PORNO, ARAGOSTE E 11 SETTEMBRE: L’AMERICA RINCORSA DA WALLACE

Separare il David Foster Wallace saggista dal romanziere è un’operazione priva di senso. La sua cifra stilistica, spesso liquidata con l’etichetta di massimalismo argomentativo, è una forma di pensiero in atto, una logorrea controllata e ossessiva che mira a esaurire l’oggetto osservato, a inseguirlo dal dettaglio più macroscopico fino al suo bosone di Higgs. Wallace non descrive: interroga. E lo fa con una precisione maniacale che diventa una forma di etica dello sguardo.

Considera l’aragosta (datato 2005) è forse la raccolta che meglio restituisce questa vocazione. Un libro composito (saggi brevi, reportage, articoli, lezioni universitarie, recensioni) che conduce il lettore attraverso un’America laterale, grottesca, spesso disturbante, sempre rivelatrice. Wallace si muove tra gli Oscar del cinema porno, le dispute linguistiche tra prescrittivismo e descrittivismo, le autobiografie degli atleti, la teoria letteraria, la politica spettacolarizzata, senza mai rinunciare a una domanda di fondo: che cosa dice tutto questo di noi? Il celebre saggio che dà il titolo al libro – con la domanda provocatoria “È giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?” – è esemplare. Dietro l’apparente eccentricità del tema si cela una riflessione radicale sulla rimozione morale operata dalle società opulente: il dolore esiste, ma è reso invisibile; la responsabilità c’è, ma viene delegata. L’aragosta diventa così una figura-limite, un banco di prova per la nostra capacità di empatia in un mondo organizzato per anestetizzarla. Lo stesso bisturi ironico Wallace lo affonda nel reportage dagli Oscar del porno, dove l’eccesso di silicone, le scenografie sgargianti e le battute triviali compongono una commedia americana che sembra uscita da una versione ipertrofica di Woody Allen. È un’America pre-trumpiana ma già trumpiana nello spirito: volgare, performativa, ossessionata dall’esposizione. Wallace non giudica dall’alto; osserva da dentro, mostrando come anche l’industria pornografica finisca per riflettere i miti, le ansie e le ipocrisie della cultura dominante. Altrove, il discorso si fa più esplicitamente teorico, come nella dissertazione sul conflitto tra prescrittivisti e descrittivisti nella lingua americana, una disputa apparentemente accademica che Wallace rivela essere profondamente politica: tradizionalmente conservatori i primi, liberali i secondi. Anche qui, la lingua non è mai neutra: è un campo di battaglia simbolico, un modo di concepire l’autorità, la norma, il cambiamento. Di segno opposto, ma altrettanto intenso, è il saggio su Tracy Austin, baby campionessa del tennis mondiale ritiratasi a soli vent’anni. Wallace coglie con lucidità la sproporzione tra la grandezza atletica – “una bellezza trascendente che rende manifesto Dio nell’uomo” – e la povertà narrativa delle autobiografie sportive. L’atleta che infrange le leggi della fisica non è necessariamente in grado di raccontare ciò che ha fatto: la profondità in movimento non si traduce automaticamente in profondità riflessiva. È una constatazione crudele, ma illuminante, che vale ben oltre il tennis, argomento che Wallace ha esplorato in lungo e in largo meglio di chiunque altro. All’interno di Considera l’aragosta trova posto anche uno dei testi più intensi e duraturi di Wallace: La vista da casa della signora Thompson, scritto per Rolling Stone nell’ottobre 2001. È un racconto-saggio che documenta le ore immediatamente successive all’11 settembre da Bloomington, Illinois, una cittadina del Midwest circondata da distese di granturco che somigliano a un oceano. Wallace non era a New York, come la stragrande maggioranza di chi “ricorda” l’11 settembre. Era davanti a una televisione, seduto nel salotto di una signora anziana, condizione che rende il testo storico e letterario insieme. Wallace è forse il primo grande scrittore a raccontare l’orrore dell’11 settembre come evento mediato, visto attraverso lo schermo. Non nega l’imbarazzo morale di questa posizione – “sembra grottesco parlare del trauma provato davanti a un video quando la gente dentro quel video stava morendo” – ma ne fa il cuore della riflessione. L’11 settembre è stato il più grande attentato mai trasmesso in diretta televisiva, e l’esperienza collettiva è passata inevitabilmente da lì. Wallace coglie con straordinaria lucidità lo straniamento postmoderno: le immagini delle Torri che crollano somigliano a quelle di Die Hard o Air Force One. Non perché la realtà sia meno reale, ma perché lo schermo è lo stesso. La mente, educata da decenni di cinema e televisione, reagisce con il riflesso del “già visto”. Da questa ambiguità nasce un disagio profondo, un senso di colpa, ma anche una forma inedita di comunità: si prega insieme, pur non pregando; si espongono bandiere che sembrano materializzarsi dal nulla; si cerca conforto in una fede patriottica o divina che fino al giorno prima appariva estranea. Wallace osserva tutto questo senza cinismo, includendo sé stesso nel quadro. Sa di sentirsi più responsabile delle signore che lo circondano, perché “qualsiasi fosse l’America che gli uomini su quegli aerei odiavano tanto, era molto di più la mia America che non la loro”. È una confessione disarmante, che rovescia ogni facile retorica vittimistica. L’11 settembre, visto da Bloomington, diventa così una lente per interrogare il rapporto tra innocenza e responsabilità, tra distanza geografica e coinvolgimento morale. A distanza di oltre vent’anni, il testo non appare invecchiato. Anzi, acquista forza. Il senno di poi, come scrisse qualcuno, rischia sempre di trasformare le tragedie in posizioni eleganti, retrospettive, moralmente comode. Wallace, invece, ci restituisce l’esperienza immersiva del tempo, con le sue confusioni, i suoi pregiudizi, le sue reazioni sproporzionate. Ci ricorda che vivere nel proprio tempo significa esporsi, sbagliare, sentire troppo o troppo poco. È forse questa la lezione più duratura di Considera l’aragosta: l’idea che l’attenzione (radicale, ostinata, a volte scomoda) sia una forma di umanità. Che si tratti di un crostaceo bollito vivo, di una pornostar sotto i riflettori o di un attentato visto in televisione da un salotto del Midwest, Wallace ci chiede di non distogliere lo sguardo. Perché solo guardando fino in fondo possiamo sperare di capire, e forse, di essere un po’ meno ciechi.

Angelo Cennamo

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