“La celebrità esige ogni eccesso”. Leggere l’incipit di Great Jones Street nel giorno del commiato al più esagerato dei calciatori della storia, fa un certo effetto. DeLillo lo pubblicò nel 1973, tre anni dopo l’esordio di Americana. Protagonista del romanzo è una giovane rockstar che, all’apice del successo e durante una tournée, decide di abbandonare la propria band e di rifugiarsi in un angolo di New York, Great Jones Street, in “un monolocale piccolo e sbilenco e gelido che si affacciava su un panorama di capannoni, autocarri e macerie sparse”. Bucky Wunderlick e la sua Opel, artista senza talento, chiusi in casa a conversare a sfidarsi e a fare sesso come Brando e Schneider in Ultimo tango a Parigi. Bucky si sente “una vecchia cariatide del mondo dello spettacolo…L’industria musicale mi ha completamente distrutto.” Opel viaggia di continuo, e come tutti i viaggiatori “è noiosa”.
Al piano di sopra, Fenig, scrittore sconosciuto in attesa di gloria; a quello di sotto un giovane storpio. Nel suo monolocale Bucky riceve le visite di giornalisti a caccia di scoop, curiosi, emissari di una Comunità Agricola che vorrebbe lanciare sul mercato una nuova droga governativa che serve a fare il lavaggio del cervello “ai musi gialli o ai comunisti”. Perché Bucky è fuggito dai riflettori? Perché non esiste libertà senza privacy, prova a spiegarci DeLillo negli anni in cui due star della musica italiana – Mina e Battisti – fecero la stessa scelta del suo personaggio. Dopo il frastuono, la pace. Dopo il rumore, il silenzio, in una specie di preveggenza di due altre opere: Rumore Bianco e The Silence, uscito negli Usa poche settimane fa. L’isolamento di Bucky è la sola reazione possibile alla massificazione di una cultura piatta e senza slanci: forse è questo il senso delle 237 pagine del romanzo, non il migliore di Don DeLillo ma pur sempre un romanzo di DeLillo.
Angelo Cennamo