2666 – Roberto Bolaño

2666 - Roberto Bolano

Roberto Bolaño come Bob Marley, Lou Reed, Andy Warhol, David Foster Wallace: genio di un’avanguardia che sperimenta nuove forme, linguaggi di una modernità che sa reggere il confronto con miti e leggende di epoche precedenti. A poco più di vent’anni Bolaño – scrittore cileno morto nel 2003 in Spagna all’età di cinquant’anni a causa di una pancreatite acuta –  fonda il movimento infrarealista e getta le basi per una narrativa diversa, che rompe con la tradizione del realismo magico di altri grandi autori sudamericani del Novecento come Gabriel Garcia Marquez e Jorge Luis Borges. Ho tirato giù dallo scaffale 2666, il suo romanzo-mondo di circa mille pagine che avevo letto anni fa e mi sono abbandonato nuovamente alla lettura fingendo di non conoscerlo ma ricordando i suggerimenti di chi mi aveva preceduto: non farti domande, segui il flusso, non sentirti obbligato a rispettare la sequenza dei cinque romanzi che lo compongono, entra ed esci dalla narrazione da un ingresso qualunque, abbandonalo prima che lui abbandoni te. Tra le tante storie messe in giro sull’opera, l’ultima riguarda la forma che il libro avrebbe dovuto assumere al momento della sua rifinitura: pare che l’autore desiderasse che le cinque parti ( la parte dei critici – la parte di Amalfitano – la parte di Fate – la parte dei delitti – la parte di Arcimboldi) fossero pubblicate separatamente, a distanza di qualche anno l’una dall’altra, ciò per consentire ai figli, ancora giovani e di lì a qualche mese orfani di padre, di beneficiare dei proventi della vendita. La scelta, evidentemente tradita dall’editore, conferma la morfologia variegata del romanzo, che non si presenta al lettore come un monolite ma come un puzzle gigantesco che può essere letto  seguendo anche un ordine diverso da quello prescelto. Raccontare un’opera monumentale come 2666 non è possibile né avrebbe senso farlo, ma leggendo il libro la mente vola ad altri due romanzi voluminosi, distopici, ipnotici soprattutto: Petrolio e Infinite Jest.

“La parte dei critici” racconta la storia di quattro docenti universitari, tre uomini e una donna, di diversa nazionalità, appassionati di uno scrittore tedesco semisconosciuto che nessuno ha mai incontrato né visto: Benno Von Arcimboldi. I quattro si ritrovano in giro per l’Europa nei congressi di letteratura tedesca. Diventano amici, poi amanti della stessa donna, l’inglese Liz Norton. Infine, alla stregua di Ulises Lima e Arturo Belano – i detective selvaggi alla ricerca della poetessa realvisceralista Cesárea Tinajero – i quattro si mettono sulle tracce del misterioso Arcimboldi, finito probabilmente in Messico. La città di Santa Teresa, nello Stato del Sonora, diventa il terminale, il punto nascosto, dove confluiscono le trame di tutti e cinque i romanzi. Ne “La parte di Amalfitano” è il luogo dove il protagonista ha deciso di trasferirsi dopo essere stato abbandonato dalla moglie, invaghitasi di un altro uomo, un poeta malato di mente e rinchiuso in un manicomio. Il professor Amalfitano – figura che sembra ricalcare quella dell’autore del romanzo – è un cileno depresso, mezzo matto, che va ad abitare prima in Spagna, a Barcellona, poi accetta di insegnare all’università di Santa Teresa, città dove, tra l’altro, farà da guida ai quattro suoi colleghi giunti dall’Europa per cercare Arcimboldi. Sua figlia, Rosa, la ritroviamo nel terzo romanzo del libro: “La parte di Fate” – la più bella, a mio avviso, per suggestioni, atmosfere, intensità e struttura – il cui protagonista, Oscar Fate, è un giornalista newyorkese di colore mandato proprio a Santa Teresa per coprire un incontro di boxe. Fate, che non è un esperto di sport, finisce invece per occuparsi di un grave fatto di cronaca nera che da alcuni anni affligge la città: l’assassinio di oltre duecento donne. La vicenda occupa l’intera trama del quarto romanzo “La parte dei delitti”, che raccoglie le storie di tutte le vittime di quella orrenda mattanza con un taglio ed un’ambientazione crime che ricordano due capolavori di Don Winslow: Il Potere del cane e Il Cartello. Il libro si conclude con “La parte di Arcimboldi”, la biografia dallo stile canettiano dello scrittore fantasma al centro anche del primo racconto. Una traversata faticosa, in alcuni tratti magica ed emozionante, in altri più oscura e noiosa. Buon viaggio.

Angelo Cennamo

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PULVIS ET UMBRA – Antonio Manzini

 

Pulvis et umbra - Antonio Manzini

 

 

Nel precedente episodio 7-7-2007 avevamo lasciato Rocco Schiavone nel ruolo gomorroico ed insospettabile di giustiziere, di implacabile vendicatore della moglie Marina, uccisa per sbaglio da un narcotrafficante che si era messo sulle sue tracce – Manzini immagina i suoi romanzi non come una serie, ma come capitoli di un libro più grande sul vicequestore Schiavone, l’investigatore romano, attento ma svogliato, trasferito ad Aosta per motivi disciplinari, che si fa le canne e che nel gelo alpino non rinuncia al suo loden e alle Clarcks sedicesimo paio in dieci mesi.

In Pulvis et umbra le trame sono due. Ad Aosta, sulla riva della Dora, viene ritrovato il cadavere di un trans. Fuori Roma, in un campo nei pressi della Pontina, una seconda vittima con in tasca un foglietto scritto. La vicenda del trans, molto noir, è quasi un espediente letterario per indagare più a fondo sulla nostra identità: siamo proprio sicuri di sapere come siamo? Sembra chiedere Schiavone-Manzini ai suoi lettori. E’ un caso complicato, forse irrisolvibile, che va ad urtare le ombre di una strana ragion di Stato e di un assassino coperto da un misterioso depistaggio. Un’altra bella rottura di coglioni che va ad aggiungersi al lungo elenco che Rocco tiene affisso sulla porta del suo ufficio: Radio Maria, le comunioni, i battesimi, i matrimoni, i tabaccai chiusi, la sabbia nelle vongole, le sorprese soprattutto quelle, perché ti costringono a reagire, a prendere una decisione. Il delitto sulla Pontina sa invece di una vecchia storia Quel cadavere puzzava di Enzo Baiocchi. Rocco deve trovare una scusa per ritornare a Roma e fare luce su un regolamento di conti nel quale è implicato anche il suo amico Sebastiano. Le ombre che si addensano intorno alla figura del protagonista sono tante, a cominciare dal fantasma di Marina. Rocco la vede, le parla, poi, poco alla volta, lei si ritrae quando nella vita del vicequestore sembra voler entrare l’agente Caterina Rispoli Perché non vieni più? Perché il vento cambia, Rocco. Io lo so. Anche tu lo sai. La storia personale di Caterina è carica di dolore e di tormenti: un padre orco che dopo tanti anni chiede di rivederla perché è in fin di vita in ospedale; la cieca obbedienza ad un ordine superiore che rischia però di allontanarla per sempre da Rocco Tutta la sua vita non era stato altro che dovere……Non era mai stata una bambina. Non era mai stata ragazza. Pulvis et Umbra è una storia di tradimenti, spiega Manzini a chi gli chiede del romanzo. Il tradimento della Giustizia, nella quale, nonostante tutto, Schiavone ha sempre creduto; quello di Caterina, il giovane amore smarritosi prima ancora di sbocciare. E il peggiore di tutti: il tradimento percepito da Brizio, Furio e Seba, gli amici di una vita, i tre delinquenti con i quali il vicequestore ha diviso tutto: ricordi, soldi, donne, lutti, perfino le indagini. Ombre che Rocco tenta di afferrare, ma tra le mani non gli resta che la polvere.

Non pensavo che Manzini potesse ripetersi dopo un romanzo impeccabile e appassionante come 7-7-2007. Pulvis et umbra invece lo eguaglia per bellezza, impianto narrativo, intensità, ironia e stile, confermando la buona qualità e i progressi del giallo italiano, che in Antonio Manzini ha trovato, già da diversi anni ormai, uno dei suoi interpreti migliori.

Angelo Cennamo

                             

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LABILITA’ – Domenico Starnone

 

Labilità - Starnone

 

Nella classifica dei cento romanzi del 2017 stilata dal New York Times figura un solo libro italiano: Lacci di Domenico Starnone. L’apprezzamento per Lacci – Ties nella versione americana – arriva nella scia del successo riscosso negli Usa da un’altra scrittrice napoletana, Elena Ferrante, la cui identità sconosciuta viene spesso attribuita proprio a Starnone. E’ un dato curioso sul quale si possono imbastire un paio di considerazioni; la prima e più facile per chi percorre la tesi appena accennata, è che lo stile, le ambientazioni delle storie dei due autori fanno particolarmente presa tra i lettori americani. La seconda è che i romanzi italiani non sono evidentemente così scadenti, e le loro trame non hanno (sempre) quel respiro corto di cui spesso si vagheggia. Tornando alla querelle infinita (e stucchevole) sulla somiglianza o coincidenza dei due scrittori, direi che una differenza sostanziale tra Ferrante e Starnone esiste, ed è, per così dire, una considerazione asimmetrica delle loro opere: la prima, cioè, è molto amata dal pubblico, il secondo gode invece di maggiore stima negli ambienti editoriali, tra gli scrittori. Una conferma ci viene per esempio da romanzi come Autobiografia erotica di Aristide Gambìa e Labilità, libri che hanno suscitato un certo interesse tra gli addetti ai lavori, ma molto meno tra i lettori.

Labilità racconta la storia di uno scrittore maturo che dopo molti anni sembra aver ritrovato l’ispirazione per dedicarsi a un romanzo sulla propria infanzia e la passione che fin da bambino ha coltivato per la scrittura. La voce narrante è la stessa di un altro libro di Starnone, Via Gemito – premio Strega nel 2001 – del quale questo potrebbe, per certi versi, essere il sequel. In molti passaggi, infatti, le due storie sembrano sfiorarsi, intersecarsi. La voce narrante, senza nome, è un uomo svagato, che perde di continuo il senso della realtà, e che soprattutto nell’atto dello scrivere si lascia visitare dai fantasmi del proprio passato: la madre, il padre ferroviere-artista, il Federì di Via Gemito per l’appunto, i vecchi compagni di scuola, come Silvestro, col quale un giorno litigò per via di una figurina rara e per questo molto ambita, quella del calciatore Giampiero Boniperti. Le divagazioni oniriche, questo girovagare infinito ai margini di un tempo virtuale e mai nitido – Labilità vuole significare proprio il confine invisibile tra realtà e finzione, gioco e verità –  e la ragnatela dei ricordi nel quale il protagonista sembra essere sempre più invischiato, diventa un gioco di specchi nel quale tutto si mescola, si confonde. La storia, che si arricchisce di altri due temi: il tradimento della moglie Clara con una collega molto più giovane di lui, Nadia Zanò, e l’invidia malcelata per un aspirante scrittore, Nicola Gamurra, suo ammiratore che cerca invano una sponda per pubblicare il suo primo romanzo, finisce però per avvitarsi troppe volte su se stessa. L’impressione è che in questo libro Starnone abbia voluto strafare, preteso troppo dal suo indiscusso talento, in una declinazione però fuori contesto, fuori dal “suo” contesto, che è la commedia. Labilità è un romanzo ben scritto, ma in molti tratti ci appare noioso, inutilmente labirintico e dispersivo. Allo Starnone ipocondriaco e malinconico di Labilità e Spavento, ho preferito quello comico e brioso di Via Gemito.

Angelo Cennamo

 

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CANADA – Richard Ford

Canada - Richard Ford

Ho letto le ultime cinquanta pagine di Canada ripensando a una frase contenuta nel finale del romanzo, e che ho sentito citare da Sandro Veronesi al Salone del libro di Torino del 2016, mentre sul palco, davanti a una folla di lettori appassionati, intervistava l’autore del libro, Richard Ford. Il periodo inizia così: “Quando più tardi ripensò a questi fatti, se lo fece, sono certo che Remlinger non ebbe per me un solo pensiero, e forse aveva persino dimenticato che ero presente“. Ed ecco la frase: “come un martello lasciato in una fotografia solo per fornire la scala degli oggetti, per essere un punto di riferimento, e che esaurisce il suo valore una volta scattata l’istantanea”. Ford ha spiegato di aver appuntato queste parole su un taccuino prima ancora di immaginare il romanzo che le contiene. È il suo metodo. Gli capita cioè di pensare a delle situazioni, a delle frasi, e di lasciarle in sospeso, nell’attesa di collocarle prima o poi nel libro giusto. Il racconto di Ford mi ha divertito molto: l’idea che una trama possa nascere e svilupparsi intorno a una frase ideata diversi anni prima, senza punti di riferimento, l’ho trovata originale e affascinante al tempo stesso.

Ma riavvolgiamo il nastro:

Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi.

A distanza di cinquant’anni dai fatti, il professor Dell Parsons, un americano trasferitosi in Canada, ricorda gli avvenimenti che hanno cambiato per sempre la sua vita e quella di Berner, sua sorella gemella. La storia ha inizio nel 1960 in una tranquilla cittadina del Montana, Great Falls. È qui che vivono i Parsons, una famiglia apparentemente normale, uguale a tante altre. Bev è un sempliciotto dell’Alabama, di bell’aspetto, prestante, sempre sorridente, ottimista, un aviere in congedo. Neeva, sua moglie, è un’immigrata ebrea, una donna minuta, occhialuta, amante della poesia e dell’arte. Per quanto diversi per cultura, stile, idee, temperamento, i due decidono di sposarsi quando lei scopre di essere rimasta incinta. Neeva non ha amici, né senso dell’humor: è una disadattata che reprime nel silenzio e nell’isolamento la propria infelicità. Vorrebbe chiedere il divorzio, ma si trattiene. Dopo l’esperienza in aviazione, Bev fa mille mestieri: vende automobili, case coloniche, poi finisce in uno strano giro di carne di manzo rubata e rivenduta, e accumula un debito di duemila dollari. Potrebbe fare un prestito, chiedere aiuto a un familiare o a qualche amico: in fin dei conti non si tratta di una somma elevatissima. Bev però sembra inspiegabilmente orientato a ripianare quel debito attraverso un piano criminale: rapinare una banca Era una cosa che aveva sempre desiderato fare, dirà Dell cinquant’anni dopo. Ma le sorprese non finiscono qui. Neeva, infatti, anziché dissuadere Bev, di farlo ragionare, avalla l’operazione decidendo addirittura di fargli da complice. Ora sembra rinsavita; quel torpore misto di malinconia e di frustrazione, di fronte all’idea della rapina, perde via via consistenza. I due si riavvicinano, parlano, si sorridono. Scelgono di rapinare una banca del North Dakota, poco distante dal confine. Il piano è una sequela di improvvisazioni: Bev usa l’auto di famiglia e, una volta entrato in banca, non si preoccupa neppure di coprirsi il volto. Il colpo riesce, sì, ma già durante il viaggio di ritorno Bev e Neeva capiscono che presto la polizia si metterà sulle loro tracce e che non la passeranno liscia. La scena del loro arresto, a Great Falls, coi ragazzi che restano soli in casa, è una delle migliori cose che io abbia mai letto.

Nella seconda parte del romanzo Berner e Dell devono cominciare una nuova vita. La ragazza è più spigliata e ribelle del suo gemello. Fugge via, chissà dove. Dell invece viene contattato da un’amica di sua madre che lo porta con sé in Canada. Nessuno va a cercare i due ragazzi, né la polizia né il tribunale per i minorenni, il che spiega bene che razza di posto fosse Great Falls.

Il secondo tempo di Dell è tutto da scrivere, in una terra a lui sconosciuta e ostile. Farà nuovi incontri, nuove drammatiche esperienze. La salita che dall’inferno lo condurrà alla libertà è ancora lunga e piena di insidie. Ford scandaglia con abilità i tormenti del giovane protagonista nelle sue continue peripezie, tratteggiando con altrettanta precisione i caratteri dei personaggi che lo circondano in quel doloroso trapasso verso la salvezza: Arthur Remlinger, il misterioso direttore dell’albergo dove Dell viene assunto, Florence, la sua compagna artista, e Charley Quarters, lo spietato cacciatore di anatre, figura che sembra uscita da una trama western. Canada è un romanzo superbo con un finale commovente. Una storia di confini: geografici, tra il bene e il male, tra libertà e responsabilità, adolescenza e vita adulta La mia idea è sempre quella di un confine da attraversare; adattamento, passaggio progressivo da un modo di vivere che non funziona a uno che funziona. Il miglior Ford.

 Angelo Cennamo

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UNDICI SOLITUDINI – Richard Yates

undici solitudini - Richard Yates

Per certi versi, la vita di Richard Yates ricorda quelle di altri grandi scrittori del suo tempo. Penso a John Fante o a Charles Bukowski. Vite difficili, fatte di stenti, di mancati riconoscimenti, di malinconia, e dipendenza dall’alcol. Negli anni Cinquanta, quindi prima della pubblicazione del suo primo romanzo – il celebre Revolutionary road – Yates compone Undici solitudini, una raccolta di racconti considerata tra i capolavori della narrativa americana della seconda metà del Novecento “l’equivalente newyorkese di Gente di Dublino di Joyce” secondo il New York Times.

Il libro esce nel 1962 e non riscuote un grande successo di pubblico: nessun libro di Yates, del resto, ha superato le dodicimila copie vendute. Di lui si dice che sia più amato dagli scrittori che dai lettori, forse per le sue storie disturbanti, senza un lieto fine. “Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine”, sosteneva Adlai Stevenson, l’eterno secondo alle elezioni presidenziali degli anni Cinquanta, sconfitto due volte da Eisenhower, poi da John Fitzgerald Kennedy. Pare che questa frase campeggiasse anche sulla scrivania di Yates, tra gli appunti disordinati, le bottiglie di whisky svuotate durante le pause dalla scrittura, le foto dei figli e delle ex mogli fuggite da quel mondo grigio e paranoico nel quale si era recluso – quasi a voler dettare un senso, una direzione alle sue trame, i cui protagonisti sono il più delle volte dei perdenti, donne e uomini soli, abbandonati al loro destino e senza speranza.

Harry di Nessun dolore è un reduce di guerra ricoverato in ospedale per un brutto male. Alla vigilia di Natale, riceve la visita della moglie che lo tradisce con un altro uomo. Harry sembra contento di vederla, ma dopo aver scambiato con lei poche parole di circostanza, spreca quei pochi minuti che ha disposizione leggendo un articolo di una rivista. In Costruttori, per pochi dollari, un aspirante scrittore, spiantato e sfortunato, accetta di fare da ghostwriter a un tassista vanitoso che gli offre spunti e aneddoti sulla sua professione. I personaggi di Yates sono degli incompresi che rifiutano di adeguarsi all’onda del conformismo. In altri casi, malati e disoccupati. In altri ancora, dei mediocri, oppure semplicemente vittime di familiari distratti e inconsapevoli. Persone fuori posto, incapaci di realizzare i loro sogni, e per questo finite ai margini di una società che non li vede o non li riconosce.

Yates è il prototipo dello scrittore moderno. Per lo stile, per il suo periodare, scarno ma potente, ricorda un po’ Hemingway, il romanziere al quale proprio il Bob di Costruttori vorrebbe ispirarsi, ma la sua attenzione è rivolta alle relazioni umane e al sociale, più che agli spazi sconfinati della natura o a grandi imprese – e Richard Ford, lo scrittore realista e minimalista, il discepolo ideale che del suo Revolutionary road scrisse una brillante e accorata prefazione in occasione dei quarant’anni dalla sua prima pubblicazione. Per quanto poco conosciuto dal grande pubblico e fuori dai maggiori circuiti editoriali – meno male che in Italia abbiamo Minimumfax – considero Richard Yates uno dei migliori scrittori americani della seconda metà del Novecento, al pari di Malamud, Bellow e Roth. L’ho già scritto. Lo scriverò ancora.

Angelo Cennamo

     

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