Ricordate la storia di John Williams, l’autore di Stoner, romanzo uscito nel 1965 e rimasto pressoché sconosciuto per cinquant’anni, fino cioè a una sua casuale ripubblicazione in Europa che lo fece diventare un clamoroso caso letterario? Bene. La storia di John Williams somiglia molto a quella di Don Robertson, romanziere nativo di Cleveland, nell’Ohio, che Stephen King definisce come uno dei più grandi scrittori meno conosciuti degli Stati Uniti. Lo scrive nell’accorata introduzione a L’uomo autentico, romanzo del 1987 che King ha voluto riportare all’attenzione dei lettori americani, in Italia edito dalla Nutrimenti e magnificamente tradotto da Nicola Manuppelli. L’uomo autentico è Herman Marshall, settantaquattro anni, una vita trascorsa a guidare camion, una moglie – Edna – malata terminale di cancro, e un figlio – Billy – morto all’età di diciassette anni per una meningite spinale. Negli ultimi giorni di vita, Edna confida a Herman che il padre biologico di Billy è un altro uomo; la sua identità rimarrà incerta per buona parte del racconto. Un tarlo, un pensiero che non si cancella nella mente del protagonista. È una vita difficile quella di Herman: tanto lavoro, la dura esperienza della guerra, il dolore per la scomparsa prematura di Billy. Nel bene e nel male, lui e Edna l’hanno vissuta sempre insieme “Le aveva tolto la verginità in un terreno abbandonato dietro un cinema di Shreveport nel 1934″. Una vita densa di ricordi, soprattutto, ogni tanto Herman sale in soffitta e ne prende uno per portarlo alla moglie; è un gioco, un rituale per esorcizzare la paura, per non cedere al pensiero della morte “Pensò ai cimiteri. Pensò a tutte le persone che erano sepolte nei cimiteri. Si chiese a cosa succedeva a tutte le loro risate, a tutte le loro ambizioni, a tutti i loro traguardi”. Raccontata così, questa storia vi sembrerà una noiosa sequela di vicende dolorose; di sicuro lo sarebbe se a scriverla non fosse stato quel genio di Robertson, autore capace di farci sbellicare di risate anche nei momenti di maggiore tristezza, per poi cambiare improvvisamente registro usando parole commoventi, cariche di poesia: le pagine da 155 a 163 del libro sono tra le migliori che mi sia mai capitato di leggere. La relazione nella quale Herman si lascia coinvolgere da Jobeth, la ninfomane ottantenne che non rinuncia a sedurre il vicino di casa neppure nelle ore del funerale di sua moglie, è malinconica ed esilarante al tempo stesso; nulla a che vedere con Le nostre anime di notte di Kent Haruf, certo, ma la traccia narrativa non è poi così diversa. Con la morte di Edna si chiude un ciclo. Herman dà segni di intemperanza. L’uomo buono, onesto, comprensivo, rimugina sul suo passato, rielabora, riconsidera. La frustrazione si trasforma in rabbia, la rabbia in paranoia, la paranoia diventa follia. Siamo al diciottesimo capitolo. Inizia qui un altro romanzo. Inizia il thriller. Preparatevi a un finale incandescente, cruento, un finale imprevedibile “Non avrete mai letto nulla come questo romanzo. Mai. Mai.”
Angelo Cennamo