
La rilettura di autori impegnativi come DeLillo offre nuovi spunti di riflessione. Alcune nebbie si diradano, altre permangono (di DeLillo, come di Pynchon, John Barth o Foster Wallace, non si può capire tutto). Cosmopolis esce nel 2003, a ridosso dell’attentato alle Torri Gemelle. Il romanzo si apre con una dedica a Paul Auster, scrittore di Newark come Philip Roth, al quale il vecchio Don è legato se non altro da una comune impostazione postmoderna: Cosmopolis è virtualmente il quarto romanzo della celebre trilogia newyorchese di Auster. Un libro apocalittico, per due terzi ambientato dentro una Limousine con pavimento in marmo di Carrara “estratto dalle cave dove Michelangelo, mezzo millennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata”, in un tempo che sfida le leggi della fisica: accelera, poi rallenta, si dilata. Il miliardario Eric Packer ha voglia di tagliarsi i capelli, esce dal suo grattacielo di duecentosettantametri, dove abita all’ottantanovesimo piano, monta in macchina. Inizia così il viaggio racconto di una giornata interminabile, di una vita, di un matrimonio d’amore e di interessi con la giovane poetessa Elise – i due si incrociano al semaforo, al ristorante, in libreria – di investimenti sbagliati, di ricordi più o meno vividi. La Limousine di Packer solca una New York distratta, la metropoli di Underworld, brulicante di uomini d’affari e mendicanti, tra tumulti e sbarramenti per la visita del presidente degli Stati Uniti. “Gli uomini pensano all’immortalità” dice la bella Kinski a Eric. Di questa frase DeLillo, qualche anno più tardi, ne farà l’incipit di Zero K “Tutti vogliono possedere la fine del mondo”. La vita, la morte, il denaro che fluttua, l’inafferrabile senso del tutto, Cosmopolis è una lunga riflessione sull’ineluttabilità. Il senso estetico delle parole ci colpisce più di ogni altra cosa. Parole ordinate, misurate, incastonate nella pagina come diamanti in un diadema. Le forme, i suoni. Le parole di DeLillo non vanno solo lette, vanno osservate, sono belle anche da vedere. Se coltivate l’ambizione di scrivere, non buttate soldi in corsi di scrittura, leggete questo libro. Ah, dimenticavo: la traduzione è di Silvia Pareschi.
Angelo Cennamo