HO INTERVISTATO DAVID FOSTER WALLACE

Il cielo livido a Claremont minaccia pioggia e le strade deserte del primo pomeriggio fanno sembrare la città un luogo inospitale. Nell’aria c’è un che di sinistro. Arrivo in perfetto orario. Dal sedile del taxi riconosco la casa‎ dalle vetrate ampie e dai cani che si rincorrono dietro al cancello. Lui è davanti alla porta di ingresso, in piedi: pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, felpa e smanicato, gli occhiali alla John Lennon e l’immancabile bandana. Nella mano destra ha una bottiglia di Gatorade, come se avesse da poco terminato una corsa. Ha il viso stanco e non sembra contento di vedermi. Buongiorno, dico, avvicinandomi al prato inglese che circonda la casa. Salve, risponde lui, accennando un sorriso di circostanza. Con l’altra mano mi fa segno di entrare. Chiama i cani a se’ rassicurandomi che non mi faranno niente. Fa cenno al giardiniere di spegnere gli idranti. È più alto di quanto ricordassi. Ciao. Mi saluta di nuovo, in italiano. Questa volta sorrido io. Ci stringiamo la mano. È visibilmente sudato. Non mi sbagliavo: poco prima aveva fatto jogging. Mi fa accomodare nel salone a pianterreno, su un divano di pelle bianca. Davanti al divano c’è un tavolino basso, di legno nero, tipo Ikea, sopra dei barattoli vuoti di Pepsi, popcorn dappertutto e una copia di Infinite Jest aperta. Le pagine sono scarabocchiate di rosso. La mia copia, invece, quella che mi sono portato dall’Italia per la dedica, è intonsa come se non avessi mai letto il libro. Sulle pareti, poster di tennisti, una famosa stampa di Warhol e una foto sua in compagnia di Jonathan Franzen. Jon è il mio migliore amico, dice. Come la preferisci l’intervista? Sai è una giornataccia. Oh, mi dispiace. Insomma, non è un buon momento. Mi dispiace, non sapevo. No no, niente di grave. È che sono impegnato con una roba grossa, un libro che non riesco a finire. Un vero tormento. Racconta una mia esperienza personale a Peoria, nell’Illinois. Vorrei che sembrasse un romanzo ma non lo è. Parlo della noia ma non vorrei essere noioso. È pazzesco, lo so. Sono a metà, più o meno. Vuoi una Pepsi? Sei italiano, preferirai del vino. No, grazie, va bene la Pepsi. Ok, vado a prenderla e cominciamo. Nella breve assenza vengo attratto da uno scaffale sul lato destro della stanza. È appesantito da un centinaio di libri. Sulla parte alta sono accatastate delle racchette. Provo a leggere i titoli e i nomi degli autori ma sono troppo distante. Eccolo che arriva. Allora, come è andato il viaggio? Male, grazie. Ho una paura fottuta degli aerei. Come me! Accidenti, allora avevi proprio voglia di vedermi. Di’ un po’, Infinite Jest lo hai letto per davvero? Non sarai per caso uno di quei giornalisti che vengono qui a intervistarmi dopo aver dato un’occhiata su internet? Certo che l’ho letto! L’ho letto tutto, dalla prima all’ultima pagina, note comprese. Ok ok. Comunque scherzo, non farci caso. Allora, Dave, partiamo? D’accordo, vamos! Clicco sul tasto play del registratore. Emozione.

Infinite Jest lo hai scritto nei primi anni ’90. Come è cambiata l’America in tutto questo tempo? Molte cose che hai messo nel libro si sono avverate. Penso ad esempio al problema della dipendenza. Internet.

Non è cambiata affatto, anzi, vedo tante persone chiuse in casa. Giovani ipnotizzati dai social‎. Degli zombie scollati dalla realtà. Poco empatici. Famiglie di sociopatici. L’intrattenimento plagia, uccide. Nel romanzo parlo di una strana cartuccia. Oggi la cartuccia è lo smartphone.

I protagonisti del tuo romanzo sono giovani tennisti che per il successo sono disposti a tutto

Esatto. Non hanno alternative al successo. È un obbligo al quale non possono sottrarsi. Vivono in una società che ha fatto della competizione la prima ragione di vita, forse l’unica. Voglio dire, ti fanno credere che se arrivi secondo non vali niente. E allora non puoi consentirti di perdere. Sconfitta uguale emarginazione, emarginazione uguale morte.

Da ragazzo hai giocato a tennis, eri una giovane promessa

Sì. Ho scritto dei saggi sul tennis. Adoro i tennisti come Roger Federer: talento, forza atletica, umiltà, passione, poesia. Da ragazzo me la cavavo, facevo dei lob perfetti. Poi ho avuto un incidente e ho dovuto abbandonare.

Quante copie ha venduto nel mondo Infinite Jest ?

Non lo so di preciso. Credo molte. Non me l’aspettavo. Non mi aspettavo che un libro di milletrecento pagine, così complicato, potesse piacere a tanta gente. Comunque sia, non scrivo con l’assillo delle vendite, non ho mai aspettative di questo tipo. Però fa piacere sapere che quello che scrivi viene apprezzato, viene condiviso dagli altri. Come dire, è gratificante. Sì, gratificante.

Molti giovani non leggono, sono presi solo da internet, dai social. Credi che la letteratura, i romanzi, sia una roba superata?

Bella domanda. Spero di no. La scrittura cambia pelle, evolve in altre forme. Io penso che sopravviverà. La vita è racconto, diceva un filosofo che ho studiato al college. Tutti hanno voglia di raccontarsi, farlo nei gruppi di wa o con i social è lo stesso. Può essere letteratura anche quella, no?

A proposito di scrittura, molti ti considerano un genio perché hai inventato un nuovo modo di fare letteratura. Dicono che dopo di te la letteratura non è più la stessa. Ne sei consapevole?

Dicono così? Be’, mi rendo conto di essere un po’ strano, questo sì. Diciamo che mi diverte superare certi steccati, sperimentare, sorprendere i lettori. Ma non lo faccio per esibire il mio presunto tra virgolette talento. Non lo faccio per dire ai lettori: vedete come sono bravo o roba del genere. Non mi interessa. Cerco solo di essere me stesso, di mostrare la mia natura intima senza filtri e senza ricorrere alla retorica della prosa più convenzionale. A volte mi chiedono della punteggiatura. La punteggiatura è una convenzione. Quando parli con qualcuno, i punti e le virgole non li vedi. Però, attenzione, esiste un limite, non si può stravolgere tutto. Ne ho scritto anche in un saggio sul prescrittivismo.

C’è una frase in questo libro che mi piace molto: “I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi”

(Ride). Piace molto anche a Karen (sua moglie). L’ho rubacchiata al mio amico Don (DeLillo). In Rumore Bianco Don ha scritto qualcosa di simile, dice a bassa voce. Gli arcobaleni neri sono il bene e il male che ci portiamo dentro. Tutti abbiamo un arcobaleno nero. Ci fa paura, è lo spettro di uno spirito maligno, vorremmo cancellarlo. Mi piace pensare che le mie storie possano aiutare le persone a guardarsi dentro e a non avere paura di quel colore, il nero intendo.

Nel 2006 sei venuto a Capri – Napoli – la mia città

Wow! Yeesss! Ho mangiato delle insalate di polpi magnifiche. Se vuoi ordino una pizza, ma non farti illusioni: qui non siamo a Marechiaro. Scusa, mi avevi chiesto di Capri. Sì, ci venni con Jonathan e Jeffrey (Eugenides) per un convegno organizzato da Antonio Monda, mi pare si chiamasse così. Sì, ricordi bene. Nel pubblico c’ero anch’io. Fu un esperienza straordinaria in tutti i sensi. Conservo dei bei ricordi. Non sapevo che la letteratura americana dalle tue parti avesse un grande seguito. Mi piacerebbe tornarci, ma è troppo lontano e non amo i viaggi lunghi. Soprattutto in questo periodo.

Qual è, se esiste, il libro al quale ti senti più legato?

Non saprei, ne ho scritti così pochi. Quello al quale sto lavorando adesso forse è il libro che mi somiglia di più. Da qualche settimana però sono fermo. Non riesco ad andare avanti. Non c’è verso. È angosciante. Non mi era mai accaduto prima. Forse ho solo bisogno di una pausa. Vieni. Si alza di scatto dal divano.

Dove andiamo? In garage. Voglio mostrarti il materiale che ho raccolto.
Il garage è dietro la casa. Per arrivarci attraversiamo un vialetto laterale. I cani ci seguono. Dave alza la porta di ferro marrone scuro, con le scanalature. Entrando vengo investito da un tanfo di panni sporchi e di cibo avariato. Lo stanzone è molto profondo, silenzioso e illuminato solo dalla luce artificiale di un grosso neon installato al centro del corridoio iniziale. Lungo la parete sinistra sono ammassati degli scatoloni pieni di libri. Più avanti altri scatoloni con appunti, dischetti e quaderni vari. Dave mi mostra alcuni manoscritti. Sono illeggibili. Mentre si abbassa di nuovo mi guardo intorno. A un tratto il mio sguardo s‎i posa su un particolare del soffitto: il corridoio del garage è attraversato in senso longitudinale da alcune travi di legno massiccio. Dave si volta. Vede che ne sto fissando una in particolare. In quel punto il legno è scheggiato, e sulla parte centrale ci sono delle lettere cerchiate. Mi guarda. Scuote il capo. Vuoi sapere se è accaduto qui? Quella domanda, così diretta, mi toglie il fiato. Cosa? No, veramente. Eddai, l’ho capito a cosa stai pensando. Se ti interessa, sì, è successo lì, dove ti trovi adesso. Proprio in quel punto. Ma non chiedermi altro, ti prego. E non scriverlo sul blog, mi raccomando. Il volto di Dave ha cambiato espressione. È come se la mia curiosità avesse profanato la sua tomba. D’accordo, gli dico scusandomi. Scusandomi, e per cosa? Non è stato lui a condurmi nel garage? Ok ok, lascia stare, mi dice, aggiustandosi la bandana sulla fronte.Usciamo. Dave chiude la porta del garage tenendo sotto il braccio degli appunti che ha preso da un cassetto di una scrivania ricoperta di faldoni ben ordinati su tre file. Riattraversiamo il vialetto e ritorniamo in casa. Il sole è calato e si alzato un leggero vento. Scusami, Dave, non volevo. Provo a ricucire lo strappo. Tranquillo. Lascia stare. Ora però se non hai altre domande sul libro, io andrei. Sono esausto, non dormo da chissà quanti giorni e domani ho un’altra giornata complicata. D’accordo, Dave. Ok. A proposito, non ho ancora firmato la tua copia, dice spalancando gli occhi. Poi prende un pennarello nero dal tavolo e allunga il braccio per ricevere la mia versione italiana di Infinite Jest. Per me è il momento più emozionante. Sulla pagina bianca che precede il primo capitolo scrive: “Al mio amico (friend) italiano A. – Dave Wallace”. Ecco fatto. Ah, un’ultima domanda. Dimmi. Come ti piacerebbe essere ricordato, un giorno? Fammici pensare. Mm… “Un antidoto contro la solitudine”. Così. Ci salutiamo con un abbraccio. Mi accompagna alla porta. Grazie di tutto. Grazie a te e buon viaggio, mi dice passandosi una mano tra i capelli. Attraverso il prato inglese avviandomi verso il taxi che mi sta aspettando oltre il cancello. Sta cominciando a piovere. Uno dei cani mi segue scodinzolando fino all’auto. Entro in macchina. Mi accascio sul sedile di pelle. Oddio il libro! Dove l’ho messo? Che stupido, devo averlo dimenticato sul divano. Ripercorro il viale di corsa sotto la pioggia che in pochi minuti ha iniziato ad infittirsi. Busso alla porta bagnato fradicio. Non mi sente. Ribusso. Busso ancora. Viene ad aprire un signore anziano con degli strani occhiali e un cappellino dei Lakers. Chi sarà? Non ricordo di averlo visto prima. Scusi, gli dico con imbarazzo, cercavo Dave, Dave Wallace. Chi è lei? Sono un amico, un suo amico italiano. Mi guarda stranito. David Foster Wallace, intende? Lo scrittore? Sì, proprio lui. Ma Mr. Wallace è morto diversi anni fa. Non abita più qui.

Angelo Cennamo

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