RILEGGERE MOBY DICK

Quello che segue non aspira a essere una recensione, né un esercizio di critica in senso stretto: è piuttosto l’esito di una frequentazione prudente con un’opera che resiste a ogni tentativo di definizione e che sembra chiedere, prima ancora della parola, un atteggiamento di sospensione. Davanti a Moby-Dick si comprende quanto sia fragile il gesto interpretativo: l’opera eccede le cornici predisposte, disarticola le categorie canoniche e restituisce al lettore la sensazione di muoversi entro un territorio di cui si conoscono a mala pena i confini. Nonostante la mole esegetica prodotta intorno al romanzo, dagli apparati filologici alle letture simboliche, dalle ricostruzioni storiche alle interpretazioni filosofiche, ciò che più conta rimane l’esperienza elementare dell’aprirlo e di lasciarsi esporre alla sua vertigine, come se ogni volta fosse un primo incontro. Ma per cogliere la natura di questa vertigine, bisogna risalire alla voce da cui tutto è scaturito. Melville non fa derivare il romanzo da un progetto letterario astratto, ma da una biografia che ha conosciuto il mare come spazio reale, fisico, a tratti brutale: le baleniere, gli ammutinamenti, la disciplina feroce del lavoro oceanico. L’esperienza trasfigurata non produce, in lui, la mitologia eroica della navigazione, bensì un interrogativo metafisico che attraversa l’opera come un’onda di fondo: cosa significa confrontarsi con un mondo che resta irriducibile alle categorie umane? In questo senso, Moby-Dick non si limita a evocare il mare come ambiente letterario: lo istituisce come principio epistemologico, come luogo in cui ogni sapere umano diventa precario e ogni definizione vacilla. Quando Moby-Dick venne pubblicato, la letteratura americana era impegnata a cercare un linguaggio identitario: oscillava tra l’ottimismo trascendentalista e un moralismo ancora intriso di puritanesimo. Melville offrì un libro che sottraeva la natura alla sua idealizzazione e la restituiva come un enigma ontologico, impenetrabile alla volontà di dominio che la modernità iniziava a coltivare. In un contesto culturale che vedeva nella wilderness il teatro di un destino manifesto, Melville compie un gesto sovversivo: ne rileva la radicale indifferenza, la capacità di disarmare lo sguardo umano piuttosto che confermarlo. Il romanzo assume così una forma irregolare e non conciliabile con la linearità attesa dal pubblico dell’epoca: gli inserti tecnici, le digressioni sulla cetologia, le descrizioni meticolose delle manovre marinaresche non interrompono la narrazione, ma la costituiscono; sono il laboratorio attraverso cui Melville tenta di ordinare l’informe, consapevole che ogni sistema di conoscenza è destinato a incrinarsi davanti all’opacità del reale. Questi intermezzi, spesso percepiti come deviazioni, rivelano invece la tensione enciclopedica dell’opera: il desiderio di costruire un sapere totale sapendo già che resterà incompleto, come un atlante di cui mancano sempre le tavole fondamentali. Dentro questa struttura fluttuante si muovono tre figure che incarnano altrettanti modi di stare nel mondo: Ismaele, la voce testimoniale, aperta al dubbio, capace di accogliere il molteplice senza pretendere di sintetizzarlo; Achab, la volontà tragica, l’uomo che rifiuta la finitudine e si scaglia contro la Balena Bianca non come contro un animale, ma contro il limite stesso dell’umano; Starbuck, infine, la ragione che avverte l’abisso ma non dispone della forza necessaria a contrastarlo, simbolo di un’etica che cede non per debolezza, ma per inadeguatezza di fronte all’eccesso. In questo triangolo si definisce una vera e propria antropologia dell’esperienza: Ismaele come figura della modernità scettica, Achab come residuo titanico di un’epoca prometeica, Starbuck come incarnazione dell’ordine che cerca un equilibrio e lo vede dissolversi. Il Pequod diventa così la miniatura di un mondo, e insieme, della giovane America: articolato, multietnico, gerarchico e nondimeno esposto alla dismisura del mare, che funge da controcampo assoluto alla presunzione di controllo. La nave è un piccolo mondo disciplinato, regolato da leggi, ruoli e competenze, ed è proprio questa architettura umana a essere messa a rischio dal contatto con una forza che non può essere codificata. A bordo del Pequod si condensa, quasi in forma drammatica, la conflittualità che abita anche la società americana dell’Ottocento: la spinta espansionistica e produttiva da un lato, la presenza di un mondo irriducibile e refrattario dall’altro. Anche per questo, quando il romanzo approda in Italia, trova lettori e traduttori capaci di farne un ponte culturale più che un semplice testo da importare. Le versioni pionieristiche di Pavese e dei suoi contemporanei, pur segnate da inevitabili asprezze, hanno avuto il merito di rivelare un Melville vivo, dirompente, percepito come possibilità di rinnovamento stilistico e immaginativo. Le traduzioni più recenti, come quella di Alessandro Ceni, si distinguono per una maggiore adesione al ritmo e alle stratificazioni linguistiche dell’originale, ma continuano a portare con sé quell’implicita dichiarazione d’amore che accompagna, in Italia, la scoperta della grande narrativa americana. Ogni traduzione, in fondo, non restituisce solo un testo: mostra come una cultura legge e desidera l’altra, cosa è disposta a lasciarsi trasformare. A questo punto il tema non è più se un romanzo di due secoli fa parli ancora al presente, ma come riesca, in modo tanto ostinato, a non esaurirsi. Moby-Dick continua a vivere perché dà forma a una domanda che resta aperta: il rapporto fra il desiderio umano di comprendere e l’indifferenza del mondo che ci circonda. La caccia alla Balena Bianca sopravvive non come metafora da decifrare, ma come esperienza: la tensione verso ciò che sfugge, la fascinazione dell’ignoto, il bisogno di misurarsi con qualcosa che non può essere posseduto. Achab, nel suo delirio di totalità, non è tanto un personaggio quanto una postura conoscitiva estrema; Ismaele, nel suo raccontare, non è un semplice sopravvissuto ma la voce fragile che tenta di salvare ciò che può essere narrato. Imbarcarsi sul Pequod significa accettare che la conoscenza non coincide con la conquista e che la letteratura, nelle sue forme più alte, non dissolve il mistero ma lo rende abitabile. È questo il motivo, forse il più semplice e il più radicale, per cui si continua a leggere Melville: perché la sua opera non si offre come risposta, ma come resistenza alla semplificazione, e perché ogni volta che la si riapre si ha l’impressione di essere, ancora e sempre, all’inizio del viaggio. E forse è proprio questa sospensione (la consapevolezza che nulla può essere ridotto a una formula definitiva) il dono più duraturo che Moby-Dick consegna al lettore contemporaneo, invitandolo a sostare nell’enigma invece che risolverlo, a fare della domanda non un difetto ma una possibilità.

Angelo Cennamo








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