“La mia vita consiste quasi esclusivamente nello stare da solo a scrivere chiuso in una stanza“
A cinque mesi dalla sua morte, Philip Roth continua a parlarci di sé, questa volta con una raccolta di saggi e interviste pubblicate in Italia dalla Einaudi col titolo Perché scrivere? Leggendo i romanzi di Roth spesso ci chiediamo quanto ci sia di vero nelle sue storie, dove sia il confine tra simulazione e dissimulazione. L’invenzione di Nathan Zuckerman, lo scrittore alter ego che arriva ad uccidere il padre con un romanzo che dissacra i valori della tradizione ebraica – Carnovsky, è la leva sulla quale poggia l’intera vicenda artistica di Roth. Attraverso la figura di Zuckerman, il genio di Newark spia i suoi lettori dal buco della serratura e traveste la propria vita mescolando ogni cosa, il reale all’irreale. Roth si serve di Zuckerman per raccontare i traumi e vizi dell’infanzia – Lamento di Portnoy – il naufragio prematuro del suo matrimonio – La mia vita di uomo – il successo improvviso che travolge e disorienta – Zuckerman scatenato. Da uno scrittore di successo come lui ci saremmo aspettati il racconto di una vita densa di avventure, viaggi, trasgressioni, ed invece l’esistenza di Roth si è riempita perlopiù di interminabili momenti di solitudine “La mia vita è così priva di eventi che, in confronto, L’innominabile di Beckett sembrerebbe Dickens“. Otto ore al giorno, sette giorni alla settimana, 365 giorni all’anno per raccontare le vite degli altri passando per la propria. La scrittura può diventare un’ossessione oltre che un lavoro. Perché scrivere? A cosa serve la narrativa? Sono le domande che i suoi interlocutori, noti e meno noti, gli pongono nelle rare occasioni di incontro, rare soprattutto da quando ha scelto di trasferirsi in campagna, lontano da tutto. “Quello che voglio è possedere i miei lettori mentre stanno leggendo un mio libro…La narrativa dipende da uno strumento di conoscenza unico, l’immaginazione, e il suo sapere è inseparabile dall’immaginazione“. A chi gli chiede come ti definiresti, lui risponde semplicemente: “Sono uno che passa tutto il giorno a scrivere”. Perché scrivere? non è un libro di facile fruizione, soprattutto per chi è a digiuno di storia americana e ha letto poco di Roth; alcune sue parti sull’universo ebraico possono risultare perfino noiose, ma è un manuale prezioso per chi ama il mondo della letteratura, i suoi protagonisti, le tecniche della scrittura. Le analisi dei romanzi di Saul Bellow e di Bernard Malamud sono tra le cose migliori del libro, uno spaccato interessantissimo della narrativa ebraica americana del Novecento: Bellow, Malamud e Roth ne sono i capofila indiscussi. Gli incontri con Primo Levi e Milan Kundera, la simbolica ricomposizione di un puzzle che contiene un’unica storia, gli orrori della persecuzione razziale, il desiderio di raccontare ai posteri il dolore e la fatica, la migrazione verso la liberà. Per Roth la libertà è l’America, la lingua inglese, l’approdo ad una narrativa disomogenea, ricca di contaminazioni, scevra da condizionamenti politici e da qualunque forma di indottrinamento, senza una “scuola” letteraria, una meravigliosa concatenazione di universi paralleli che lo scorso secolo ha forgiato almeno un paio di generazioni di grandi scrittori e che oggi trova in Franzen, Chabon, Englander, Safran Foer i suoi migliori eredi.
Angelo Cennamo