
Il 22 maggio del 2018 ci lasciava Philip Roth, scrittore originario di Newark (New Jersey). Oltre trenta libri, quasi tutti di fiction, un premio Pulitzer con Pastorale Americana, un National Book Award con la sua opera prima Goodbye, Columbus. Niente Nobel per essere finito, pare, nel mirino dei nuovi ayatollah (Me too, Cancel Culture, eccetera eccetera), quelli che non distinguono la realtà dalla letteratura, a New York come a Stoccolma. La lunga parabola di romanziere la possiamo dividere in due stagioni: quella del figlio (Lamento di Portnoy romanzo simbolo), quella del padre (Seymour Levov il padre di Pastorale Americana ne è l’interprete principale. Roth non è stato padre nella vita ma lo è stato nei libri). Patrimonio – la storia commovente della malattia e della fine di papà Herman – sia pure in una cronologia asimmetrica, è il romanzo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Perché è importante leggere Philip Roth. Perché è stato il più grande scrittore della sua generazione e non solo. Perché ha saputo farci ridere raccontando la morte e piangere parlando di sesso. Perché non ha cavalcato l’onda del sentire comune ma si è ribellato ad ogni ordine precostituito: religioso, sociale, familiare. Perché, giocando con la verità e la finzione, ci ha condotti nella sua vita attraverso trame prodigiose e virtuosismi retorici che nessuna intelligenza artificiale riuscirà mai a sfiorare.
Angelo Cennamo