
Nel 1995, con Sabbath’s Theater – il Teatro di Sabbath – in piena maturità, Philip Roth, il più grande romanziere del suo tempo, si consacra tra i migliori scrittori di sesso. Il libro racconta la storia del sessantaquattrenne Mickey Sabbath, un ex burattinaio tormentato dai fantasmi del passato: il fratello più giovane morto in guerra, la madre, la prima moglie fuggita chissà dove, e Drenka, l’adultera con la quale ha sfogato per tredici anni tutta la sua depravazione sessuale “Con Drenka era come lanciare un sasso in uno stagno. Entravi, e le ondine si dispiegavano sinuose dal centro verso l’esterno finché l’intero stagno si ondulava e tremolava di luce”. Mickey Sabbath è un personaggio grottesco, sembra uscito dalla commedia dell’arte “un bugiardo totale, una canaglia, subdolo e disgustoso che si fa mantenere dalla moglie e va a letto con le bambine”. Un uomo senza scrupoli che conduce un’esistenza insensatamente fuori da ogni convenzione, senza nessuno scopo e senza armonia. Ma Mickey ne è consapevole e prova a farsene una ragione: “ho fallito perché non mi sono spinto abbastanza oltre! Ho fallito perché non sono andato fino in fondo.” In una delle scene salienti del romanzo, l’amico Norman, che nella vita ha avuto più fortuna e successo di lui, scopre che Sabbath ha tentato di sedurre sua moglie, e che nelle tasche dei pantaloni nasconde una mutandina di sua figlia. Colto in flagrante, il vecchio artista risponde alla sua maniera, alla maniera di Roth: “So che ti stupirò, Norman, ma oltre a tutte le altre cose che non ho, non ho neppure una teoria. Tu trabocchi di amabile comprensione progressista ma io scorro veloce lungo i marciapiedi della vita, sono un mucchio di macerie, e non possiedo nulla che possa interferire con una interpretazione obiettiva della merda.” È un povero disperato, Mickey, che non vive dando le spalle alla morte come fanno le persone normali. Non ispira simpatia nei lettori, è un uomo inassolvibile, solo l’autore sembra provare per quei fallimenti, per quella vita ripugnante, una vera compassione: “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria.” Dopo una sequela di disastri, nelle ultime pagine del libro, le più esilaranti, ormai sull’orlo della follia, Sabbath cerca in ogni modo di farla finita. Nel cimitero dove riposano i familiari prova goffamente a organizzare la sua sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994.” Ma è solo un altro fallimento, l’ennesimo, l’ultimo. Non c’è verso, Sabbath è un uomo condannato a soffrire, la sua vita di povertà e di lussuria è una carambola di sconfitte già scritte, una commedia dolorosa in cui imperversa lo sfacelo, in cui imperversa l’odio, in cui imperversa la disobbedienza, in cui imperversa la morte. Il più rothiano dei romanzi di Philip Roth.
Angelo Cennamo