
“Non voglio che mi riabiliti. Solo che mi rendi più interessante”.
Un bizzarro narcisismo è la dimensione umana nella quale ha vissuto e si è manifestato Philip Roth, l’uomo e lo scrittore, la cui produzione letteraria, piuttosto vasta (trentuno libri), non è stata altro che una biografia espansa e mascherata, se preferite una gigantesca menzogna intrisa di verità, un gioco di specchi senza sosta che sembra culminare ne “I fatti”, il romanzo nel quale il genio di Newark fa dialogare se stesso con l’alter ego Nathan Zuckerman. Ma quando si ha a che fare con Roth è bene non fidarsi troppo perché è proprio nei tratti più verosimili che si nasconde la mistificazione. I suoi romanzi “sono il frutto dell’interazione tra i miei lavori precedenti, la mia storia personale recente non ancora digerita, le circostanze della vita quotidiana e i libri che stavo leggendo e insegnando”, fa scrivere a Blake Bailey, l’autore della travagliata biografia che negli Usa è diventata un caso nel caso per i noti inciampi processuali che ne hanno ostacolato la distribuzione.
Quella raccontata da Bailey è fondamentalmente una storia d’amore. Per le donne (tantissime, al punto che viene da chiedersi se le mille e passa pagine del libro non siano giustificate proprio dal numero infinito di relazioni, di un giorno o di un anno, che lo scrittore coltivò tra la stesura delle sue opere e i numerosi viaggi anche in Europa). Per la famiglia di origine (il padre Herman, l’assicuratore indefesso di Newark protagonista del commovente “Patrimonio”, la madre Bess, il fratello Sandy). Per la letteratura e gli amici. Questa storia l’avrà pure scritta Bailey ma possiede una forte impronta stilistica del suo personaggio: siamo sicuri che Roth non ci abbia giocato uno dei suoi scherzi e che Bailey – lui esiste per davvero – non sia in questo caso uno dei numerosi travestimenti?
Dunque l’amore. E il sesso “la tirannia del sesso”. Il matrimonio complicato con Maggie Martinson, la donna più grande di lui – divorziata con due figli – che lo inganna con un falso test di gravidanza; la storia finirà ne “La mia vita di uomo”…era riuscito a “trasformare quella merda di matrimonio in un libro”. La seconda unione con Claire Bloom, l’attrice shakesperiana che lo sputtana con un ferocissimo memoir (quanto avranno pesato certe rivelazioni sul Nobel mancato?). La relazione adulterina con Inga Roth la ricostruisce ne “Il teatro di Sabbath”, il romanzo più rothiano di tutti. La sbandata per la giovane alcolizzata Sylvia diventerà invece la sottotrama de “La macchia umana”: Sylvia è la Faunia Farley che fa perdere la testa a Coleman Silk, il docente del New England vittima del pregiudizio e allontanato dal college per uno stupido malinteso.
Le donne nei libri di Roth, ma anche Roth nei libri delle donne di Roth: chi pensate si nasconda dietro il vecchio scrittore ebreo di “Asimmetria” che fa innamorare la giovane Lisa Halliday?
L’ossessione per il sesso ha accompagnato l’uomo e lo scrittore oltre ogni traversia fisica: interventi chirurgici, ricoveri per forti stati depressivi, sedute psicanalitiche, dal “sogno byroniano” di Chicago “bibliografia di giorno, donne di notte” ai flirt più recenti con Ava Gardner, Jakie Kennedy e Mia Farrow “Le erezioni del 1950 erano esattamente uguali alle erezioni del 2012, ma le erezioni del 1950 non andavano da nessuna parte”.
La scrittura, i libri, le infatuazione per i colleghi più anziani e della sua generazione. La scoperta di Saul Bellow, uno dei maestri e tra i più cari amici di Roth, avviene con “Le avventure di Augie March”.
“È un libro d’esordio ma non è il libro di un esordiente” scriverà Mr. Herzog di “Goodbye, Columbus”. “A differenza dei tanti, fra noi, che sono venuti al mondo ululando, ciechi e nudi, Philip Roth è apparso in scena con unghie, capelli e denti formati, e già capace di esprimersi con coerenza”. Per Saul Bellow Roth ebbe una specie di venerazione che proseguì anche in età matura “Lo tratto ancora come il maestro che è, e mi comporto come il ragazzo che sono”, ma i suoi slanci di stima non furono sempre ricambiati.
Nella lunga e dettagliatissima ricostruzione storica (dieci anni di preparazione) Bailey non fa sconti, non omette le parti più intime, quelle pruriginose e deludenti della vita dello scrittore, e tra un fatto e l’altro non rinuncia ad entrare nella narrazione, giudicando, comparando, valutando, sovrapponendosi alle analisi, a dire il vero non sempre lusinghiere, di Michiko Kakutani o di Harold Bloom. Leggendo Bailey finiamo per rileggere ciascuno dei romanzi di Philip Roth (se ne avete letti meno della metà vi converrà rimandare l’acquisto): le parti scritte, quelle solo pensate o abbozzate, le immagini, la vita spesa e vilipesa sulla quale sono state imbastite trame e personaggi. Il risultato è eccellente. Bailey ci lascia un’opera monumentale e imprescindibile, il romanzo di una biografia più che la biografia di uno dei più straordinari testimoni del suo tempo. Un libro unico, un libro magnifico.
Angelo Cennamo
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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