
“Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Come è ovvio, ho accettato”.
Questa storia inizia e finisce in Messico, nella metà degli anni ’70. Qui un gruppo di giovani poeti sogna di fare la rivoluzione sulle orme di una fantomatica poetessa di cui nessuno si ricorda più: Cesárea Tinajero, fondatrice del primo movimento realvisceralista.
Nella prima parte del racconto, la voce narrante è quella del diciassettenne Juan García Madero. Juan è orfano di entrambi i genitori. Dopo il liceo, gli zii adottivi lo costringono ad iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza, ma lui, fin da subito, si accorge di avere altre inclinazioni. A un seminario di poesia, Juan fa la conoscenza dei realvisceralisti e si lascia coinvolgere in un progetto stravagante: cambiare la poesia messicana tradizionale, quella stridentista di Octavio Paz, il più noto tra i poeti messicani e premio Nobel per la letteratura. Il giovane Madero decide dunque di abbandonare quel che resta della propria famiglia e l’università per seguire i leader del nuovo movimento, gli stralunati ma carismatici Ulises Lima e Arturo Belano, personaggio, quest’ultimo, che incarna evidentemente la figura dell’autore del racconto. Giorno dopo giorno – il romanzo scorre come le pagine di un diario – Juan viene iniziato a una nuova vita, fatta di poesia, sesso e di mille altri incontri. La casa di Quim Font, padre delle giovani e disinibite Maria ed Angelica, diventa il crocevia di mille trame e il quartier generale dei realvisceralisti. Una specie di porto franco dove le vicende dei poeti si intrecciano comicamente alle storie sentimentali e sessuali delle vispe figlie di Quim.
Nella seconda parte, la figura di Madero scompare per lasciare spazio a decine di altre voci narranti – gli unici personaggi del libro che non parlano in prima persona sono Ulises Lima e Arturo Belano – poeti o aspiranti poeti che tra gli anni Settanta e gli anni Novanta raccontano di aver conosciuto piu o meno bene i due protagonisti. Le strade di Lima e di Belano ad un certo punto si separano. I due amici se ne vanno in giro per il mondo come per fuggire non si sa bene da chi o da cosa – le ragioni di questa infinita peregrinazione le scopriremo nelle ultime pagine del libro. I viaggi di Arturo Belano, in particolare, sono una lunga disavventura fatta di stenti, aspirazioni tradite e malattia. Del realvisceralismo, dei progetti utopici e strampalati di quei giovani poeti non sembra rimanere più alcuna traccia, così come della misteriosa Cesárea Tinajero.
Leggendo le 688 pagine de I Detective Selvaggi di Roberto Bolaño – scrittore cileno morto ad appena cinquanta anni per un brutto male al fegato – è facile pensare a David Foster Wallace. Non tanto per la morte prematura che accomuna entrambi gli scrittori, per un’altra ragione. Bolaño è legato a Wallace da una dote che tra i romanzieri è piuttosto rara: entrambi hanno la capacità di creare attraverso il turbinio delle parole spazi e mondi nuovi, quel mare di leopardiana memoria dove ciascun lettore vorrebbe dolcemente naufragare.
La scrittura di Bolaño è come un magma incandescente, un fiume in piena che travolge ogni cosa.
Non ha il virtuosismo retorico di Wallace, Bolaño, ma la sua vena surreale e malinconica evoca dimensioni umane che ci commuovono. Seguendo il percorso dei realvisceralisti, le passioni di quei giovani sognatori, poveri di tasca ma ricchi di sentimenti “viscerali” e di immaginazione, ho avvertito il desiderio di unirmi a loro, di seguirli per le strade di Città del Messico, di Parigi o Barcellona. Di abbandonarmi al caos di quello stile così creativo e bohémien, fatto di sensazioni allegre e di improvvisazione che solo certi latinoamericani sanno trasmetterci. Bolaño, da vero genio della letteratura, lo fa con maestria e autorevolezza. I Detective Selvaggi è un romanzo denso di poesia e di follia che non è paragonabile a nessun’altra opera letteraria. Un libro dal quale è difficile allontanarsi, un affresco di passioni estreme, una finestra spalancata su un’umanità indolente e condannata al sogno.
Angelo Cennamo
Bellissimo libro con una grande frase “Il problema, nella letteratura come nella vita, dice don Crispìn, è che alla fine uno finisce sempre per diventare uno stronzo” solo per questa frase deve essere letto il libro 🙂
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