Non c’è esperienza più complessa da raccontare dell’erosione di un legame. Non la sua esplosione, non il suo inizio travolgente, ma il lento sfaldarsi: quando l’amore si prosciuga, si ritira in una zona grigia dove il desiderio diventa abitudine, e la parola silenzio. Il disamore non ha epica, non ha lirismo. È un materiale opaco, spigoloso, che mette alla prova anche gli scrittori più esperti.
Eppure, è proprio in questo territorio difficile che si muove Gli autunnali di Luca Ricci, uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, pubblicato sette anni fa e già oggi con l’aura del classico contemporaneo. Un libro che non si accontenta di raccontare la fine di un amore, ma ne esplora le conseguenze perfino metafisiche, facendone il punto di partenza per una riflessione ampia sulla decadenza dell’arte, della scrittura, e dell’identità personale.
Siamo a Roma, sul finire dell’estate. In uno di quei pomeriggi in cui la luce si fa più obliqua e l’aria porta con sé l’annuncio dell’autunno, uno scrittore di mezza età rientra in città, svuotato d’ispirazione e ormai indifferente alla moglie. Il desiderio si è affievolito. Il sesso, sempre più raro, è diventato un gesto meccanico, un anestetico contro il tempo condiviso, non più un luogo di intimità o di scoperta. “L’ossessione dell’amore non era niente al confronto dell’ossessione del disamore”, scrive Ricci. Le coppie, a un certo punto, smettono di parlarsi. E iniziano solo a guardarsi. Questa malinconica routine viene spezzata da un accadimento inatteso: sfogliando per caso una biografia di Modigliani, trovata in un mercatino, il protagonista si imbatte nella fotografia di Jeanne Hébuterne, compagna dell’artista, morta suicida dopo la sua scomparsa. Quella figura in bianco e nero, remota e struggente, lo colpisce come un’apparizione: un brivido attraversa la pagina, trasformando la fascinazione in ossessione. Pochi giorni dopo, in un incontro apparentemente casuale, lo scrittore crede di riconoscere Jeanne nel volto di Gemma, la cugina della moglie. A quel punto, l’ossessione diventa carne, voce, presenza viva. Il desiderio si riaccende, ma non ha nulla di liberatorio: è torbido, malinconico, persino farsesco. Gemma è incinta, come Jeanne lo era prima della morte. E anche questo nuovo amore viene inghiottito dalle dinamiche della quotidianità. L’attesa del figlio trasforma il rapporto in una replica imperfetta del passato: non c’è spazio per l’intimità, per la passione, per la rinascita.
Lo scrittore, ormai preda di un’inquietudine crescente, cerca un rifugio nel corpo di una prostituta nigeriana. Al tempo stesso, confida le proprie angosce a un collega, Gittani, anch’egli in crisi creativa e personale. La moglie di Gittani, malata terminale, è ricoverata al Gemelli; lui la tradisce con un’infermiera. I dialoghi tra i due: cinici, disperati, sono tra le pagine più riuscite del libro. Non sono solo conversazioni tra amici, ma riflessioni taglienti su ciò che resta della letteratura, del desiderio, dell’etica in un mondo dove tutto sembra sfaldarsi.
Attraverso questi personaggi, due scrittori in caduta libera, Ricci mette in scena un affresco amaro del sistema editoriale italiano, dove l’autore si trasforma in recensore, dove l’autenticità lascia spazio all’opportunismo, e l’arte diventa esercizio di stile per pochi eletti.
In questa cornice crepuscolare, l’autunno è il simbolo di un disfacimento più vasto, che investe le relazioni, la creatività, la città stessa. Roma appare sullo sfondo come una capitale esausta, sospesa tra la retorica della sua grandezza passata e un presente disorientato. Il romanzo si muove tra questi due poli: il privato e il collettivo, l’intimo e il culturale, in una dissolvenza che ha qualcosa di dolorosamente vero.
Gli autunnali è, con ogni probabilità, il miglior lavoro di Luca Ricci. Per l’accuratezza della lingua: elegante, precisa, mai compiaciuta. Per l’architettura narrativa, che tiene insieme introspezione e racconto. E per quella malinconia così italiana, che richiama il cinema di Monicelli, le maschere tragiche e grottesche di Tognazzi e Noiret, ma anche la tradizione letteraria di Moravia (La noia, Il disprezzo) e il disincanto di Houellebecq (Piattaforma, La carta e il territorio).
Angelo Cennamo
Grazie per la recensione. Ho subito messo questo libro nella lista da comprare.
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