FERROVIE DEL MESSICO – Gian Marco Griffi

È venuto fuori in punta di piedi, con un passaparola quasi carbonaro. Lo hai letto “Ferrovie del Messico”?, ti chiedono in giro, tra un reading e una videocall. Lo hai letto? Sì, l’ho letto e penso sia tra le cose migliori uscite in questo 2022 troppo sobrio e povero di capolavori, di idee originali e di sperimentazioni – quelle mancano sempre. La lunghezza, oltre ottocento pagine, non scoraggia affatto, anzi è un richiamo, subdolo e morboso per le solite nicchie, i paranoici del mattone, i dipendenti dal malloppo. Parlo per me.

Il viaggio da Asti al Sudamerica è lunghissimo, avventuroso, ma ci caschi subito dentro, appena il tempo di sbirciare l’incipit, la sferzata che scalda i motori e ti spinge fino in fondo. 

L’opera di Griffi è vertiginosamente alta eppure popolare, un grande romanzo popolare, divertente, tragico, poetico, corale, antico, ah il Novecento! Un labirinto dal quale non vorremmo mai uscire e dal quale non si esce per davvero.

“Ferrovie del Messico” fa commuovere e fa ridere con lo stesso periodo; spiazza, stordisce: mille sono i registri e mille i rivoli di questo flusso d’acqua di parole cristalline che vengono giù senza sosta, inarrestabili. Sembra scritto da Roberto Bolaño, da Paolo Conte, Borges, Vinicio Capossela. “Sotto le stelle del Messico a trapanar”, cantava Francesco De Gregori tra guizzi di fisarmonica e strusciate di plettro. Tu chiamale se vuoi commistioni. Eccolo il canone che la più spenta letteratura italiana di questi anni farebbe bene a cavalcare, senza complessi e inibizioni. Ci vuole follia, serve incoscienza per toccare certe vette di aria pura. Realismo magico? Pare di sì, ma c’è dell’altro. La scrittura di Griffi è larga, spessa come una corda, colta, onomatopeica, eppure ci soprende con parole semplici, improvvisi inabissamenti, lucenti e genuine risalite. Il ferro e la pietra, il sudore e la fatica, il coraggio, l’amore, l’ottundimento e l’attesa. Dei libri si dice che non hanno data di scadenza, di questo si parlerà a lungo, forse per sempre. 

Angelo Cennamo

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