, le lotte per i diritti civili, le rivolte studentesche. Auster dimostra una notevole abilità nel fondere la dimensione intima con quella pubblica, mostrando come la Storia, con la maiuscola, irrompa nelle vite dei singoli, modellandone aspirazioni, paure e scelte morali. Particolarmente significativo è il rapporto di Archie con l’istruzione e la scrittura. Nelle diverse versioni, il protagonista frequenta la Columbia, Princeton o rinuncia del tutto al percorso universitario tradizionale. Quest’ultima opzione, quella dell’autodidatta che sogna di diventare scrittore a Parigi sotto l’egida dell’enigmatica Vivian, rappresenta forse il Ferguson più vicino alla sensibilità dell’autore e, per molti lettori, il più affascinante. Qui il romanzo assume una dimensione apertamente metaletteraria: la scrittura diventa non solo vocazione, ma strumento di sopravvivenza e di comprensione del reale. Nel finale, 4 3 2 1 compie un ulteriore scarto concettuale: una delle versioni di Archie – il “Numero Quattro” – diventa lo scrittore che inventa le altre tre, raccontando le loro vite accanto alla propria. Il romanzo si chiude così su un gesto autoriflessivo che rimette in discussione l’intero impianto narrativo e suggella l’identificazione, mai del tutto dichiarata ma costantemente suggerita, tra autore e personaggio.

Con 4 3 2 1, Paul Auster costruisce simbolicamente un laboratorio letterario in cui esplora le possibilità stesse del romanzo contemporaneo. È un’opera che dialoga con la grande tradizione americana – da Saul Bellow a Roth, da Malamud a DeLillo – e al tempo stesso la rielabora, offrendo una meditazione profonda sull’identità, sul caso e sul potere della finzione. Un libro monumentale, imperfetto forse nella sua stessa abbondanza, ma indiscutibilmente centrale nel panorama letterario del XXI secolo.

Angelo Cennamo

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