RITORNO A BRIDESHEAD – Evelyn Waugh

Ah, beata mondanità. “Sono un animale di lusso, e il superfluo m’è necessario come il respiro”, scrive Gabriele D’Annunzio a Emilio Treves in una lettera di fine Ottocento. Come il vate di Pescara, una certa attitudine alla frivolezza e all’eccentricità Evelyn Waugh, scrittore londinese nato agli albori del secolo breve, la declina già negli anni del college, a Oxford, durante i quali questo dandy scapestrato finirà per perdersi in una serie di scandali e bagordi che formeranno l’ossatura dei suoi primi romanzi perlopiù satirici: Declino e caduta, Corpi vili, ecc. Ritorno a Brideshead esce nel 1945. I giudizi si dividono tra chi ne parla come di un capolavoro e chi invece non rinuncia a stroncarlo in pompa magna per la sua, diciamo così, inconcludenza (ogni riferimento a Edmund Wilson sul New Yorker è puramente casuale). Le parole acide di Wilson le riporta anche Alessandro Piperno nella prefazione della nuova edizione, uscita in questi giorni con Feltrinelli e la traduzione di Ottavio Fatica. La scelta di Piperno come novello testimonial mi pare azzeccata: Piperno lo si può definire per molti versi un epigono di questa letteratura che chiamiamo Romanzo Borghese, e che ha vissuto i suoi anni migliori con autori come Charles Dickens, tanto per rimanere nel Regno Unito, e dall’altra parte dell’oceano, qualche decennio più tardi, con personaggi come Vladimir Nabokov, John Cheever, Saul Bellow, Philip Roth. Waugh nel romanzo è Charles Ryder,  un capitano di fanteria di mezz’età che nel corso della seconda guerra mondiale si ritrova davanti all’antica dimora di Brideshead, luogo che ha segnato come nessun altro la sua giovinezza e verso il quale prova ora una forte nostalgia. La storia inizia proprio con Charles che rievoca il suo passato ricordando gli avvenimenti di quella stagione, storica oltre che familiare, ormai al crepuscolo. Charles non è più il sognatore gaudente di vent’anni prima, l’aspirante artista fiducioso e aperto al prossimo, ma un uomo cinico e disilluso. Il disincanto di Charles è lo stesso di Waugh, autore che non pochi accostano a Francis Scott Fitzgerald per lo stile elegante e per una certa vocazione allo snobbismo, ma dal quale l’autore inglese si differenzia per la sua vena malinconica e per quel distacco di cui parlavo prima, che lo trattiene da ogni decisiva forma di speranza e di esaltazione. Al centro del romanzo c’è l’amicizia affettuosa tra Charles e il compagno di college Sebastian, rampollo dell’aristocratica famiglia dei Flyte, ragazzo triste che se ne va in giro con un orsachiotto di peluche e che soffoca nell’alcol diffidenze e incomprensioni, tormentato da conflitti familiari e dalla sua condizione di omosessuale poco compatibile con l’osservanza della fede cattolica. Il richiamo della e alla fede cattolica è un altro aspetto importante della storia ed è l’ennesimo specchio nel quale Waugh riflette se stesso

Nella prima parte del romanzo accade ben poco; i personaggi di Waugh non fanno: esistono, direbbe il Bret Easton Ellis di The Shards. Ciondolano tra una festa e l’altra, viaggiano in Italia, bevono champagne discettando di arte e beghe familiari, sempre al guinzaglio di riti e cerimonie che di lì a poco risulteranno desueti e anacronistici. Figura chiave della seconda parte della storia sarà Julia, la sorella di Sebastian con la quale Charles intreccerà una breve relazione. Anche qui la fede cattolica avrà un ruolo decisivo nell’evoluzione degli eventi e nel tragico destino che attende il piccolo mondo antico dei Flyte. A distanza di ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, Ritorno a Brideshead conserva intatta tutta la sua elettricità e brillantezza, e Waugh la sua rigogliosa verve narrativa, una corda tesa tra il Fitzgerald de Il Grande Gatsby e l’Andrew Sean Greer di Less. Checché ne dica Edmund Wilson, un vero capolavoro.

Angelo Cennamo

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QUELLI CHE PENSAVAMO DI CONOSCERE -David Joy

L’America non è mai stata innocente. Ricordate l’incipit di American Tabloid? Sylva è una cittadina di poche migliaia di anime nella contea di Jackson, North Carolina. Uno di quei centri urbani fatto di palazzi a due piani in mattoni verniciati, tagliato in due da una lunga strada, Main Street, che si interrompe proprio davanti a quel palazzo di Giustizia che l’editore Jimenez ha riprodotto fedelmente sulla cover di Quelli che pensavamo di conoscere, l’ultimo romanzo di David Joy. A Sylva si conoscono tutti, e il tempo sembra scorrere più lento che altrove. Lo sa bene Toya Gardner, la giovane artista nera di Atlanta venuta dalla nonna per compiere delle ricerche all’università e completare la sua tesi di laurea. Toya è una ragazza caparbia, idealista, tanto che la scoperta di un monumento confederato nel centro della città la spinge a una reazione forte e inaspettata. La vicenda di Toya si alterna a quella dell’arresto di un vagabondo sospettato di appartenere al Ku Kus Klan e nella cui station wagon viene ritrovato un taccuino con una lista di nomi altisonanti. Tra Toya e Willian Dean Cawthorn, questo il nome del vagabondo originario del Mississippi, c’è lo sceriffo Coggins, il personaggio intorno al quale ruota tutta la storia del romanzo, magnificamente orchestrata da Joy (scrittore quarantenne anche lui del North Carolina, già vincitore del Dashiell Hammett Prize con Queste Montagne, pubblicato in Italia nel 2022 sempre da Jimenez). Coggins è un uomo di legge ma in una piccola provincia come Sylva un tutore dell’ordine finisce sempre per avere dei legami familiari o di profonda amicizia con la gente del posto, e per Vess, la nonna materna di Toya, Coggins ha un affetto speciale essendo la vedova del suo miglior amico. Il rapporto di stima e di rispetto reciproco tra lo sceriffo bianco e l’anziana donna di colore, uno dei temi centrali del libro, travalica stereotipi e diffidenze, ma ora, con la presenza in città di Toya, rischia di incrinarsi pericolosamente. L’attivismo della nipote di Vess, innescato da alcune scoperte che riguardano gli antenati non solo della sua famiglia ma dell’intera comunità, comincia infatti ad avvelenare il clima di calma apparente e di tregua che a Sylva si respirava fino al giorno prima del suo arrivo, e a squarciare quel velo di ipocrisia che per tre generazioni aveva celato abusi e discriminazioni. 

Esiste un razzismo poco visibile, sottile, fatto di piccoli dettagli che i bianchi neppure colgono. Non c’è giustizia né gloria nella storia di Sylva e dell’intera nazione. Quelli che pensavamo di conoscere è una presa di coscienza collettiva, una vicenda di segreti inconfessabili e di un passato sepolto con cui l’America non ha ancora smesso di fare i conti. Uno spietato e sanguinoso redde rationem che non risparmia nessuno. 

Angelo Cennamo

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WALLACE, ULTIMO ATTO

“Raccontare l’apatia con garbo ed umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare”.

Giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che alla fine lo ha condotto al suicidio, è impossibile. Il realismo isterico della sua scrittura,  vertiginosa, torrenziale, lo sguardo malincomico – malincomico con la M – sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi  pubblicati sono indissolubilmente legati al noto malessere e a quel gesto risolutorio, forse inaspettato. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont, in California, pare che Wallace avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, e ordinato negli  scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. Un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato a Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa e uscite con gli amici. Dopo il successo di Infinite Jest, le aspettative dei lettori erano altissime. Un impegno troppo gravoso. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva come stai, lui alla sua maniera rispondeva:  “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del  romanzo che Wallace stava scrivendo vennero successivamente assemblati dal suo editor, Michael Pietsch, in un libro di circa 800 pagine, pubblicato col titolo de Il Re Pallido. E’ l’ultimo atto, il testamento inconsapevole di un genio compreso, capace di ricodificare la grammatica della narrativa nordamericana e non solo quella, completando l’opera di altri avanguardisti: John Barth, Don DeLillo, Thomas Pynchon. Incontrai Wallace nel giugno del 2006, a Capri, in occasione di un celebre appuntamento letterario organizzato sull’isola da Antonio Monda. Era la prima edizione. L’immancabile bandana, t-shirt rossa con una scritta, uno stravagante bermuda a vita alta, l’aria svampita di chi è stato trascinato controvoglia in un luogo troppo esotico per le sue abitudini: l’aspetto di Wallace era quello di un nerd che aveva svoltato. Lui e Jonathan Franzen, amici e rivali, confusi tra la folla che neppure li riconosceva, si aggiravano sulla piazzetta come turisti anonimi. A distanza di anni, ritrovo quelle immagini nella mia memoria e sul web, confuse tra mille altre evocate dai suoi scritti: appunti di viaggio, racconti, romanzi, interviste. Leggere Wallace è come sentirsi spalancare gli occhi, e quando sfogliamo i suoi libri, per un certo numero di pagine ci piace immaginare, come ha scritto qualcuno, di essere lui, di essere David Foster Wallace.

Photo: Keith Bedford/Getty Images.

Angelo Cennamo   

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LA COLLANA – Matt Witten

I monti Adirondack, nell’entroterra dello stato di New York, sono un luogo impervio e deindustrializzato, arrugginito dalla crisi come la Pennsylvania di Philipp Meyer e gli Appalachi di Chris Offutt e Ron Rash. Eppure la gente che popola le sue pendici un tempo occupate da fabbriche e da stabilimenti ben avviati, non si abbatte, continua a mettere su famiglia e a tirare avanti con lavori stagionali, col turismo (Lake Placid è da quelle parti), e tanta solidarietà. La storia di cui sto per parlarvi ci porta proprio in mezzo a queste montagne, tra persone semplici, uomini e donne che si rimboccano le maniche e si divertono con poco: quattro palloncini colorati, qualche birra, hamburger ben cotti, vecchie melodie country sulle quali ballare. La serata organizzata in favore di Susan serve a finanziare un viaggio di oltre duemila miglia e a chiudere il cerchio del tragico destino che l’è piombato addosso vent’anni prima. Fino ad allora Susan poteva dirsi una donna felice insieme a suo marito Danny e alla piccola Amy. Chi poteva immaginare che di lì a poco tutto sarebbe precipitato: lo stupido equivoco con Lenora (la madre di Susan che si distrae con uno due tre fidanzati), il messaggio lasciato sulla segreteria ma ascoltato troppo tardi, e la bambina che non fa più ritorno a casa dopo essere uscita di scuola. Sono trascorsi venti lunghi anni e ora Nel North Dakota stanno per giustiziarie il Mostro che ha stuprato e assassinato Amy, e abbandonato il suo cadavere in un bosco del Vermont, poco distante dal confine. 

Il viaggio solitario di Susan è picaresco, funestato da una serie di imprevisti e da tanta sfiga, diciamolo. Viaggia il corpo e viaggia anche la mente, a ritroso, tra i ricordi del passato, tra i mille se e i mille forse, i come sarebbe stato, i purtroppo. Della famiglia di Susan non resta più nulla: Amy è morta, Danny come se lo fosse. Sulla vita di Susan è calato definitivamente il sipario, ma – fermi tutti – un dettaglio apparentemente marginale potrebbe riscrivere la storia del delitto, forse archiviata con troppa approssimazione, imprudenza, pregiudizio? Forse. E allora la lunga odissea di Susan verso il North Dakota si trasforma in una freemente lotta contro il tempo. Corre Susan, e noi insieme a lei. 

Il nome di Matt Witten molti di voi non lo avranno mai sentito, ma se dico Dr. House, Pretty Little Liars e Low & Order? La Collana è un page turner dal quale farete fatica a staccarvi. Vi basteranno poche ore per leggerlo tutto perché avrete fretta di sapere come va a finire. È fondamentalmente un romanzo di trama, scritto come una sceneggiatura (inventare storie per la tv è il primo mestiere di Witten), con frasi brevi, tanto ritmo e un finale mozzafiato che si ribalta più volte nelle ultimissime pagine. I temi affrontati dall’autore sono due: il viaggio, che della letteratura americana come sapete è una specie di tratto identitario; l’orrore e l’indifferenza di tanti americani rispetto alla crudeltà della pena di morte “Si prova sempre un’emozione particolare a togliere di mezzo un assassino di bambini… siamo tutti belli carichi” dice l’impiegata del penitenziario che riceve Susan nel giorno dell’esecuzione. 

Angelo Cennamo

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IL CAMMINO DEL MORTO – Larry McMurtry

C’è stato un tempo in cui Gus McCrae e Call Woodrow erano due mocciosi che sognavano di andare a Ovest. La combriccola del maggiore Chevallie somiglia più a un’armata brancaleone di avvinazzati che a una compagnia di Texas Ranger: poche decine di vagabondi senza arte né parte, soprattutto senza mira. Ma tre dollari al mese per esplorare una possibile pista di diligenze fino a El Paso e trastullarsi di tanto in tanto con Matilda Roberts, “la grossa puttana” che per colazione mangia tartarughe azzannatrici e che farebbe carte false per aprirsi un bordello tutto suo in California, è sempre meglio che starsene a casa a girarsi i pollici.

Siamo alle prime battute de Il Cammino Del Morto, prequel di Lonesome Dove, il più bel romanzo western di sempre che valse a Larry McMurtry il premio Pulitzer. Il libro uscì negli Stati Uniti nel 1995 ma da noi è arrivato con trent’anni di ritardo, proprio sull’onda lunga del successo di Lonesome Dove, ormai opera di culto, tra le più citate nelle bolle social di libronauti, blogger, nerds et similia. L’epopea western di McMurtry si compone di altri due volumi (Comanche Moon, di prossima uscita in Italia, e Le Strade Di Laredo, già pubblicato) la cui cronologia editoriale evidentemente non combacia con la sequenza temporale della storia: fareste bene a tenerne conto se non avete ancora fatto la conoscenza di Gus e Call. Dicevo prima dell’allegra brigata del maggiore Chevallie, sempre ammesso che quell’omino tarchiato e inconcludente sia un vero maggiore “Il Texas era uno di quei posti dove la gente poteva dichiararsi qualcosa e poi cominciare a essere quello che aveva dichiarato”. Ci vuole una buona dose di ottimismo per sperare che certe spedizioni – e quella del cosiddetto maggiore è stata messa su con molta approssimazione e da gente troppo sprovveduta, gente troppo sprovveduta ad esclusione di Bigfoot Wallace, lui sì che può dirsi un vero Ranger – non si riveli un fiasco al primo scontro con gli indiani, soprattutto se l’indiano in questione si chiama Buffalo Hump, il guerriero Comanche più cattivo di cui si fosse sentito mai parlare. Le scorribande di Gus e Call ci fanno tornare in mente le cavalcate di John Grady e Racey Lawlins, i due ragazzi che giocano a fare i cowboy nella Trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. McMurtry e McCarthy per uno strano scherzo del destino sembrano l’uno l’anagramma dell’altro, due maestri che hanno declinato il western in modo diverso ma appassionando allo stesso modo milioni di lettori in tutto il mondo. Dai Cavalli Selvaggi al Meridiano Di Sangue, l’Ovest di McCarthy si riverbera in una dimensione più metafisica di quella pop o tradizionale di McMurtry. Le bisettrici però sono le stesse: il viaggio, il sogno, la scoperta, l’iniziazione, l’istinto di sopravvivenza. La Jornada Del Muerto, il cammino del morto, è un deserto di oltre duecento miglia nel sud del New Mexico. I nostri eroi, ormai stremati, affamati e feriti, lo percorreranno a piedi, prigionieri del capitano Salazar. Sono pagine indimenticabili, le pagine in cui la storia entra nel vivo. La traversata nel deserto, il momento più epico della narrazione, è preceduto da una flagellazione cruenta che evoca quella di Cristo. Il Cristo di McMurtry è Call Woodrow, il buon soldato, il ragazzo saggio e obbediente, l’amico premuroso del puttaniere Gus, dell’epicureo Gus, dell’opportunista Gus. Con loro, Bigfoot Wallace, miglior attore non protagonista, e Matilda Roberts, la Maria Maddalena di questa poderosa parabola biblica che viviseziona tutti i sentimenti umani. 

Angelo Cennamo

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CI VEDIAMO IN AGOSTO – Gabriel García Márquez

Il 6 marzo del 2024 Gabriel García Márquez avrebbe compiuto novantasette anni. Un traguardo tutto sommato possibile per molti contemporanei. Nello stesso giorno, in Italia come in altri paesi del mondo, è stato pubblicato un suo romanzo postumo (Ci Vediamo In Agosto), breve, brevissimo, poco più di  cento pagine, tradotte per Mondadori da Bruno Arpaia.  Márquez ci lavorò per oltre vent’anni, tra alti e bassi e una salute mentale ballerina che giorno dopo giorno inghiottiva ricordi, pensieri, immagini, e perfino il significato delle parole. Una gara contro il tempo, dunque, durante la quale il premio Nobel immaginò cinque versioni diverse della storia, prima di gettare la spugna e concludere che quel testo doveva essere cestinato, anzi distrutta ogni sua bozza, cancellata ogni riga. Non andò così. Dopo la morte (il 17 aprile del 2014) i figli di Marquez, contro la volontà del padre – a riguardo il New York Times ha pubblicato un’intervista a Gonzalo, il più giovane dei figli, nella quale si fa riferimento proprio alla promessa tradita – trasferirono le bozze del romanzo all’Harry Ransom Center presso l’Università di Austin, in Texas. 

Di cosa parla Ci Vediamo In Agosto. A primo acchito, si direbbe una storia tipicamente marqueziana, intrisa di desiderio, sensualità e mistero, ma con alcune eccezioni, prima delle quali il focus, che in questo caso investe insolitamente una donna, una donna e uno strano rituale. Ogni 16 di agosto Ana Magdalena Bach  sale su una barca e raggiunge l’isoletta dei Caraibi dove è sepolta sua madre. Ana è sposata con un musicista, ma sull’isola conoscerà altri uomini e si abbandonerà ai richiami di una natura più profonda e inesplorata di se stessa. L’anarchia. Il rimpianto. La felicità nascosta. Uno spazio indefinito, sbiadito come i vuoti di memoria, i demoni della privazione contro i quali lo scrittore colombiano ha dovuto combattere negli ultimi anni della sua vita. È il solo lato intrigante, l’unico significato possibile, al di là dello sbandierato, banale e fuori sincrono inno alla libertà delle donne, che può restituire a questa triste operazione commerciale la dignità di romanzo autentico, e perpetuare la memoria di un genio condannato alla demenza: la sovrapposizione delle storie fuori e dentro la trama, il progressivo affievolirsi della ragionevolezza e del rigido protocollo familiare che conduce da una parte Ana alla fuga da sé e dall’altra il suo alter ego alla morte. Conoscendo la vicenda dolorosa della genesi non del romanzo ma della “ipotesi” di romanzo poi rinnegata con forza dallo stesso Gabo, avevo deciso di non lasciarmi tentare dal facile richiamo dell’acquisto. Ma ho ceduto, sbagliando.  

Angelo Cennamo

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GLI ULTIMI GIORNI – Brian Evenson

Di Brian Evenson, scrittore originario dell’Iowa più o meno mio coetaneo, ne avevo sentito parlare come di un autore horror molto in gamba, innovativo, capace di spingersi oltre l’immaginabile, estremo. Non mi era ancora capitato di leggere qualcosa di suo, forse perché in Italia è arrivato poco oltre Last Days, romanzo uscito negli Usa nel 2009 e pubblicato da noi lo scorso anno da Nottetempo con la traduzione di Orso Tosco (stravedo per le storie allucinanti di Orso Tosco, chiusa parentesi). Gli Ultimi Giorni appartiene a quella rara ed enigmatica categoria di libri che io chiamo I Libri Strani. I Libri Strani sono i libri diversi da tutti gli altri o da molti altri che vediamo in giro sugli scaffali delle grandi catene o sui social; quei libri che sarebbe scontato definire Horror o diversamente Hard Boiled o Gotico o Thriller o Fantasy, o tutte queste cose assieme, e che solo per il loro essere diversi accendono la curiosità dei lettori (di alcuni) meritando uno sguardo più attento, più benevolo. Gli Ultimi Giorni però non è solo un Libro Strano, è prima di tutto una bella storia, una storia buia, claustrofobica, insolita, che ci cattura fin dalle primissime battute, direi dalla prima riga. E nonostante si tratti di una storia del tutto inverosimile, ogni sua parte si sviluppa secondo logiche comprensibili, perfino credibili, si muove secondo logiche profondamente umane. Di cosa stiamo parlando. Di un uomo, innanzitutto. Si chiama Kline ed è molto avvilito. Durante una pericolosa missione sotto copertura, Kline ha perso una mano, e per via di questa amputazione ora si ritrova prigioniero di una setta religiosa (la Confraternita della Mutilazione), che considera l’automutilazione la sola possibilità di salvezza, l’unica forma di emancipazione, di purificazione dai peccati commessi. Kline preferirebbe trascorrere i giorni che gli restano sprofondato nel proprio dolore. Vorrebbe tanto lasciarsi sopraffare dalla depressione e struggersi nel ricordo di quando era sano e felice, ma viene costretto a indagare su un omicidio avvenuto all’interno della Confraternita, un caso assurdo che nasconde nuovi misteri, altri inganni. Ho pensato a questo romanzo come a una gigantesca allegoria sul dolore, o a una parabola biblica sulla non accettazione del limite, sul desiderio di oltrepassare il confine della vita spogliandosi di ciò che è mortale, del corpo e di ogni sua vibrazione sensoriale. È un libro folle, crudo, che ha a che vedere molto con la fede. Qual è il modo migliore per trovare la giusta concentrazione e avventurarsi in romanzi così spinti e fuori dalla realtà? Io dico che non esiste nessun metodo se non quello di abbandonarsi tra le sue pagine. Buona lettura. 

Angelo Cennamo

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LUNE DI MIELE – Chuck Kinder

“Il mondo è il mondo e non scrive storie a lieto fine”. La storia dell’amicizia tra Chuck Kinder e Raymond Carver, perché di questo si parla in Lune di miele, ha un finale triste, l’unico possibile del resto. Nel romanzo i due sono Jim Stark (Kinder) e Ralph Crawford (Carver). Nelle prime pagine li vediamo come dei ragazzacci alcolizzati e visionari che si arrabattano con la scrittura nella California “decadente e modaiola degli anni Settanta”. A fine romanzo saranno le stesse canaglie di allora, con qualche dollaro in più in tasca forse. Più che uno scrittore di successo, Chuck Kinder è un personaggio leggendario, le cui dimensioni esistenziale e artistica si sono alimentate a vicenda, nel senso che senza quella vita lì Kinder non sarebbe diventato l’autore che conosciamo e non sarebbe stato così amato da chiunque abbia orbitato in quella malinconica parabola di sogni, alcol e merda che lo ha trascinato dall’Iowa alla California e dalla California alla Florida, prima di spegnersi a poco più di settant’anni nel ricordo vivo, vivissimo, di romanzieri come Michael Chabon, l’allievo più illustre che gli fece indossare i panni di Grady Tripp nel suo Wonder Boys. 

Ralph e Jim si dividono di tutto: ambizioni, spinelli, bottiglie di bourbon, perfino le donne. Le due mogli, Alice Ann e Lindsay, hanno un ruolo da coprotagoniste nel romanzo, Alice Ann in particolare riempie la scena almeno quanto Ralph; il loro matrimonio è burrascoso, focoso e violento, fatto di fughe e di ritorni, di singhiozzi notturni, soprattutto di tradimenti. Alice Ann è un personaggio magnifico, la metà del successo di questo libro lo dobbiamo a lei. Ralph, Alice Ann, Jim e Lindsay trascorrono molto tempo insieme, sono praticamente una sola famiglia. È una promiscuità curiosa, lussuriosa, scontrosa. Nonostante tutto: liti, bugie, sputtanamenti, i quattro sono inseparabili, uniti da un solo destino.

Tutta la storia è pervasa da un clima di precarietà, tutto è sempre sull’orlo del precipizio, a un passo dal baratro, ma a tenere in piedi Jim e Ralph è la loro profonda umanità, e la speranza. Lune di miele è un romanzo sulla speranza, una dichiarazione d’amore alla vita anche quando non mantiene le promesse o ti si mette di traverso. Il realismo sporco e comico di Kinder ricorda quello di Bukowski e Lansdale: poche parole, dialoghi serrati senza virgolette, qualche volgarità, tanto cuore.

Angelo Cennamo

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