CORMAC McCARTHY. CON SANDRO BONVISSUTO.
Seduti in una trattoria dietro il Pantheon alla vigilia di Ferragosto, io e Sandro Bonvissuto sembriamo Enzo e Sergio, i protagonisti di Un sacco bello di Verdone in procinto di partire all’avventura per l’Est Europa con la spider decapottabile e le calze di nylon nel cruscotto. Sono le dieci di sera, la sala è mezza vuota. Alle nostre spalle una coppia di francesi sta litigando per una questione di eredità, ma del mio francese mi fido poco. Per strada ci saranno ancora trenta gradi, dentro però si sta freschi. Sul tavolo, spartano e con una tovaglia rosso pompeiano, tra la Falanghina e un piatto di bruschette, fa la sua figura una copia di Suttree di Cormac McCarthy. È il nostro argomento di conversazione. Da qualche anno Sandro è ostaggio della sua capigliatura rasta; Nun me li posso taglià, dice, me ce vorrebbe na fiamma ossidrica. Sulla mia polo bianca mi accorgo di avere una macchia di sugo a forma di sigaro. Fingo di non farci caso ma la macchia si vede benissimo anche con le luci soffuse. Suttree intanto è lì, al centro del tavolo, che ci fissa.
Su una cosa io e Sandro siamo d’accordo: il capolavoro di McCarthy non è Meridiano di sangue. “Se non hai mai letto Cormac McCarthy, della letteratura non hai capito niente”, disse una volta David Foster Wallace a un suo amico regista, suggerendogli di prendere spunto proprio da Suttree per il suo nuovo film. La storia di Cornelius Suttree, l’uomo che fugge dagli affetti più cari per rifugiarsi in una baracca su un fiume e sopravvivere pescando pesci gatto da rivendere al mercato, è un romanzo senza trama e senza un vero finale. Un lungo flusso di coscienza o diario che in alcuni passaggi lo fa somigliare all’Ulisse di Joyce, in altri alla Divina Commedia. L’habitat di Cornelius è un perimetro di ladri, neri, ubriaconi, puttane. Una fauna di derelitti e di balordi con vissuti di galera e di grande sofferenza che l’antieroe del romanzo incontra navigando con la sua barca e nei bar sgangherati di una landa oscura fatta di “anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche”. Se vuoi entrare in contatto con la parte più intima e più vera di te stesso, devi arrivare a toccare il fondo, devi perdere tutto. È questa la lezione di Suttree?
È il suo capolavoro senz’altro. Anzi, non il suo, è proprio un capolavoro nella storia della letteratura americana, e ha consentito che il nome di Cormac McCarthy venisse annoverato nell’Olimpo della scrittura a stelle e strisce, assieme a W. Faulkner e F. O’Connor. È un libro lento e fangoso come il fiume, divertentissimo e straziante insieme, che potrebbe andare avanti all’infinito, e che spiega l’America come nessun altro al mondo, presentando una carrellata di personaggi straordinari, lasciati ai margini dell’esistenza da un sistema socio economico che costruisce il successo di alcuni sul fallimento di molti altri, ai quali altri poi non resta che sopravvivere in mezzo a squallore violenza e privazioni. Credo che voglia dirci questo. La parte del neonato morto trasportato dall’acqua, o della famiglia che arriva con una baracca alla deriva sul fiume a cui qualcuno ha tagliato gli ormeggi, sono dei momenti di un’altezza tragica e di una grandezza umana vertiginose. Meritava il Nobel.
L’ultimo romanzo della Border Trilogy, Città della pianura, è uscito nel 1998, a ridosso di una manciata di capolavori la cui concentrazione temporale credo abbia pochi precedenti nella storia della letteratura americana: Fight Club di Palahniuk e Infinite Jest di Foster Wallace, nel 1996; Underworld di DeLillo, Mason & Dixon di Pynchon e Pastorale Americana di Roth, nel 1997. Proprio nel ’98 il libro di Roth si aggiudica il Pulitzer, McCarthy lo vincerà un decennio più tardi con La Strada, l’opera che anticipa l’apocalisse del suo ultimo tratto, quello più sorprendente. John Grady Cole e Billy Parham, i ragazzi che sognano il vecchio West e che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti, li ritroviamo in un ranch tra il Messico e il Texas ad allevare cavalli e ad ascoltare storie di vecchi cowboy. Siamo nei primi anni Cinquanta, in un tempo di confine, un tempo ormai al crepuscolo. Il confine è il luogo reale e ideale nel quale McCarthy proietta ogni sua storia, e sonda la mente e il cuore di un’umanità corazzata contro qualunque dolore.
La concentrazione di libri americani straordinari in quegli anni è effettivamente incredibile, ma la scrittura ci ha abituati a sorprese del genere: Puskin nasce nel 1799, Tolstoij muore nel 1910; in quei 111 anni c’è tutta la letteratura russa classica, un diluvio di capolavori che ti fanno girare la testa. A proposito del concetto di confine, direi che questo per McCarthy è il limite di uno spazio smisurato che hai davanti, la fermata prima dell’ignoto, un ambito letterario che a noi manca completamente. È il punto dal quale parte il concetto di frontiera, il suo limite basso, quello dove sono i suoi personaggi, è il margine. L’altro capolinea, quello dalla parte opposta, è sconosciuto. E nessuno è mai tornato da lì per poterci raccontare qualcosa. Il modo nel quale questo spazio sconfinato ha saputo agire nell’immaginario collettivo di chi scrive e di chi legge, è una cosa americana. Il limite prima dello spazio, e’ una categoria dello spirito che a noi manca, perchè siamo figli dei vicoli rinascimentali delle città d’arte, non delle praterie, del vento e delle catene montuose. Noi siamo schiacciati dentro noi stessi dalla storia, gli americani sono cavalli al galoppo nell’infinito senza destinazione. Loro sono sul limite che poi ha davanti uno spazio narrativo, noi su un limite ma lo spazio ce lo siamo lasciati alle spalle. Loro guardano all’eternità sporgendosi in avanti, noi indietro. Loro devono capire dove vanno, noi da dove veniamo. E così via. Spero di non essermi capito da solo.
“Luccicavano tutte leggermente nell’aria torrida, queste forma di vita, come minuscole apparizioni. Rozze sembianze elevate a dicerie, dopo che le cose stesse erano svanite nella mente degli uomini”. Il confine tra il bene e il male – “Ha la capacità di dare la vita e la morte” disse di McCarthy Saul Bellow – è la prima traccia anche di Meridiano di sangue, il romanzo che contende a Lonesome Dove di Larry McMurtry, pubblicato nello stesso anno (1985), il titolo di più bel Western di sempre. È una storia brutale leggendo la quale hai continuamente la sensazione di essere giunto al punto che accada finalmente qualcosa, ma di fatto non accade nulla oltre il lento scorrere del tempo, e del sangue, naturalmente. Sangue e lentezza sono i binari sui quali McCarthy spinge la sua tragedia omerica assecondando il mood dell’antica tradizione orale sui bivacchi di pionieri e fuorilegge. Harold Bloom definì Meridiano di sangue Il Grande Romanzo Americano alla pari di Moby Dick di Melville e di Mentre morivo di William Faulkner.
“Moby Dick” è il più grande romanzo americano ma non è del tutto americano, è anche intriso di idealismo tedesco, un libro che ha due livelli di lettura, uno terrestre e un altro speculativo. Verismo e trascendentalismo insieme. “Mentre Morivo” di Faulkner è un coro tetro, oscuro, di voci e figure appartenenti ad un paese per noi sconosciuto, arcano e agricolo, è la storia dell’America. Meridiano di Sangue invece ne è la leggenda. Ti confesso che, nonostante “Suttree”, è il mio preferito. Il giudice Holden di “Meridiano di Sangue” è una delle più grandi figure letterarie di tutti i tempi, semplicemente apocalittico. Per ciò che mi riguarda l’unico erede del comandante Achab.
Il passeggero e Stella Maris sono stati i romanzi più attesi degli ultimi sedici anni. In Italia Stella Maris è uscito a distanza di qualche mese rispetto a Il passeggero, negli Stati Uniti invece la pubblicazione dei volumi è avvenuta in contemporanea. Si può stabilire con esattezza quale dei due libri sia il sequel dell’altro? Joy Williams dice che la sequenza giusta è quella inversa rispetto alla scelta di Einaudi. Le reazioni dei critici e dei lettori sono state abbastanza diverse, direi opposte. Sandro, non mi hai ancora detto come la pensi, ma a chi non avesse mai letto nulla di McCarthy io non suggerirei mai di cominciare a farlo da questi ultimi testi, entrambi straordinari, siamo d’accordo, ma troppo ostici e distanti dalla vera identità di McCarthy. Ma secondo te, chi glielo ha fatto fare al grande Cormac di ritornare in pista a novant’anni suonati, dopo tutto quel ben di Dio che ci aveva regalato prima?
Il vero campione non vuole mai mollare (guarda Francesco Totti). A chi si accosta a McCarthy per la prima volta, consiglio di cominciare con “Il Buio Fuori” o con la “Trilogia della Frontiera”. Per quello che concerne “Il Passeggero” e “Stella Maris” credo che tutta la critica mondiale sia fuori strada: mi dispiace che debba essere io a dovervi dire che se i libri in America sono usciti insieme è perchè vanno letti insieme. Io almeno ho fatto così. Te li metti sulla scrivania tutti e due e leggi stereo. Alle prime incertezze de “Il Passeggero” vai a rifugiarti nelle pagine di “Stella Maris”, che alla fine sta nell’altro libro come un romanzo nel romanzo, un po’ come l’episodio della “Monaca di Monza” nei “Promessi Sposi”. Perchè il grande Cormac non abbia pensato a fare un unico libro non lo so, ma a 90 anni si può concedere un lieve rincoglionimento anche al più grande di tutti.
In Italia uno scrittore come McCarthy non lo abbiamo mai avuto. Vale per lui ma anche per altri autori diversississimi da lui, da Stephen King a Thomas Pynchon, da James Ellroy a Don DeLillo. Come te lo spieghi?
Nel 300 abbiamo avuto dante Petrarca e Boccaccio quando nel resto del mondo ancora andavano in giro con le corna di montone in testa, fino al 1600 non c’è stata altra letteratura in Europa oltre quella italiana. Poi le cose cambiano, la ruota gira. Ora tocca agli americani, sono ancora la società dominante, e noi, alienati da trent’anni di berlusconismo e di telefilm di merda, abbiamo perso qualunque contatto con la nostra dimensione antropologica, diventando una specie di colonia di un’altra cultura, siamo sprofondati in un nuovo Medioevo senza fine, e a fare libri e classifica sono Moccia, Fabio Volo, la Mazzantini ecc ecc. Tutti alberi abbattuti per niente. Purtroppo il responsabile dei libri brutti è il cattivo lettore, l’editore, si sa, risponde dicendo che lui vende ciò che la gente vuole. Anche se questo non lo giustifica affatto, anzi, lo rende complice. Per il resto ti ringrazio di cuore; poter parlare di grande letteratura è un modo per resistere, per combattere. Siamo come i Càtari ormai.
JOHN FANTE. CON LUCA RICCI
L’8 maggio del 1983, quarantadue anni fa circa, ci lasciava John Fante. Era nato a Denver, nel Colorado, l’8 aprile del 1909, da uno scalpellino abruzzese e da una casalinga dell’Illinois, anche lei di chiare origini italiane (i suoi genitori si erano trasferiti a Chicago partendo da un paesino della Basilicata). Chi volesse conoscere la vita di Fante può leggere i suoi libri, hanno tutti una forte impronta autobiografica, oppure il ricco epistolario raccolto nel volume Lettere 1932 – 1981, edito da Einaudi, sulla cui cover però campeggia per errore la foto di un altro scrittore: l’inglese Stephen Spender. Sono a Cinecittà, in compagnia di Luca Ricci, fuori a un teatro di posa dove si registra un noto show televisivo che va in onda non so quando, con… vabbè. Parliamo di Manganelli per quanto l’argomento della nostra conversazione dovrebbe essere un altro. Ma perché ci siamo visti qui, Luca? E che ne so, me lo hai detto tu di venire. Sì, ma avevo detto zona Cinecittà, non dentro Cinecittà. Beh, per il tema della conversazione a me questo posto sembra perfetto. Luca ha tra le mani una vecchia copia de La confraternita dell’uva, uno dei pochi romanzi che John Fante si è goduto da vivo. Francis Ford Coppola avrebbe voluto trarne un film poi il progetto saltò. È il mio libro preferito di Fante, dico, una delle più belle storie mai scritte sul rapporto padre figlio. Non trovi?
In Fante è interessante il rapporto tra biografia e finzione. Nonostante tutta la sua opera parli della sua famiglia, nessuno ha mai messo in dubbio che si tratti di letteratura. Nessuno ha mai minimamente pensato a una sorta di autofiction ante litteram. Motivo? Fante ricorre all’espediente degli alter ego, non solo per sé stesso ma per la pressoché totalità dei componenti della sua famiglia. Un conto è romanzare sé stessi, tutt’altra cosa è disporre un universo romanzesco speculare a quello reale. Alter ego: persona che ne rappresenta un’altra. Già nella definizione della parola c’entra l’arte. Così ne La confraternita dell’uva abbiamo la figura di questo muratore in pensione che si chiama Nick Molise che è il padre di Fante pur non essendolo. Qui si annida la benedetta adulterazione della letteratura nei confronti della vita. Lo scarto che salva Fante dall’essere soltanto il mesto cantore degli immigrati italiani in America negli anni trenta, dell’epopea dei dago red (i bevitori di vino scadente, gli anti wasp).
Effettivamente Cinecittà è la location più adatta per parlare di Fante: il nostro amico si era guadagnato da vivere scrivendo per il cinema. Senza gli ingaggi delle case di produzione Fante non avrebbe avuto la giusta serenità (comodità) per dedicarsi alla narrativa. Quando partì per Los Angeles con pochi spiccioli in tasca e una valigia di cartone legata con lo spago, negli studios era in atto la rivoluzione del sonoro: le major reclutavano scrittori, soggettisti, sceneggiatori… la paga era buona e consentiva ai nuovi arrivati di coltivare senza affanni anche altri interessi. A Scott Fitzgerald toccò la stessa sorte ma lui seguì il procedimento inverso: cercò di risollevarsi dai debiti e dalla crisi di ispirazione riciclandosi come sceneggiatore. Gli andò malissimo. Una volta Joyce, la moglie di Fante, disse che suo marito era sprecato per il cinema, avrebbe dovuto fare solo il romanziere. Ti hanno mai chiesto di scrivere per il cinema o per la tv?
Ne I primaverili, il quarto romanzo del ciclo sulle stagioni, metto in scena una madre in fissa sul riadattamento delle opere del figlio scrittore (e io narrante del libro). Credo che a tutt’oggi sia stato il mio modo per esorcizzare la questione. Il mondo del cinema è impenetrabile, gli sceneggiatori sono una casta chiusa tipo i notai. Ho ricevuto una opzione per Gli autunnali e ho avuto qualche interessamento da parte della filiera dell’audiovisivo ma tutto è immerso in questa atmosfera alla Barton Fink, il lungometraggio capolavoro molto fantiano dei fratelli Coen.
Il nome di Fante spesso viene accostato a quello Bukowski. Pare che il giovane Bukowski un giorno avesse trovato in una biblioteca pubblica – le uniche che poteva frequentare non avendo allora il becco di un quattrino – Ask The Dust (Chiedi alla polvere), e che si fosse riconosciuto nel giovane spiantato Arturo Bandini. Da scrittore affermato, alla fine degli anni ’70, Bukowski riuscì a conoscere e diventare amico di Fante al punto da spingere il proprio editore a ripubblicare alcune sue opere ormai dimenticate. Fante era prossimo alla morte, cieco e senza gambe per via di una grave forma di diabete. L’intercessione, chiamiamola così, di Bukowski fu essenziale per la riscoperta dell’anziano collega ma non decisiva, visto che negli Usa, subito dopo la sua morte, Fante nessuno se lo ricordava più. La simbiosi tra lui e Bukowski è una storia dentro le storie. C’è tanto da scavare, da imparare anche da quella comune visione della vita.
La storia della letteratura è costellata di queste corrispondenze miracolose, forse medianiche. È una storia anche di reincarnazioni. Ho sempre pensato che Henry Chinaski sia Arturo Bandini invecchiato, cioè che gli alter ego più famosi di Bukowski e Fante sono lo stesso personaggio. Sono entrambi scrittori in attesa della consacrazione, umanamente vitali e pieni di difetti e impegnati in lavoretti umilianti, emarginati dalla società. Ci sono dei singoli passaggi che Bukowski sembra letteralmente avere ricopiato da Fante – nelle lettere che le riviste inviano a Bandini – in quel che si potrebbe definire tranquillamente un furto onesto.
Prima parlavamo del padre di Fante, Nick. È una figura ricorrente in molte storie di Fante. Direi uno dei personaggi migliori. A volte viene indicato come Nick Molise, in altre è Svevo Bandini. In Aspetta primavera, Bandini, Nick è il protagonista assoluto del romanzo: tutto ruota intorno al suo presunto adulterio, alle lusinghe inaspettate della vedova danarosa che lo circuisce, al rispetto per la famiglia, al duro lavoro, ai sacrifici di una vita. È una storia profondamente italiana. Una volta scrissi che Aspetta primavera, Bandini è uno dei più bei romanzi italiani del ‘900.
Non dobbiamo dimenticarci che, per quanto lo ritenesse un lavoro negletto, Fante era o provò a essere uno sceneggiatore di Hollywood, oltre che un italo americano. Il suo registro è perennemente in bilico tra pianto e riso, una prerogativa da cui mosse la commedia all’italiana. Bisogna ricordare il libro di racconti che si mise alle spalle un certo neo realismo molto plumbeo e inaugurò questo doppio registro poi saccheggiato dal cinema: I racconti romani di Alberto Moravia del 1957.
Il tema principale della narrativa di Fante è l’ambizione di scrivere. Il giovanissimo Arturo Bandini parte per Los Angeles sognando di diventare uno scrittore di successo. Nella tua quadrilogia sulle stagioni lo scrittore senza nome è perennemente in crisi di ispirazione e deve fare i conti con un’editoria stagnante, moribonda, che si barcamena tra romance e gialli da ombrellone. Il sogno di Bandini si smarrisce nel tempo di Gittani e di Lello Annibali.
John Fante è un autore che ho letto e amato tantissimo a vent’anni. Se sei giovane e cerchi di essere uno scrittore non c’è lettura più avvincente, è una goduria a ogni pagina. In occasione di questa nostra conversazione mi ero ripromesso di rileggere la saga di Bandini ma poi non l’ho fatto, volevo venire impreparato, o meglio con l’impressione che quei libri mi avevano lasciato. Non ricordo più che fine faccia Arturo Bandini alla fine. Per me sarà sempre quello che lotta contra tutti per riuscire ad avverare il suo sogno di scrittura. E credo che in questo singolo tratto sia racchiusa tutta la potenza, tutta la memorabilità di John Fante. Uno scrittore deve fare benissimo soltanto una cosa sola. Certo poi le cose sono più complicate di così. Già Bukowski-Chinaski ha una visione più indolente e pessimistica. Nella mia quadrilogia delle stagioni non poteva andare meglio: è nata la rete, la letteratura non va più letta, va fotografata.
Negli anni in cui Fante ha iniziato a scrivere in Europa si consumava la tragedia del nazifascismo con la deportazione e lo sterminio di migliaia di ebrei. Nei libri di Fante non c’è traccia di questi avvenimenti. Come Philip Roth, Fante si è concentrato su stesso, ha tradotto in inchiostro la propria esistenza, le vicende dei familiari, perfino del suo cane stupido.
Fante ha parlato di altro, ci sono molti appigli sociologici nei suoi libri, in filigrana, ma fortunatamente nessuna forma di sociologia. Gli scrittori si fermano sempre un attimo prima oppure un attimo dopo, ma non possono scrivere in maniera diretta sulla storia. Glielo impedisce la letteratura, che è sul pezzo proprio perché non è sul pezzo. Dicono storie universali, ma si potrebbe anche chiamarle storie inattuali. L’inattualità è un principio letterario, e non significa essere vecchi o non capire il proprio tempo, tutto il contrario.
Fante lo si può includere nella vasta categoria degli scrittori minimalisti e realisti che proprio in quegli anni cominciavano a venire fuori. Fante è quasi coevo di Hemingway, li divide un decennio.
L’Hemingway di “Festa mobile” non era forse un Arturo Bandini al contrario, un giovane americano espatriato a Parigi? Certo non proprio un wop, ma comunque fuori dalla sua nazione e dalla sua cerchia affettiva, vivendo di espedienti per realizzare il sogno della scrittura, in attesa di un parere favorevole da parte di Gertrude Stein. La potenza di Fante sta in questo: puoi trovare Arturo Bandini nelle aspirazioni di ogni giovane scrittore.
Tu nasci come autore di racconti. Ultimata la quadrilogia delle stagioni sei tornato quest’anno alla forma breve con Gotico rosa. Come giudichi il Fante scrittore di short stories?
Lo invidio perché all’epoca in cui Fante scriveva i primi racconti le riviste lo pagavano fino a 175 dollari. Nei suoi racconti torna sempre la sua famiglia con alter ego differenti. C’è il padre, artista del mattone e gran donnaiolo, la madre cattolica e castrante e le sorelle iper critiche nei confronti di chi ha velleità letterarie. La scrittura di Fante è sempre quella, scabra e scattante, ma i suoi racconti mi sono sempre sembrati bozzetti preparatori ai romanzi. Insomma dietro ci vedo sempre Bandini, tutto mi porta a Bandini. Un racconto invece dovrebbe bastare a se stesso.
L’ultima parola la lasciamo al cinico Gittani. Fosse vissuto settant’anni prima, di fronte a tutto questo sbattersi di Bandini per fare lo scrittore, gli avrebbe detto: ma lascia perdere, tanto ti leggeranno quando sarai già morto.
Temo gli avrebbe detto di peggio. “Bandini, per non fallire evita di iniziare”.
PHILIP ROTH. CON JOHN DOMINI
L’incontro con John Domini è al Vomero, nella zona collinare di Napoli, in un bar defilato, poco distante da via Luca Giordano. John è qui in Italia per promuovere il suo romanzo (Talking Heads 77) e per incontrare i parenti sparsi tra Napoli e il Cilento. Fa molto caldo. Ci accomodiamo a un tavolo vicino l’ingresso, rinfrescato, si fa per dire, dall’ombra di un albero di alto fusto. Sul tavolo ci sono i nostri caffè appena ordinati e una copia de Il teatro di Sabbath. Il nostro argomento di conversazione è Philip Roth. Racconto a John che una volta sul blog lanciai un sondaggio sul Grande Romanzo Americano. Selezionai una ventina di titoli: Moby Dick, Furore, RevolutionaryRoad, Le correzioni… Il romanzo più votato fu Pastorale Americana. Non ne fui sorpreso: in Italia Roth è uno degli scrittori americani più venduti; non c’è libreria che non sia fornita di almeno quattro cinque titoli di Roth, e tra questi quattro cinque c’è sempre Pastorale Americana. John, è un azzardo dire che Roth sia stato il più grande scrittore del suo tempo?
Nessun azzardo, certo! L’opera di Philip Roth è monumentale, e con uno sguardo onesto e profondo verso l’animo umano. Ne abbiamo una considerazione quasi sacra, è un riferimento ineludibile per chiunque. Detto questo, non sono convinto che di lui si possa dire il “più grande.” Alla fine del primo quarto del XXI secolo, il panorama della letteratura americana ha preso altri riferimenti, perlopiù afro-americani. I figli di Toni Morrison, si può dire, hanno lanciato un nuovo Rinascimento. Un romanzo come The Heaven & Earth Grocery Store di James McBride può essere considerato un capolavoro alla pari di certi romanzi di Roth, come per esempio The Human Stain.
Roth ha scritto una trentina di romanzi. Il libro che ho scelto per avviare la nostra conversazione non è Pastorale Americana, del quale parleremo sicuramente più avanti, ma Il teatro di Sabbath, pubblicato nel 1995, due anni prima di Pastorale. L’ho scelto perché lo considero il romanzo più rothiano di Roth, il romanzo in cui Eros e Thanatos (due topoi centrali della poetica di Roth) raggiungono i picchi più alti e si amalgano meglio che in altri testi. Sei d’accordo?
In una parola: sì. Come dici tu, la narrativa suggerisce una commistione di Eros e Thanatos ipnotizzante, perché tutte le avventure sessuali di Mickey Sabbath rivelano un legame forte con due vuoti enormi nella sua anima: il fratello morto durante la Seconda Guerra Mondiale, e più recentemente la complice del suo adulterio e della sua lussuria: Drenka. Ma descrivere il romanzo in questo modo sarebbe una semplificazione eccessiva; non è per niente una tragedia semplice, basata su schemi elementari. Al contrario, è una comedia che lascia lividi, piena di sorprese ma che non ha nulla di pornografico né di morale. I movimenti nel buio, in questo Teatro, finiscono in un vero dramma, con grandi rischi. Ne viene fuori un degradato e disordinato Captain America, avvolto nella bandiera Americana.
Mickey Sabbath, l’artista di strada costretto da una malattia alle dita a cessare l’attività, è un povero disperato, ma non vive dando le spalle alla morte come farebbero le persone normali. Non si può dire che ispiri simpatia nei lettori, Mickey è un uomo inassolvibile, volgare, lussurioso all’eccesso. Solo Roth sembra provare per i suoi fallimenti, per la sua vita ripugnante una certa compassione: “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria”. Roth ha ragione: Mickey non va condannato perché il primo a condannarsi è lui stesso. Delle macerie che si è lasciato alle spalle Mickey è consapevole. Nell’ultima scena del romanzo lo vediamo nel cimitero dove riposano i familiari che prova goffamente a organizzare la sua sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994”.
Vero. Lui si confronta con la morte dappertutto: nel New Jersey (dove sono sepolto i suoi genitori) e anche in Massachusetts (dove la sua vera compagna Drenka dorme sotto la terra). Nonostante ciò, Mickey Sabbath non ha un piede nella tomba; è sempre in giro, tra un ricovero e l’altro, una donna e l’altra, fugge anche dalla polizia. Un po’ come una delle sue marionette. Mentre sua moglie cade nella dipendenza dall’alcol e scompare in una terapia senza fine, Mickey non smette di abbracciare la vita, magari all’Inferno: “Meglio che rimanere qui. Tutti quelli che odia stanno qui.”
La lunga carriera di Roth, iniziata nel 1959 con Goodbye, Columbus e conclusasi nel 2010 con Nemesi, la si può dividere in due stagioni: quella “del figlio”, la prima; quella “del padre”, la seconda. Nella stagione “del figlio” Roth interpreta il ruolo forse a lui più congeniale, quello del ribelle. Il giovane Roth si scontra con l’educazione familiare, con l’ipocrisia della società borghese, perfino con la religione ebraica. L’ebraismo di Roth non è mai sereno né identitario, critico piuttosto, spesso conflittuale nella finzione: la blasfemia di Carnovsky manderà su tutte le furie la comunità ebraica di Newark e farà morire di crepacuore il padre di Zuckerman. John, partendo proprio dalla stagione “del figlio” mi vengono in mente soprattutto titoli come Goodbye, Columbus (l’esordio), Quando lei era buona (l’unico romanzo in cui Roth dà voce a una protagonista femminile, Lucy Nelson) e Lamento di Portnoy, il romanzo della consacrazione. È il 1969, siamo in piena rivoluzione sessuale, e Roth delega la sua protesta a un giovanotto stralunato che ci sembra di avere già incontrato. Alex Portnoy è Holden Caulfied adulto. Non trovi, John?
I libri con cui Roth ha iniziato la sua carriera mi interessano meno, anche se sono buoni libri, certo. Il mio primo ricordo è legato a Portnoy, un bella ventata di aria fresca sulla gioventù americana. Per tre quarti un Holden Caulfield adulto, sì, o almeno più cinico, più smaliziato. Poi ho apprezzato altri testi; il racconto degli ebrei americani nell’esercito, “Defender of the Faith,” è stato ogetto di critiche, per me è solo della buona narrativa sul bene e il male. Ricordo che The Great American Novel mi ha fatto ridere tanto; forse è il suo romanzo più divertente. Comunque, al di là di tutto, la cosa importante è lo spirito, in queste storie c’è un’energia creativa che esplode in una eruzione di dettagli. Con Roth anche le cose banali diventano illuminanti.
Nella seconda parte della carriera Roth dà il meglio di sé. Patrimonio (forse l’opera più autobiografica) è un testo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Lui che nella vita non ha avuto figli, diventa padre nella letteratura. Arrivano i libri migliori: Il teatro di Sabbath, Pastorale Americana, La macchia umana. Concentriamoci però su Pastorale. Nell’anno in cui Roth lo pubblica, negli Stati Uniti escono altri due capolavori: Underworld di DeLillo e Mason & Dixon di Pynchon. Pochi mesi prima, nel 1996, FightClub di Chuck Palahniuk, L’atlante di William Vollmann, Infinite Jest di David Foster Wallace. Nel 1998 Pastorale Americana si aggiudica il Pulitzer. A Roth a questo punto manca solo il Nobel. Lo meriterebbe ma a scombinare i piani è Leaving a Doll’s House, il memoir di Claire Bloom che spara a zero sull’ex marito facendo a pezzi la sua immagine di uomo e di scrittore. Roth misogino e sessuomane? La stessa malevolenza toccò anche John Updike (“un pene con un grosso vocabolario” disse di lui David Foster Wallace). Perché Pastorale Americana è il Grande Romanzo Americano è presto detto: contiene tutti gli ingredienti del GRA. Sono tre o quattro, non di più. 1) Il sogno. Seymour Levov, il protagonista del romanzo, eredita dal padre una fabbrichetta di guanti di pelle e la trasforma in una grossa azienda. Seymour può dirsi un uomo di successo. Seymour ha svoltato, ha realizzato l’american dream. 2) Il mito della forza e della bellezza. Seymour è alto, biondo, con gli occhi azzurri. Lo chiamano lo svedese per via di quell’aspetto nordico. Non solo. Seymour ha sposato una donna bellissima, aspirante miss America, già miss New Jersey. Da studente, Saymour eccelle in tutte le discipline sportive, i suoi primati fanno esultare il quartiere ebraico dove abita e dimenticare perfino la guerra. 3) Il conflitto generazionale. Nella ricostruzione immaginaria di Zukerman, Merry, la prima figlia di Seymour, è una ragazza introversa e scontrosa per via di una fastidiosa balbuzie. Il disagio di Merry si trasforma in frustrazione poi in rabbia, infine esploderà nel gesto clamoroso che cambierà direzione alla storia.
Proprio così, Angelo, i conflitti di Pastorale sono una foto perfetta di una certa società americana. I conflitti dei Levov sono intimamente legati ai grandi movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta e Settanta (femminismo, pacifismo, le grandi questioni degli afro-americani eccetera). In altre parole, il titolo è molto ironico: questa pezzo d’arte non è per niente “pastorale.” Aggiungerei che Pastorale è uno dei romanzi più seri e realistici (classici) di Roth. Lo sviluppo del dramma non sfreccia sempre agli estremi, come in Sabbath. Impossible non percepire la differenza tra Pastorale e Mason & Dixon di Pynchon. Per quanto riguarda Underworld (anche questo è un libro tremendo, senza dubbio), DeLillo gioca tanto con i tempi, con le epoche, nella sua narrativa, dal 1951 al futuro.
Ai tre ingredienti che prima ho indicato in Pastorale Americana, andrebbe aggiunto un quarto. È un ingrediente presente in ogni libro di Roth. Il suo tocco magico. Mi spiego meglio. Per tutta la vita Roth non ha fatto altro che raccontare se stesso, simulando e dissimulando la verità. Mascherandosi. Come tutti i grandi romanzieri, Roth ha tradotto in inchiostro la propria esistenza. Scrivi di quello che sai. Il gioco di specchi tra verità e finzione, che raggiunge il suo culmine ne IFatti, in Pastorale non tocca il fondo ma il doppiofondo: la storia del romanzo è sì un’invenzione di Roth ma dentro la storia di Roth c’è quella di Zuckerman. Pastorale è una gigantesca allegoria, i Levov sono come l’America, vuole dirci l’autore, che mostra la parte migliore di sé e nasconde la polvere sotto il tappeto. “L’America non è mai stata innocente” scrive Ellroy nell’incipit di American Tabloid. Neppure i Levov lo sono. Non c’è lieto fine né consolazione nelle ultime battute, i Levovsprofondano nell’abisso, i lettori assistono inermi, attoniti, quasi intimoriti. Philip Roth ci getta nel caos. Non è a questo che serve la letteratura, John?
Assolutamente sì, lo dicevo prima.
Voglio concludere ritornando sull’onda moralistica che si è abbattuta a un certo punto sulla vita e la carriera di Philip Roth, macchiando (secondo alcuni) la sua immagine di scrittore. Roth è stato uno dei primi bersagli della Woke Culture: ripulitura anche di vecchi testi da termini che possono risultare offensivi e razzisti; censura di qualunque forma di appropriazione culturale; valorizzazione pro-quota (e quindi al di là dei più equi parametri metitocratici) delle donne. John, l’America è ancora un paese libero?
In pochi parole, sì: gli Stati Uniti sono ancora un paese libero — nello stesso senso in cui anche l’Italia è libera. Cioè, ci sono sempre pressioni di vari tipi, contro la libertà di stampa, per esempio (ho scritto di questo nel mio Talking Heads: 77), e anche nell’arte in generale. Roth è stato uno degli autori più attaccati, senza dubbio, come hai spiegato tu. Nonostante ciò, conserva una grossa reputazione. Non dimentichiamoci che nella sua carriera ha ricevuto premi e riconoscimenti prestigiosi. Ancora oggi, tu, io e tanti altri, continuiamo a leggerlo e ad esplorare la sua opera con attenzione. Insomma, esiste ancora la meritocrazia, anche se i tempi e le sensibilità cambiano. Pensa per esempio al caso di Kamala Harris, che ha vinto un’elezione dopo l’altra, misurandosi con un elettorato diversificato. Ma bando alla politica, concentriamoci sulla letteratura. Ho già menzionato Toni Morrison, per esempio; il suo successo non è fondato sul colore della pelle né sull’appartenenza a un certo mood, ma sull’enorme talento. Piu recentemente potremmo citare il caso di Percival Everett e del suo nuovo romanzo James, di cui hai scritto su Telegraph Avenue. Come il buon James, lo schiavo Jim, lotta per la sua libertà, i bei romanzi di Roth ci ispirano e ci aiutano a combattere contro le avversità. È solo una mia suggestione, un sogno? D’accordo, ma è un sogno con cui posso ancora vivere e fare del mio meglio.
DAVID FOSTER WALLACE. CON VANNI SANTONI.
Quando nel 1984 pubblicò Il pianeta Trillafon rispetto alla cosa brutta sulla “Amhrest Review”, la rivista del college, lo studente David Wallace non aveva ancora aggiunto il cognome materno a quello del padre. Lo farà tre anni dopo in occasione dell’uscita del suo primo libro: La scopa del sistema, la tesi di laurea riscritta e trasformata in uno dei romanzi più sgangherati e sorprendenti degli anni ’80. Immaginiamo che siano le tre del pomeriggio di un lunedì di fine estate, e che stia raggiungendo Vanni Santoni in taxi all’università La Sapienza, per parlare di David Foster Wallace. Vanni mi ha dato appuntamento nella biblioteca di Lettere. Ma perché? Forse perché è il luogo più wallaciano che c’è a Roma, a parte il Foro Italico? Immaginiamo di sederci su una poltroncina vicina alla sua, rivestita di una pelle che un tempo doveva essere color testa di moro. Il tavolo di noce è graffiato. Sopra ci sono: una bottiglia di acqua minerale ormai a temperatura ambiente, due bicchieri di plastica, un atlante, e una copia di Infinite Jest aperta all’anno di Glad, scarabocchiata con almeno sei penne diverse. È quella di Fandango, la prima edizione, tradotta da Edoardo Nesi. Prima di arrivare a parlare di Infinite Jest, però, facciamo un passo indietro e ripartiamo dal primo romanzo. Negli anni in cui Wallace esordisce, la scena letteraria americana è dominata dal realismo minimalista di autori come Carver, e gli esordienti Bret Easton Ellis e Jay McInerney. Wallace infrange quel mood con una prosa espansa, massimalistico-argomentativa (realismo isterico), che si immaginava archiviata col postmodernismo del primo Pynchon.
Credo che per prima cosa, ancor prima di evocare La scopa del sistema, sia necessario inserire nella conversazione William Gaddis. Da noi Wallace è stato subito accostato a Pynchon, mentre negli Stati Uniti il paragone era sempre doppio: think Pynchon, think Gaddis, scriveva l’Atlantic (che poi tirava in mezzo anche Beckett). Probabilmente ciò è avvenuto perché Gaddis, da noi, è sempre stato letto pochissimo, anche tra i lettori forti. Onore quindi al Saggiatore, che ha da poco ripubblicato il suo capolavoro Le perizie, e speriamo che questo recupero vada abbastanza bene da convincerli a riproporre anche J.R., la cui edizione Alet è oggi del tutto introvabile. Leggendo o rileggendo Gaddis, il lettore italiano troverà la parte più cospicua del DNA di Wallace, per quanto l’allievo superi il maestro sia in prosa che in cura (Le perizie, per quanto sia un romanzo eccezionale, è punteggiato di piccoli errori storici e di storia dell’arte). Forse anche per questo Wallace ci sorprese tanto: mancava, almeno ai più dei lettori italiani, un pezzo del puzzle. Sembrava fossero atterrati gli alieni… Mi fa venire in mente un po’ quello che è accaduto di recente, sempre da noi, con la traduzione, dopo quarant’anni, del Lanark di Alasdair Gray: d’un tratto i lettori nostrani – me compreso – hanno dovuto rivedere in corsa tutto ciò che credevano di sapere sul sistema di influenze che ci ha portati al new weird. Quando DFW “atterrò” da noi come romanziere (i racconti della Ragazza dai capelli strani erano usciti due anni prima presso minimum fax, e avevano rivelato un grande scrittore ma non ancora un fenomeno assoluto), lo fece in un contesto per lo più d’ignoranza rispetto a Gaddis (e non è che Pynchon fosse poi così letto, almeno non i suoi tomi più massicci…) e per di più con Infinite Jest, non col suo esordio La scopa del sistema, che nell’edizione Fandango del 1999, pur precedente, fu notato davvero poco: per questo ci fu quell’effetto di novità squassante. Ciò detto, non basta Gaddis a spiegare l’eccezionalità di Wallace: certo, Le perizie e J.R. sono capolavori (e si potrebbe financo tracciare un doppio parallelo: Le perizie —> Infinite Jest; J.R., con tutti i suoi dialoghi —> quello che sarebbe dovuto essere Il re pallido) ma Wallace ha qualcosa in più rispetto a lui e a Pynchon (rispetto a Pynchon ha anche alcune cose in meno, ma questo è un altro discorso), qualcosa che riguarda il suo modo di dire le cose: non c’è, in Infinite Jest, la freddezza nei confronti del lettore che è propria dei grandi romanzi di Gaddis e Pynchon. Il grande romanzo massimalista postmoderno trova, con DFW, una nuova umanità. Anche per questa ragione, la definizione di “realismo isterico” mi è sempre sembrata inadeguata per Wallace – o almeno, è adeguata per i primi racconti e per La scopa del sistema, che pur essendo quello che si suole definire “un esordio davvero sorprendente”, patisce una certa caoticità di fondo, potremmo dire quasi un tratto caratteriale che DFW avrebbe poi emendato; ma certamente non è una definizione adeguata per il suo capolavoro, né, io credo, per quello che avrebbe potuto essere il suo secondo capolavoro, Il re pallido.
Nel 1989 Wallace si consacra tra le voci più interessanti della nuova letteratura americana con la raccolta La ragazza dai capelli strani, dimostrando di avere talento anche nel tratto breve. Di quei racconti qualcuno disse che erano un affronto, una burla rivolta a Bret Easton Ellis, esploso pochi anni prima con Meno di zero; altri che Wallace avesse copiato spudoratamente proprio quel romanzo di esordio. Escludendo la seconda ipotesi, il tono di quelle storie è sicuramente beffardo rispetto al realismo esasperato di certi autori come Ellis che imperversavano in quel decennio. Non trovi?
Non c’è dubbio che il racconto che dà il nome alla raccolta prenda in giro un certo immaginario da fighetti ricchi e all’apparenza trasgressivi (ma in realtà avanguardia feroce del sistema) che era proprio del “Brat Pack” in generale e di Ellis in particolare, e a ben guardare mostra anche qualcosa che lo stesso Ellis ha messo pienamente a fuoco solo adesso, con quello splendido Le schegge il quale, oltre che romanzo, è anche riflessione sulla propria poetica, quasi un’opera di (auto)critica letteraria: che non c’era, in fondo, molto di realistico nelle avventure dei ragazzini di Meno di zero e delle Regole dell’attrazione. Ma credo che l’insofferenza che BEE ha sempre mostrato verso DFW non venga da questo, anche se può essere stato la miccia: gli veniva, e viene, dalla consapevolezza ineludibile – per lui sempre così wired – di esser stato surclassato. Anzi, superato, nel senso proprio che quella che doveva essere la sua epoca nelle lettere americane (e quindi, visto il periodo di ancor vigente egemonia, mondiale) fu costretta a un tramonto anticipato. E sia chiaro, lo dico da fan di Ellis: quando DFW se ne uscì con Infinite Jest mostrò di essere, semplicemente, di un altro pianeta: quello abitato dai Dostoevskij o dalle Woolf, e che negli Stati Uniti di quell’epoca era abitato giusto da Pynchon e DeLillo (più McCarthy, ma con un piede dentro e uno fuori… pure questo sarebbe un bel discorso da affrontare, ma appunto… è un altro discorso).
Parlare di David Foster Wallace senza aver letto David Foster Wallace è uno sport abbastanza diffuso. Si prende il Wallace numero due, quello che il nostro amico Gianpaolo Serino chiama “il marketing intellettivo di Wallace”, la sua rielaborazione critica filtrata attraverso mitizzazioni, svariate esegesi, analisi, raffronti, stereotipi su nevrosi e massimalismi, e lo si porta in giro per convegni, discussioni, dirette Facebook eccetera. Accade anche con altri autori: negli anni Sessanta alcuni italiani tenevano in bella mostra sul tavolino del salotto una copia dell’Ulisse di Joyce solo per fare bella figura con gli amici (semicit. di Carmelo Bene).
Direi che lo sport diffuso è soprattutto parlare di Wallace senza aver letto Infinite Jest. La raccolta di saggi Considera l’aragosta è molto letta. Anche i succitati racconti della Ragazza dai capelli strani. I vari altri librini usciti per minimum fax, pure, sono stati leggiucchiati. Quello meno letto è il Wallace romanziere: già i lettori della Scopa del sistema sono meno di quanti possiamo immaginare, ma il fenomeno si nota meno perché La scopa del sistema non è nel novero dei libri che “bisogna aver letto” e quindi nessuno ha mai bisogno di fingere di averlo letto…Tutto ciò è un po’ paradossale perché per quanto il Wallace raccontista sia bravo, e quello saggista a tratti straordinario, il livello reale della sua arte si vede nel romanzo, e in particolare nel “romanzone”. Che IJ sia meno letto di quanto viene dichiarato lo dimostra l’attenzione enorme che viene sempre data alle parti tennistiche, quella comunque ragguardevole data alle parti ambientate nella comunità di recupero di Ennet, e quella invece scarsa o nulla data ai momenti slapstick (quelli sì, totalmente pynchoniani) della seconda metà, o alla filmografia di John Incandenza, o al ruolo di Mario…
Qualche mese fa ho riletto per la terza volta Infinite Jest. È un romanzo che si disvela sempre in modo diverso, non smette di sorprenderci, è sempre attuale: ha anticipato fenomeni come la dipendenza dai social, perfino il trumpismo. Qual è, secondo te, il segreto di questo librone oltre la sua speciale ambientazione tennistica?
Per me il segreto di Infinite Jest, che è poi il segreto del miglior Wallace, è la sua esattezza, e il suo secondo segreto – che si applica a tutto Wallace, ma che trova l’apice in IJ – è quella umanità a cui accennavo prima. Sull’esattezza, mi riferisco alla capacità della prosa wallaciana di inchiodare, grazie all’uso e alla scelta delle parole (e alla costruzione della frase), aspetti, segmenti, squarci o frammenti della realtà che prima erano invisibili o non ancora inquadrati. Di conquistare, con le parole e le frasi, ancor prima che con le idee, i personaggi o la trama, nuovi territori all’increato, oltre che al non-mappato.
Uno dei fenomeni più interessanti della letteratura americana degli ultimi decenni è stata l’amicizia-rivalità tra Wallace e Jonathan Franzen. Due ragazzi del Midwest bianchi, colti, borghesi inclini al postmodernismo. Dopo la 27ma città e il giallo ambientalista Strong Motion, Franzen si trasforma in un contract author per scrivere storie di conflitti familiari, il suo amico Dave invece non rinnegherà mai la sua vena sperimentalista di status author. Li incontrai a Capri nel 2006 al festival organizzato da Antonio Monda. Era la prima edizione de Le Conversazioni, probabilmente la migliore. Con loro ricordo Zadie Smith, Jeffrey Eugenides, Nathan Englander. Wallace era in buona forma, spiritoso, nulla avrebbe lasciato pensare a quel finale tragico di due anni dopo.
Come per Ellis, ho sempre avuto l’impressione forte di un’insanabile invidia da parte di Franzen. Il che è normale, DFW lo straccia completamente, completamente, senza appello alcuno. Dal confronto esce mooolto più distrutto di BEE! Non sono neanche paragonabili. Del resto BEE, che pur le prende da Wallace, straccia Franzen alla stragrande. Il libro migliore di Franzen, che è un ottimo libro (naturalmente sto parlando Le Correzioni) è niente rispetto a Infinite Jest. Soprassediamo sul resto dei suoi romanzi, quantomeno per rispetto a un autore che comunque s’impegna molto, e che credo invece abbia scelto la propria strada in piena coscienza e per reale volontà letteraria… Quei due romanzi in fondo sono usciti dieci e quattordici anni prima delle Correzioni, quindi per me Franzen stava solo cercando la via, e se è diventato uno scrittore così “normie” era perché il normie già viveva potente in lui. Immagino, peraltro, che avere un amico e collega (e immediatamente contemporaneo, non di una generazione prima) che ti è così superiore sia davvero doloroso. Tutte le volte che Franzen ha scritto articoli o fatto conferenze con elementi del tipo “io e lui” ho provato imbarazzo. E sì che essendo amici ne aveva pieno diritto… Ma s’intuiva, dietro, la volontà di cercare di mettersi sullo stesso piano, e l’impressione era quella di un tizio che, credendosi un po’ più basso di chi è accanto, si costruisce uno sgabello e ci sale sopra, solo per voltarsi e rendersi conto di avere accanto un titano, alto quanto un palazzo.
Wallace ha scritto di tutto: di tennis, trigonometria, crociere, aragoste, pornografia, ha spiegato il rap ai bianchi… si può distinguere il romanziere dal saggista?
Direi di sì. Il romanziere è molto superiore. Il saggista è grande perché è originale, ha la solita fortissima umanità, prende prospettive traverse, sceglie bene i temi, fa ridere pur non mandandola mai in vacca… tutto questo avviene in molto molto più grande nel romanzo, dove però c’è anche tutto il resto. Questa domanda e la mia conseguente risposta mi fanno venire in mente che non ho finito di rispondere quando parlavo dell’esattezza e dell’umanità wallaciane: ricordo bene quando, assieme ai ragazzi della rivista dove avevo cominciato a scrivere, esattamente vent’anni fa, nel 2004, qualcuno portò Infinite Jest alla riunione di redazione. Lì, com’è ovvio, restammo basiti dalla prosa e dalla portata del romanzo, e da quell’esattezza di cui sopra. Saltiamo invece avanti di quattro anni: è il settembre 2008, la rivista “Mostro” non esiste più, ma noi ci ritroviamo ancora per scrivere, bere e parlare di libri; qualcuno porta la notizia della morte di DFW. Consideriamo il modo in cui reagimmo: quel dolore, e quel sentirsi come sperduti, che assomigliava, ancorché in piccolo, a quello che si prova alla morte di un familiare che ci è caro o di un grande amico. Un dolore del tutto diverso da quello che si prova quando muore semplicemente un artista che ammiriamo molto. Perché? Io credo che ciò si debba all’umanità del nostro, e non del personaggio, che pure era un grand’uomo: proprio all’umanità che emergeva dalla sua prosa, che riusciva – caso forse unico – ad avere un’esattezza matematica degna d’un Pynchon ma a lasciare comunque spazio per i sentimenti. Un’infrastruttura segreta per il calore umano, nascosta tra le parole. Per me è questa la caratteristica che consegnerà Wallace all’eternità letteraria. Per tornare sempre alla domanda di cui sopra, circa le sue profezie e la sua attualità… a me non pare che Infinite Jest sia invecchiato bene rispetto alle sue previsioni, al suo elemento satirico o ai suoi giochi distopici… A volte “becca” cose attuali perché erano già presenti in nuce nella società americana di allora, ma sotto questi aspetti, si presenta chiaramente come “un libro degli anni ’90”, pure troppo… Ciò che lo rende eterno è altro: è la capacità, ignota anche ai suoi predecessori e padri spirituali Gaddis e Pynchon (e solo parzialmente nota a DeLillo, che però ha altri punti di forza e altri obiettivi), d’infilare l’umano (che di base esatto non è) nell’esatto (che di base umano non è).
Quando si legge un autore ostico e perfettamente calato nella propria quotidianità, è lecito chiedersi quanto sia diversa la sua versione originale da quella tradotta in altre lingue. Pensi che autori come Pynchon e Wallace siano davvero traducibili?
Non essendo un traduttore non mi azzardo troppo volentieri in valutazioni di questo tipo, ma in fondo penso di sì: Wallace ha buone traduzioni, Gaddis ha buone traduzioni. Certo, se li leggi in originale è un’altra cosa, e infatti li leggo in originale, ma cosa farei coi miei venerati Mann e Bernhard e Sebald, non sapendo il tedesco? Come ebbe a dire Bolaño, in fondo un capolavoro è un libro che resta bello anche dopo che è stato tradotto. Il discorso vale meno forse per Pynchon, del quale ad esempio L’arcobaleno della gravità avrebbe bisogno di una ritraduzione: l’ho letto in originale solo di recente e siccome diverse cose non mi tornavano sono andato a rivedere e c’erano molte imperfezioni, ma capisco bene che tradurre un libro del genere, magari per una cifra irrisoria rispetto all’impegno che richiederebbe per farlo bene, sia complicato… Occorrerebbero fondi pubblici per supportare queste imprese al di là dei (pur inevitabili) calcoli economici degli editori.
Quando in quella sciagurata sera di settembre si tolse la vita nella sua casa di Claremont, pare che Wallace avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, ordinato negli scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. “La Cosa Lunga”, un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato a Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa, al party per il decennale di Infinite Jest, a uscite con gli amici. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva al telefono come stai, lui alla sua maniera rispondeva: “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del romanzo che Wallace stava scrivendo vennero faticosamente assemblati tre anni dopo la sua morte, nel 2011, dall’editor Michael Pietsch in un libro di circa ottocento pagine poi intitolato Il re pallido. Che opera è Il re pallido? Cosa aggiunge al Wallace che avevamo conosciuto fino ad allora?
Come tutti gli wallaciani vissi un conflitto interiore: da un lato pensai che – per quanto l’autore avesse fatto in modo di far trovare i materiali – fosse brutto scavare nella sua tomba alla ricerca di qualcosa di incompleto; dunque un senso un po’ di profanazione. Dall’altro lato, mi precipitai a comprarlo appena uscì, e subito dopo comprai pure l’edizione italiana. Che dire del Re pallido… penso che l’unica cosa onesta da fare sia tacere: sono appunti, pezzi di bozze, lacerti vari, da cui è impossibile desumere come sarebbe stato il libro finito. Mi ricordo però che appena lo lessi mi colpì subito un’idea, quella del raggiungimento dell’illuminazione attraverso la noia, tant’è che la ripresi e la usai in un romanzo che poi non vide mai la luce (sarà stata la maledizione del Re Pallido? Eppure, giuro, avrei messo il riferimento nelle note dell’autore in calce…).
RAYMOND CARVER. CON VALERIA PARRELLA.
“Io un lavoro ce l’avevo e Patti no. Lavoravo poche ore di notte in ospedale. Un lavoro da niente. Facevo qualcosa, timbravo il cartellino per otto ore e andavo a bere con le infermiere. Dopo un po’ Patti ha voluto mettersi a lavorare. Diceva che aveva bisogno di un lavoro per la propria dignità. E così si mise a vendere multivitaminici porta a porta”. Protagonista di Vitamine, uno dei racconti di Cattedrale, la raccolta uscita nel decennio più rivoluzionario della letteratura americana moderna (Leavitt, McInerney, Ellis, Foster Wallace, Franzen, Chabon), gli anni ’80, è una coppia fintamente felice. Di coppie infelici in queste storie, e nelle altre, ce ne sono diverse. L’incipit spiega bene il resto: poche parole senza enfasi scritte quasi contro voglia, con noia. Distacco. Le rileggo al tavolino di un bar di piazza Dante, nel centro di Napoli, mentre aspetto Valeria (Parrella) che su whatsapp mi avvisa che è saltata una corsa della cumana “Angelo, ci vorrà almeno un quarto d’ora”. Va bene. È una mattina grigia di ottobre, si è alzato un forte vento che sta facendo agitare gli ombrelloni ancora aperti e volare bicchieri di plastica. Ci saranno dieci gradi. Mi pento di essere uscito di casa con una misera t-shirt di cotone. Dal mio tavolo vedo la vetrina dell’ex libreria Pironti, leggendario talent scout napoletano che con pochi mezzi soffiò grossi autori americani alle corazzate dell’editoria nazionale. Tutto torna, penso: ecco perché Valeria ha voluto incontrarmi qui. Ah, dimenticavo, semmai non si fosse ancora capito: l’argomento della nostra conversazione è Raymond Carver. Si sono fatte le 10,00. Una monetina di sole fa capolino dai tetti dei palazzi di fronte. L’aria si è riscaldata. Meno male. Valeria mi raggiunge dall’altro lato della piazza: occhiali scuri, trench e una borsa di stoffa che a occhio conterrà qualche libro. Solo ora mi accorgo di aver ricevuto un altro suo whatsapp, le voci della piazza devono aver coperto il bip “Meglio del previsto, pochi minuti e sono lì”. Chissà come avrebbe scritto Carver su whatsapp e più in generale sui social. Carver ha inventato Twitter trent’anni prima di Twitter. Nessuno ha influenzato la letteratura contemporanea come lui, disse una volta Rick Moody. A chi lo definiva minimalista, quasi indispettito rispondeva “Precisionista, non minimalista”. Resta il fatto che quel faticoso lavoro di sottrazione eseguito sui testi era in netta controtendenza rispetto alla prolissità di altri autori, soprattutto europei, o al massimalismo argomentativo di chi prima di lui (Gaddis, Pynchon) e dopo di lui (Vollmann, Foster Wallace, Lerner, Cohen) ha proceduto per espansione invece di limitarsi all’essenziale. Quanto quest’opera di ripulitura possa attribuirsi allo stesso Carver o al suo editor Gordon Lish è difficile dirlo. Sui racconti di Carver Lish ha fatto di tutto: cambiato, sostituito, soprattutto accorciato, tanto che non sono pochi coloro che si interrogano sulla reale identità di Carver: era veramente lui o il suo editor? Per farvi un’idea di come Gordon “Mani di forbice” abbia manomesso le storie del suo pupillo vi basta confrontare due raccolte gemelle: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore e Principianti, la versione integrale della prima, uscita qualche anno dopo senza i tagli dell’editor “Gli scrittori hanno bisogno dei loro editor quanto gli sportivi ne hanno dei loro allenatori, e a nessuno verrebbe da giudicare la prestazione di un nuotatore meno meritevole perché a bordo piscina qualcuno lo incita a mulinare le braccia più veloce” ha scritto Paolo Giordano nella prefazione del libro.
Come sai tutti i diritti sulle opere di Carver li controlla- è giusto controlla? Ne fa una supervisione, li esamina, li protegge, li custodisce…ec_ Tess Gallager. Quindi cosa succede, che se devi farne una nuova edizione per esempio italiana, l’editore prima cosa verifica che a Gallager piaccia il prefatore. Io dovevo scrivere su “Se hai bisogno chiama” e mandarono a Tess Gallager una mia raccolta di racconti tradotta in Usa da Europa Edition. Lei disse, ok, ma non deve scrivere che è minimalista. Ci ho pensato tantissimo su. Prima cosa perché l’ultima persona che mi ha detto nella vita cosa dovevo fare è stato mio padre quando avevo 16 anni, credo che dopo ho accettato solo consigli. Poi perché io ho solo la scrittura, quindi non la metto al servizio di ciò in cui non credo.Infine perché io avevo assunto su di me tantissime tantissime informazioni su Carver, di carattere biografico e critico, e ne ero stracolma. Dovevo dunque tornare a leggerlo, nuda, e chiedermi se potevo scrivere di Carver senza scrivere che è minimalista. È un esercizio difficilissimo destrutturarsi da lettore. Alla fine tutto questo paraustiello per dirti che sono sostanzialmente d’accordo. Precisionista non minimalista. Ho prefato, ed è finita così : Tess Gallagher is happy to approve this introduction. I wanted to share her message: I found Valeria Parraella’s essay very sincere and engaging as when someone shares a very personal but expansive encounter with a writer. I especially liked her connecting Ray to “To the Lighthouse”, one of my favorite books of all time. She hits her high note there at the end to realize that in Ray’s work the middle class actually can become a protagonist. Although she doesn’t go on to say so, this makes Ray’s work cast a much wider net across the planet than authors before him. Of course what we realize over here is that now Ray’s middle class has slipped its cogs and has become perhaps the lower middle-class. But this doesn’t diminish his reach, just re-calibrates it. Do thank them for providing the translation. I enjoyed it very much. So interesting her entrance into Carver via kind of the back door in these posthumous stories.
Come dicevo prima a proposito di Vitamine, nelle storie di Carver non accade niente di speciale oltre lo scorrere del tempo e un agire comune, apparentemente irrilevante, letterariamente parlando insignificante, come riparare un oggetto, ricevere una visita, ordinare una torta. In Attenti, altro racconto contenuto in Cattedrale, dopo aver litigato con la moglie, il protagonista va ad abitare in una mansarda. Il lettore non sa qual è la causa del litigio né se e come i due coniugi risolveranno la crisi. “Dobbiamo parlare”, dice lei, ma Carver concentra la sua attenzione su un fatto del tutto marginale: l’orecchio del marito è otturato, e la moglie, che un giorno decide di ribussare alla sua porta, glielo stappa.
Non è che non succede niente. Prima cosa c’è il grande problema base: di cosa sono fatti i libri? di storia o di lingua? Nel migliore dei casi sono un sinolo aristotelico tra i due. nel caso intermedio a me interessa la lingua. la trama… guarda la trama alla fine è una sceneggiatura. Non è così importante. Dunque Carver cosa fa? Mette solo le parole che servono, dentro le parole che servono c’è uno scrigno di informazioni che il lettore tira fuori dalla sua esperienza personale. Se io mi concentro sull’orecchio tappato do un sacco di notizie. so che c’è una consuetudine tra i due, so che si è in un momento intimo ma non romantico, di accudimento ma anche di fastidio, di necessità non grave. Chiunque di noi ha vissuto quello, e chiunque di noi così può essere precipitato in una storia che gli appartiene. Allora cosa vogliamo dire? Che nelle nostre vite non succede niente? Che sono irrilevanti per questo? Su un piano universale certo che lo sono, è rilevante solo che la terra abbia agganciato una nuova luna, ma sul piano della narrativa le nostre storie piccole quotidiane sono tutto: perché sono l’unico ambito in cui viviamo, dunque anche l’unico ambito di giudizio. A me questo mi fa volare. Restare in silenzio in una stanza presa in affitto mentre di là due coniugi anziani guardano la tv è la siepe di leopardi: oltre c’è l’infinito.
In questi racconti c’è sempre un antefatto e un postfatto di cui non sappiamo nulla. Carver arriva al centro. È come se ci spalancasse una finestra per farci vedere cosa sta accadendo in quel preciso momento nella stanza. Carver fa con le parole quello che Edward Hopper fa con le immagini: ci mostra l’attimo in cui tutto è già accaduto.
Sì ma questa è la misura del racconto. Cosa fai in un racconto? Entri nella stanza con il letto già disfatto e decidi se l’ha buttato per aria un ladro o una coppia che ha scopato tutta la notte, poi esci. È il racconto che fa questo. A te non piacciono i racconti, ma secondo me puoi affinarla questa cosa, puoi venire anche tu nella terra dove ti consegnano un nucleo incandescente. Quello che tu chiami il centro è il nucleo incandescente. Hopper è più freddo, più elegante, più upperclass. Carver soffre come una bestia. Ti ricordi quando mettesti su X una foto on the road e io ti dissi che la piana di Battipaglia o la Route 66 hanno un sentire che si somiglia? Ecco, io a Carver riconosco quella fatica. Ma forse sono io. Se io non avessi letto Carver e non ci avessi visto dentro la piana di battipaglia oggi farei un altro lavoro e io e te non staremmo prendendo questo caffè.
I protagonisti delle storie di Carver non sono né degli eroi né persone comuni, sono uomini e donne sull’orlo di un’infelicità che si sta cronicizzando. Ricordano molto i personaggi di un altro gigante del realismo minimalista: Richard Yates. Ma se i personaggi di Yates inseguono un sogno senza raggiungerlo, quelli di Carver il sogno manco lo inseguono, perché sarebbe tempo sprecato.
Voilà. perfetto. Lui è il cronista dell’infelicità. mica un ruolo semplice? lo psicopompo americano, un hermes traghettatore, con tinte molto evidenti, pensa per esempio alla torta di compleanno. a me viene mal di stomaco solo a pensarci, o alla stessa sequenza finale delle guglie della cattedrale disegnate a occhi chiusi…è molto significativo questo ossimoro che usi “giganti del minimalismo”, ci hai pensato?
Carver ha scritto solo racconti e poesie, non si è mai confrontato con la forma del romanzo. Apparentemente può trattarsi di una libera scelta dettata dal gusto personale, da un’attitudine; probabilmente un’esigenza più terra terra: la perenne corsa contro il tempo per consegnare in cambio di poco e subito. Carver scriveva con i figli piccoli che gli urlavano addosso e le bollette di luce e gas che si accumulavano sul frigo. È complicato concentrarsi per anni su un romanzo se rischi uno sfratto per morosità.
Gli americani amano raccontarla così, anche Alice Munro diceva sempre “scrivo racconti perchè ho 3 figli”, ma io sono italiana vengo da lo cunto de li cunti, da Boccaccio, da Pirandello, Verga, Banti, Ortese, non lo penso affatto. Scrivere un racconto è una cosa difficilissima, non puoi letteralmente sbagliare una parola, non un rigo, una parola. È un afflato. Ogni cosa che scrivi porta già in sé la sua misura, non c’entrano nulla le condizioni esterne. Rispetto al consegnare e pubblicare poi comprendi bene che c’è un abisso tra il mercato americano che ama i racconti e quello italiano che quasi li tiene in spregio. L’altro giorno Lorenzo Marone mi ha chiesto se avessi faticato a pubblicare racconti. No. Ma già che mi abbia fatto la domanda la dice lunga. (Dostoevskij aveva sempre lo sfratto, la vecchia si prende un’ascia in testa perché è una padrona di casa- eppure quante pagine sono delitto e castigo?)
CONVERSAZIONE CON SILVIA PARESCHI.
L’appuntamento era Brera, a due passi dalla pinacoteca, poi “il taxi ha fatto un giro strano”, allora decido di raggiungerla in un caffè dietro piazza Duomo. Dopo la pioggia scrosciante della prima mattinata, il cielo comincia timidamente a schiarirsi. Eccola Silvia, è in un angolino e mi sta salutando con la mano. La raggiungo facendomi largo tra un gruppetto di studenti. Silvia Pareschi vive tra il Lago Maggiore e San Francisco, ma il suo lavoro di traduttrice la porta in giro per il mondo e per fortuna che Milano è nel mondo, nel suo mondo. Volendo stilare una lista di grandi scrittori americani o di lingua inglese tradotti da Silvia, si fa prima a inserire i nomi di quelli che mancano. È la prima volta che la incontro di persona e la ringrazio per avermi concesso questa intervista. Cominciamo? Cominciamo.
Venendo da te, in taxi, pensavo a tutti gli autori con i quali hai lavorato. Vado a memoria: Nathan Englander, Jonathan Franzen, Don DeLillo, Ernest Hemingway, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Shirley Jackson, Annie Proulx, Junot Díaz, Colson Whitehead… manca qualcuno?
Mi hai fatto venire voglia di contare gli autori che ho tradotto… sono in tutto quarantatré, venticinque uomini e diciotto donne. Nella tua lista mancano almeno tre dei miei preferiti: Amy Hempel, la maestra del racconto, difficilissima da tradurre con il suo stile minimalista tutto giocato sulle sfumature e il suo amore per i giochi di parole; E. L. Doctorow, un grandissimo scrittore che in Italia non ha mai riscosso il successo che meriterebbe, di cui ho tradotto uno degli ultimi libri, Homer & Langley, e ho ritradotto un capolavoro come Ragtime (che uscirà all’inizio del 2024 per Mondadori); e il mio amatissimo Denis Johnson, autore di libri straordinari come Jesus’ Son e Albero di fumo (che vorrei tanto vedere ripubblicato, visto che è fuori catalogo da anni), del quale Jonathan Franzen ha detto «Il Dio in cui voglio credere ha la voce e il senso dell’umorismo di Denis Johnson».
È strano, ma per quanto tu abbia dato voce a tutti questi scrittori, se dico “Silvia Pareschi” il mio primo pensiero va a Franzen. Non riesco a pensare a lui senza collegarlo a te. Voglio dire: non riesco ad immaginare Franzen con una voce diversa dalla tua. Questa cosa non mi capita neppure con Vincenzo Mantovani e Philip Roth.
Forse perché da un certo punto in poi Roth è stato tradotto dall’altrettanto bravo Norman Gobetti, mentre Franzen, a parte il primo romanzo, La ventisettesima città (tradotto da Ranieri Carano) l’ho tradotto tutto io? Ho cominciato la mia carriera di traduttrice proprio con Le correzioni – sono stata fortunatissima – poi sono tornata indietro e ho tradotto il suo secondo romanzo, Forte movimento, e poi naturalmente sono venuti Libertà e Purity e Crossroads. Più tutta la saggistica. Abbiamo viaggiato insieme, siamo diventati amici, mi sono addirittura appassionata di ornitologia a causa sua. Insomma, posso praticamente considerarmi la sua ventriloqua. In questo momento sto traducendo un suo breve articolo, ed è davvero un piacere ritrovare la sua voce, la sua scrittura fluida ed elegante che conosco così bene. Insomma, io della scrittura di Franzen sono innamorata, e come scriveva Pavese in una lettera a Bompiani: “Per tradurre bene, bisogna innamorarsi del materiale verbale di un’opera, e sentirsela rinascere nella propria lingua con l’urgenza di una seconda creazione. Altrimenti è un lavoro meccanico che chiunque può fare.” Mi innamoro sempre un po’ degli autori e delle autrici che traduco, ma di Franzen di più.
Un italiano o italiana che traduce letteratura americana immagino impari fin da subito a convivere con i fantasmi di Vittorini, Pavese, Pivano, i pionieri di questo mestiere. Dico bene?
Sì, soprattutto per quanto riguarda il ruolo svolto da quelle “tre corone” della traduzione novecentesca nel traghettare in Italia la grande letteratura americana. A chi traduce oggi resta la passione per un lavoro difficile e carico di responsabilità – ma anche di grandi soddisfazioni – però manca quella dimensione avventurosa, quel senso di scoperta e di libertà che la letteratura americana rappresentava per quegli intellettuali che avevano conosciuto l’atmosfera soffocante del fascismo (l’espressione “patria ideale” per riferirsi all’America ricorre sia negli scritti di Pavese sia in quelli di Vittorini). E poi, da parte mia, grandissima invidia per Pivano che ha conosciuto Hemingway.
A proposito di Fernanda Pivano, qualche anno fa hai ritradotto per Mondadori Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Un’esperienza che mette i brividi solo a pensarci.
Ecco, appunto. Io amo dialogare con gli autori che traduco, non solo per chiarire dubbi di traduzione, ma anche, quando è possibile, per facilitare il mio compito di ventriloqua. Quanto mi sarebbe piaciuto chiacchierare con il vecchio Hem! Tradurre Il vecchio e il mare è stato un lavoro affascinante, non solo per la qualità eccelsa della scrittura, ma anche perché Hemingway era uno scrittore che lasciava molte cose non dette, affidandone la comprensione all’intuito e all’acume dei lettori, e tradurlo significa necessariamente scavare in profondità nel testo, esplorare la parte sommersa dell’iceberg che è piena di tesori nascosti.
Ogni lingua ha una propria storia, struttura, evoluzione, aggiungerei suono. Quali sono le maggiori difficoltà nel rendere fruibile e credibile in italiano un testo americano?
Dipende dal testo, dipende dall’autore. L’inglese può essere più conciso dell’italiano, avere frasi brevi, sincopate e paratattiche come in Hemingway, ma può anche avere periodi lunghi e pieni di subordinate come quello di Franzen. La sintassi di Franzen è più vicina a quella italiana della sintassi di Hemingway, e per questo la trovo più facile da tradurre. Con due grandi scrittori come loro bisogna naturalmente avere un rispetto assoluto dello stile: non si tratta dunque di rendere fruibile il testo “addomesticandolo” in qualche modo per il lettore, ma semplicemente di presentare al lettore lo scrittore così com’è.
Torno per un attimo a Jonathan Franzen per ricordare la sua lunga amicizia e rivalità con David Foster Wallace, verso il quale – come saprai – il sottoscritto ha una specie di venerazione. La storia della faticosa traduzione italiana di Infinite Jest, con una serie di tentativi falliti prima di arrivare a Edoardo Nesi (obbligato da Sandro Veronesi), è quasi un romanzo parallelo a quello originale, un’odissea che mi suggerisce un altro titolo di Wallace: Una cosa divertente che non farò mai più. Wallace è uno dei nomi che manca in quella lunghissima lista di autori. Ti piacerebbe tradurlo?
Gli scrittori bravi mi piacerebbe tradurli tutti!
Qualche settimana fa ho letto una tua riflessione interessantissima sull’Intelligenza Artificiale e sulle possibili sue applicazioni alla narrativa (scrittura, editing, traduzioni…). È davvero una minaccia, come si teme, o pensi che nel medio periodo possa diventare una risorsa, aiutarci ad essere più competitivi?
Secondo me la vera minaccia rappresentata dall’IA applicata alla traduzione è che si finisca per applicare il principio della good enough quality, ossia della qualità accettabile. Che cioè la traduzione diventi una mera trasmissione di significato, di “contenuto”, e che si arrivi a perdere la sensibilità allo stile inteso come modalità espressiva personale e unica dell’autore. Non credo che possa avvenire da un giorno all’altro, e non sono neppure sicura che avverrà, ma sicuramente in un mondo in cui le capacità necessarie per leggere criticamente un testo si stanno perdendo, la prospettiva di un’IA intesa come strumento che può sostituirsi agli umani anche nei mestieri creativi non lascia certo ben sperare.
Da quando hai iniziato a fare il tuo lavoro come è cambiata la letteratura americana? I recenti fenomeni della Cancel culture e/o del cosiddetto Sensitive reading pensi siano delle limitazioni alla libertà di espressione o semplicemente delle nuove e più educate forme di rappresentazione?
Poco dopo che era successo il “caso” di Amanda Gorman, ho dichiarato in un’intervista che secondo me è assurdo giudicare il valore di una traduzione in base al colore della pelle, all’età o all’etnia del traduttore, perché in base a questo criterio io, per esempio, potrei tradurre solo persone affini a me, ossia donne bianche di mezza età. Anzi, se portassimo questo assunto alle sue estreme conseguenze, potrei tradurre solo me stessa. Ho aggiunto che secondo me l’unico criterio per decidere a chi affidare una traduzione è la bravura del traduttore o della traduttrice. Forse era una risposta troppo ingenua, forse non c’era spazio, fatto sta che quella domanda è stata poi espunta dall’intervista.
Il 2023 si è portato via due grandi maestri come Russell Banks e Cormac McCarthy. Per fortuna la letteratura americana è così vasta, generosa, feconda, che non ammette buchi generazionali, e per quanto la vecchia guardia dei Pynchon, DeLillo, Joyce Carole Oates, Stephen King sembri irraggiungibile: autori come Joshua Cohen, Ben Lerner, Tiffany McDaniel, Emma Cline… lasciano ben sperare per il futuro. Se dovessi puntare su un paio di nomi tra le nuove leve, chi ti viene in mente?
Non ho ancora letto l’ultimo di Emma Cline L’ospite, ma spero che sia tornata alle altezze di Le ragazze, che mi era molto piaciuto. Lo stesso vale per un altro autore interessante come Nana Kwame Adjei-Brenyah, che dopo gli ottimi racconti di Friday Black ha da poco pubblicato il suo primo romanzo.
Prima di lasciarci: a cosa stai lavorando in questo momento?
In questo momento mi sto concentrando sulla ritraduzione dei classici. Ora sto lavorando a The Brothers Ashkenazi di Israel J. Singer, e poi tornerò a Hemingway con A Farewell to Arms.