
Il Messico che Guillermo Arriaga racconta nei suoi romanzi è un paese eternamente in bilico tra forze contrapposte, diviso in due tra chi ha paura e chi ha rabbia, tra chi osa e chi rinuncia. “Salvare il fuoco” arriva in Italia a tre anni di distanza da “Il Selvaggio”. In comune, questi due libri hanno solo la mole – poco meno di novecento pagine – e l’idea di un limite che prima o poi dev’essere superato, nonostante la legge, nonostante la morale. Provocazioni, sfide, gesti oltre l’umana ragionevolezza, il comune senso del pudore: questo è il materiale con cui Arriaga impasta le sue trame. Marina è una coreografa di Città del Messico; ha un marito giovane e ricco, dei figli, ma dentro di sé nasconde una strana inquietudine, una specie di smania per la dannazione, perché di questo parla “Salvare il fuoco”, di dannazione. L’altro dannato è José Cuauhtémoc, recluso a vita per aver ucciso prima il padre, poi altri due uomini. José è mezzo indio e mezzo vichingo: altissimo, biondo con gli occhi azzurri, di una cultura enciclopedica. Prima di essere bruciato vivo, suo padre gli aveva impartito un’educazione spartana, improntata al dolore fisico – lui e suo fratello, da bambini, erano stati sottoposti a delle vere e proprie torture – e alla conoscenza. L’incontro tra Marina e José avviene all’interno di un penitenziario, complice un amico omosessuale di lei – Pedro – nell’ambito di un progetto volto ad avvicinare i detenuti all’arte. È passione a prima vista. Marina è una donna annoiata e facile preda delle tentazioni; José è un poeta maledetto giunto all’ultimo approdo. I primi incontri sono innocui, poi tutto precipita nell’abisso della perversione più cruenta. Arriaga non si trattiene: il sesso – immaginato, sognato, bramato e compiuto crudamente in stanze buie e maleodoranti, tra secondini corrotti e sensi di colpa – occupa molte delle 844 pagine del romanzo. La storia d’amore tra i due protagonisti è intervallata da un epistolario scritto in corsivo dal fratello di José, una delle tre voci narranti del libro, oltre quella di Marina e di una terza persona anonima, e dalle vicende criminali dei cartelli del narcotraffico. È un’umanità corrotta fino al midollo, quella raccontata da Arriaga, e il confine tra bene e male, tra inferno e paradiso, è sempre lì a un metro dalla scelta sbagliata. Marina è una corda tesa tra Filumena Marturano e Anna Karenina; lei e il suo José mi hanno ricordato anche i protagonisti de “La camera azzurra” di Simenon. Marina e José, un solo destino, una sola follia, ora o mai più, non si torna indietro: dal fuoco non ci si salva.
Angelo Cennamo